30/09/08

Religious Knives




Le lunghe e dolenti note di Brooklyn After Dark aprivano il loro primo album per Troubleman Unlimited, una delle più stilose indipendenti della costa est, gemellata con il marchio dance culto Italians Do It Better. L'occhio lungo del boss Mike Simonetti era arrivato a cogliere le movenze di questo giovane trio locale, le cui musiche con fascino e propensione tutta urbana sembravano echeggiare la migliore psichedelia californiana. In realtà i Religious Knives erano formazione di casa, con altre sigle si erano già fatti largo nelle spire dell'underground locale, realizzando documenti sonori ben più tetri e distaccati. Maya Miller e Mihael Bernstein si incontrano a New York 10 anni fa, la prima formazione cui danno vita sono i Double Leopards, misterioso combo dedicato ad un artistico e melmoso drone-rock, più prossimo all'idea di rumorismo che non ad una qualsiasi forma canzone. Un rito antico, che possiamo in qualche maniera riportare ai Velvet Underground, altezza Sister Ray. Nel 2005 i Religious Knives sono la nuova fenice, il duo progressivamente si affranca da una dolorosa esperienza mistica, orientandosi verso nebulose psych-rock, che in maniera prepotente descrivono la nuova impennata di un genere che dopo la cultura delle droghe dei 60/70, conosce una canalizzazione più severa, urbana. La strada è il luogo dell'esperienza lisergica, il sogno americano definitivamente tramontato, l'onda lunga della crisi finanziaria, il sangue che si scioglie in dementi danze lisergiche. Mai gruppo fu più attuale. Nel 2006 entra in pianta stabile un altro ragazzo terribile dei bassifondi newyorkesi, risponde al nome di Nate Nelson. Si divide tra batteria, percussioni e basso elettrico, in principio il suo ruolo era quello del terrorista sonico, tanto che i suoi Mouthus sono a ragione considerati tra i gruppi cardine del movimento noise americano, alla stessa stregua di Wolf Eyes e – per altri versi – Black Dice. Queste arcaiche danze mortuarie iniziano ad assumere un aspetto delirante, tribale è la musica dei Religious Knives, ancora costruita attorno al concetto di reiterazione. L'organo di Maya Miller diviene ben presto l'elemento caratterizzante del gruppo, come un Ray Manzarek dall'inferno. E addirittura i Doors del re lucertola sembrano materializzarsi all'orizzonte, quando ripetutamente scorrono nel lettore cd i loro dischi per Troubleman e No Fun (l'etichetta di un altro personaggio culto della nuova New York, Carlos Giffoni, organizzatore dello stesso No Fun Fest che vedrà protagonisti i Religious Knives). Poi il sogno sbiadito del kraut rock, i possenti ghirigori ritmici di una jamaica marziana così come illustrati dai P.I.L. di Second Edition, futurismo primitivo, avete indovinato... C'è stata anche la gavetta con i cd-r per la loro personalissima Heavy Tapes, ma ora i tre entrano una nuova dimensione, c'è un produttore artistico – Thurston Moore – ed uno esecutivo – Justin Pizzoferrato (uno che recentemente ha lavorato con Sonic Youth, Dinosaur Jr e Free Kitten) – un nuovo album da promuovere – The Door per un marchio importante quale Ecstatic Peace – ed una nuova sfida da lanciare al mondo, senza essere per nulla sprezzanti. La cosiddetta new weird America riparte da qui.

"In a land far, far from the confines of the A-A-B-A song format lies a different form of organization: The Mantra. Religious Knives mine this never-ending pit for all it's worth, digging greedily until there's little room left for human life.." TINY MIX TAPES

Tornano i Shelleyan Orphan



Una poesia, quasi elegiaca. La storia del duo composto da Caroline Crawley e Jem Tayle si perde quasi nella notte dei tempi, un quarto di secolo, tanto tempo è passato dalla loro fondazione, avvenuta – carte alla mano – nel 1983, in pieno fermento new wave. Il gruppo si ispira sin dal nome ad uno dei massimi poeti del romanticismo inglese, Percy Bysshe Shelley.

Nel 1985 i Shelleyan Orphan siglano un contratto con Rough Trade, prima di ciò mettono a curriculum una ragguardevole performance per la sempre rispettabile Radio 1 ed un'apparizione al fianco di Jesus & Mary Chain durante un'uscita londinese, elementi utili a convogliare ulteriori attenzioni sul loro struggente ibrido, che pur conservando un'attitudine ed un piglio post-punk, può definirsi pop cameristico. Il loro primo album 'Helleborine' prodotto da Haydn Bendall, è già un caso per la critica specializzata: il loro pop dalle tinte classicheggianti spiazza più di una persona, fanno altrettanto gli strumenti tirati in ballo (Strumento da Porca, tamboura). Del resto assai variabili sono le loro influenze, dai Joy Division agli Sparks, passando per Barry White e Delius. 'Century Flower' del 1989 – prodotto da Dave Allen (The Cure, Human
League) – consente il cosiddetto salto di categoria, proprio con un tour di supporto alla band di Robert Smith, che toccherà sia Europa che Stati Uniti. Il terzo album – 'Humroot' del 1992 – incrementa ulteriormente le combinazioni musicali, tirando dentro strumenti come l'hurdy gurdy ed il dulcimer. Ma il coevo fallimento commerciale di Rough Trade ne impedisce la regolare distribuzione. I fan più accaniti ottengono comunque il mirabolante oggetto ed il duo continua ad esibirsi pubblicamente per almeno un altro paio di anni. Prima di una lunga pausa che gli consentirà di lavorare ad alcuni progetti solisti.

Sono di nuovo tra noi, comunque, e questo è ciò che più conta, prossimi a licenziare il nuovo album per One Little Indian: 'We have everything we need', più che una promessa una candida ammissione. La musica? Ancora soavi quadretti che odorano di pop bucolico e mistica poesia, con le candide voci dei due protagoniste perse in duetti ancestrali. Un volo pindarico, senza tempo, che ci riconsegna in ammaliante forma una delle più originali formazioni inglesi dell'ultimo ventennio.

29/09/08

Adam Ficek balla da solo




Adam Ficek è l’uomo che si nasconde dietro al monicker di Roses King Castles. Un richiamo ancestrale per questa one man band, apparentemente timida, verosimilmente legata ad un immaginario da ‘cameretta’ eppure così puntuale nel realizzare un album che travalica tutti i luoghi comuni del cosiddetto lo-fi e del new acoustic movement. Prendeteli come piccoli acquerelli, le sue canzoni sono emozionanti numeri pop dai sobri arrangiamenti, con una malinconica vena folk e piccole orchestrazioni dal gusto appena barocco. Una sorpresa scoprire questo disco un ragazzo londinese che era già salito alla ribalta con i Babyshambles di Pete Doherty, sedendo per di più dietro ai tamburi. Non c’è furia ma tanto buongusto, gentili ballate old fashioned e momenti di squisita emotività, un ipotetico viaggio che da Syd Barret porta a Graham Coxon attraverso la lucentezza dei Belle & Sebastian. Una rivelazione

25/09/08

Jake One - White Van Music




Il produttore di Seattle Jake One è una delle menti più sottili nell’odierno e sfavillante circuito dell’hip hop moderno, laddove il compromesso sembra all’ordine del giorno e le pose assumono valore assoluto di fronte alla bontà stessa delle composizioni. Il suo è un curriculum eccezionale, con collaborazioni che si estendono da 50 Cent a De La Soul. Invidiabile però l’attitudine di Jake One, mai un passo indietro il suo motto, tanto da imporre il suo sound nella top 10 di Billboard. Mettendo insieme le influenze dei suoi padri spirituali DJ Premier, Dr. Dre e DJ Quik con un sano tocco di modernità, Jake è stato capace di colmare il gap tra passato e presente.
Spesso associato al collettivo G Unit, Jake inizia la sua trafila nella città natale seguendo le uscite di Conception Records sul finire degli anni ’90. Questa è solo una piattaforma, presto il suo nome sarà associato ad alcune icone impensabili – come a quella del wrestler John Cena – o a noti epigoni della nuova scena come Gift Of Gab. Dopo il progressivo assorbimento nella cultura mainstream Jake One torna a bomba nel 2008 con un lavoro indipendente, licenziato da uno dei migliori marchi hip-hop underground: Rhymesayers Entertainment. White Van Music è un disco eccezionale, vale la pena mettere immediatamente le cose in chiaro. Da un produttore di tale stazza non potevate che aspettarvi una rivoluzionaria miscela rn'b dai tratti quasi futuristi. E se le amicizie contano ancora qualcosa, nutrita è la parata di stelle che si alterna tra questi solchi: da Young Buck a MF Doom, passando per Busta Rhymes e Brother Ali. Non mancano certo i numeri a questa uscita, che si pone ai vertici di tutto l’hip-hop ascoltato nell’ultimo biennio, una spinta rivoluzionaria che rompe gli indugi e rilancia la figura di Jake One ben oltre i paradisi platinati del mainstream.

Headhunter - Nomad

Assieme ad Hyperdub, Tempa è divenuto marchio di riferimento per quella corrente sotterranea ormai assurta agli onori delle cronache internazionali: il dubstep. L’album di debutto di Headhunter da Bristol segue una tradizione giovane ma assolutamente radicata. Ed è il terzo centro per Tempa dopo le travolgenti intuizioni di Skream e del guerriero afro-elettronico Benga. Già abile nel conquistare i dancefloor britannici e nordamericani, Headhunter presenta quella che è una sorta di raccolta di singoli (lo ricordiamo all’opera precedentemente con etichette simbolo quali Planet Mu e Tectonic), ampliata da brani inediti concepiti appositamente per l’esordio sulla lunga distanza.
Nomad il titolo dell’album e nomade anche l’approccio del nostro alla materia ritmica, con passaggi che rievocano tanto la cultura techno e quella dei rave parties, quanto le tecniche d’incisione del dub ed una più generale fascinazione per l’elettronica dell’ultimo ventennio.
Nomad perché ogni traccia è stata concepita in una diversa location, tra Europa e Stati Uniti, a testimonianza della mobilità del nostro, che oltre ad essere produttore in ascesa, può a ragione essere considerato dj di fama internazionale, grazie anche alle residenze presso il Ministry Of Sound ed il The End (Londra). Headhunter è anche protagonista della serata dubstep per antonomasia nella capitale inglese: Fwd And Subloaded.
Un artista che adora anche la dimensione live, memorabili gli incontri in questo contesto con Maurizio (il Maurice Von Oswald di Basic Channel, una delle sue dichiarate influenze), Gilles Peterson ed il riverito dj hip-hop Z-Trip. A breve Headhunter si imbarcherà in quello che è il suo terzo tour americano.
Date queste premesse, non facciamo fatica ad immaginarlo come una marcia trionfale. L’attualità di un genere è nelle sue mani.

Alice Russell - Pot Of Gold

Soul music del nuovo millennio, future jazz, downtempo, mille e più etichette sono state affibbiate alla chanteuse britannica, uno dei cavalli di razza di quella che potremmo definire nuova canzone elettronica. Il curriculum di Alice Russell è di spessore, la sua una voce nera ‘intrappolata’ in un corpo bianco, tanto che spesso è stata accostata ad eminenze quali Minnie Ripperton, Chaka Khan e Betty Davis. Dopo il suo coinvolgimento da giovanissima nei sofisticati Bah Samba – che già dal nome tradivano l’influenza di un sound elettronico finemente esotico (nel 2000 furono eletta miglior band nel genere da un vecchio marpione come Dimitri From Paris, che li incluse in un mixtape di sua ideazione) - Alice trova nel produttore/musicista Quantic (al secolo Will Holland) un nuovo straordinario alleato, l’etichetta che licenzia il suo primo album – Under The Munka Moon (in cui ci mettono lo zampino anche i Plaid) – è la Tru Thoughts di Brighton, una delle realtà più ricercate nell’ambito della discografia indipendente inglese. Immediati sono i riscontri di critica e pubblico, Alice diviene in brevissimo tempo eroina della club culture continentale. La sua backing band – con elementi assortiti della Quantic Soul Orchestra – spinge vertiginosamente su un plot a base di funk e soul, mostrando peraltro una sensibilità nei confronti di sonorità come breakbeat e moderno hip-hop. Con il secondo album My Favorite Letters del 2005 (dietro al banco di regia siede un altro produttore estroso come Tm Juke, nome di casa presso la stessa Tru Thoughts e Ubiquity) il sound si fa ancora più avvincente, ma il colpo gobbo arriva nel 2006 con Under The Munka Moon II, in cui fa bella mostra di sé il singolo Seven Nation Army, preparato in combutta con Nostalgia ’77 (altra realtà del nu-jazz albionico) cover del celebre anthem da stadio a firma Jack White. Nel frattempo si è scatenato un putiferio sul globo terracqueo: il soul è la nuova religione, tutte le attenzioni sono puntate su quegli artisti che partendo dalla tradizione Stax/Motown hanno saputo traghettare il nuovo verbo ai giorni nostri. Sono momenti propizi per Alice Russell, dopo l’exploit internazionale di Amy Winehouse ed il ritorno in pista di una sempre fantastica Sharon Jones, il nuovo album della vocalist inglese – il suo quarto - sembra uscire nel periodo più opportuno. Si chiama Pot Of Gold ed il titolo lascia già presagire ottime cose. E’ soul moderno, della miglior lega, svetta al solito la voce di Alice, in brani che si colorano di classicità, affrontando però a testa alta la contemporaneità. Ci sono mid tempo che invitano al moto e ballate frizzanti, oltre ad una cover che non farete fatica a riconoscere, un tormentone di un’estate fa: Crazy dei Gnarls Barkley. Il mondo è ora Alice Russell.

Pot Of Gold esce in Italia il 17 Novembre

24/09/08

Make the Road by Walking

La Menahan Street Band è un gruppo aperto, collaborazione tra musicisti dell’area newyorkese, facenti capo a formazioni del calibro di Sharon Jones & the Dap-Kings (Dave Guy, Homer Steinweiss, Fernando Velez, Bosco Mann), El Michels Affair (Leon Michels, Toby Pazner), Antibalas (Nick Movshon, Aaron Johnson) e Budos Band (Mike Deller, Daniel Fodder). La formazione è stata ‘scientificamente’ assemblata dal produttore/musicista Thomas Brenneck (Sharon Jones & the Dap-Kings, Budos Band, Amy Winehouse) per registrare presso il suo appartamento, sito proprio in Menahan St., nel quartiere di Bushwick, Brooklyn. Le influenze del gruppo sono molteplici ed abbracciano un ampio periodo nella storia della black music, ci sono elementi di funk, soul ed afrobeat - che frequentemente fanno capolino nei gruppi madre - come slanci più eterei che lasciano pensare ad alcuni arrangiamenti di Curtis Mayfield o del vibrafonista etiope Mulatu Astatke.
La Menahan Street Band ci conquista con un approccio strumentale, molto soulful, crudo e suntuoso nella stessa misura. L’album di debutto vede la luce per il nuovo marchio Dunham Records, sottoetichetta gestita da Brenneck e legata a doppio filo con Daptone Records. Ricchi gli arrangiamenti, per via di un organico che sfrutta le potenzialità di vibrafono, fiati, piano, organo, percussioni e manipolazioni provenienti direttamente dal banco regia.
Il gruppo raggiunge immediatamente la ribalta della cronaca dopo la pubblicazione del primo singolo, “Make the Road by Walking”, campionato da un altro musicista doc di Brooklyn, Jay-Z, che lo utilizza nell hit single“Roc Boys (and the Winner is…)” estratto dal milionario album American Gangster.
Make the Road by Walking è una vera e propria esplorazione negli ambiti del soul strumentale, una prova di forza da parte di un giovanissimo e talentuoso collettivo. Una creazione originale, personale ed incompromissoria.

23/09/08

Everything That Happens Will Happen Today

DAVID BYRNE & BRIAN ENO


Sono trascorsi qualcosa come 30 anni dalla storica collaborazione tra Brian Eno e David Byrne a titolo ‘My Life In The Bush Of Ghosts’. Un disco che apriva prepotentemente alle contaminazioni con la musica etnica, utilizzando un linguaggio ritmico per i tempi decisamente all’avanguardia. Lo scenario era una metropolitana New York, multiforme come da copione: persa tra le pieghe della borghesia illuminata ed il cosiddetto street knowledge. Proprio la ristampa di quel capolavoro riconosciuto – con nuovo packaging, mixaggio inedito e la possibilità di interagire con uno stuolo di fans grazie ad un democratico scambio di file – ha consentito ai due musicisti di recuperare confidenza con l’argomento e fissare i punti per una nuova joint venture. Nata – come per incanto – di fronte ad una tavola imbandita. Proprio in quell’occasione Brian Eno sostiene di aver accumulato un quantitativo interessante di musica, senza alcuna canzone propriamente intesa. Byrne si presta dunque come volontario, mantenendo una prospettiva autonoma, curando solo ed esclusivamente le parti vocali e le liriche. Secondo le parole dello stesso Eno la lavorazione del disco è stata prossima a quella di un gospel ‘elettronico’, dove la voce assume un ruolo primario, centrale. Una musica che con naturalezza deve essere invitante ed offrire una prospettiva ‘interna’ all’ascoltatore. C’è appunto un senso di quiete cha avvolge l’intero album, la frenesia urbana e l’incesto ritmico rimangono ai margini delle composizioni, quello che emerge è un sentimento più bucolico, quasi una musica ‘ecologista’ che sembra sposare la profonda cognizione ambient di Eno e lo spirito pop terzomondista di Byrne. Che del resto ci tiene a ribadire come il disco sia radicato in tradizioni secolari quali folk, country e gospel. Pur rispecchiando la fama di ricercatori che da sempre ha caratterizzato la coppia, Everything That Happens Will Happen Today vuole cimentarsi in maniera compiuta con la forma canzone, una sfida dunque più emotiva che tecnica nelle parole di Byrne: scrivere brani semplici ed accorati senza cedere ad alcun luogo comune. I risultati, nella maggior parte dei casi, sono positivi e speranzosi, nonostante alcuni testi descrivano delle vere e proprie sciagure. Ma quello che si evince dalla collaborazione è l’unione di due menti sopraffine, che mai avrebbero raggiunto tali vette lavorando individualmente. Un ritorno che accende i cuori.

Il disco uscirà il 10 Novembre

Dark Developments

Dopo l’exploit dello scorso anno con “North Star Deserter”, album registrato in compagnia di membri assortiti di A Silver Mt Zion e di Guy Picciotto (Fugazi), Vic Chesnutt deve aver conosciuto una seconda giovinezza artistica, tanto da riabbracciare nuovamente l’idea della collaborazione estesa, dopo una vita spesa a cementare le sue credenziali di cantautore solista.

Stiamo parlando di una delle icone del nuovo folk americano, una personalità fortissima, che nonostante le disavventure personali ha avuto modo di affermarsi prepotentemente negli ambiti discografici che contano, forte anche del benestare di alcuni personaggi in vista del music biz, come Peter Buck dei R.E.M. ad esempio. E’ la statunitense Orange Twin a celebrare questo nuovo incontro. Le canzoni di Vic sono concepite con un gruppo di veterani del collettivo Elephant 6 (lo stesso di Neutral Milk Hotel ed Olivia Tremor Control per intenderci) : gli Elf Power. Non abbiamo dubbi nello stabilire che si tratta di collaborazione epocale. Dark Developments è il frutto di questa inattesa joint venture, destinata a raccogliere consensi da ambedue i bacini di utenza. Da una parte le liriche – spesso paragonate a storie inedite dello scrittore Raymond Carver - e l’attitudine chiaroscurale di Vic, dall’altra la fisicità tutta pop e lisergica del gruppo di Athens. Soluzioni compositive che invogliano paragoni importanti: il John Cale di Fear, il Lou Reed di Street Hassle o la soul music bianca del tardo Nick Lowe. Registrato durante lo scorso inverno dallo stesso Vic e da Derek Almstead (proprio nell’attico adibito a studio del buon Chesnutt) Dark Developments porta in dote l’atmosfera tipica delle incisioni casalinghe, svelando quel grado di intimismo che è cifra stilistica degli autori in campo. Da una parte le invenzioni strutturali degli Elf Power, dall’altra le visioni d’ombra del folk-singer ,con le sue amare riflessioni sull’ordine mondiale. La chimica è perfetta, circostanza che rende Dark Developments un classico immediato del nostro tempo.

22/09/08

Ad Ottobre il nuovo album ed un tour per i Cranes


La storia dei Cranes ha attraversato in lungo e in largo le cronache inglesi ed europee. Nati come formazione al margine del movimento gothic-rock, hanno progressivamente abbracciato generi distinti, optando di volta in volta per incroci suggestivi con il dream-pop, la musica ambient e certa elettronica dal taglio volutamente intellettuale. Nati a Portsmouth per volontà dei due fratelli Alison e Jim Shaw (vocalist e autrice di suggestivi testi lei, polistrumentista lui) i Cranes hanno in breve conquistato i vertici e le attenzioni di critica e pubblico, pur partendo da una realtà estremamente provinciale come quella della costa sud inglese. Spesso e volentieri nella cornice live hanno sublimato questa loro costante ricerca lirica, che li ha portati a conquistarsi le attenzioni di una major, la Dedicated, distribuita attraverso i canali BMG. Due dei loro best-seller, gli album "Wings Of Joy" e "Forever", sono sati recentemente ristampati da Cherry Red, con l’aggiunte di alcun bonus. Tutto questo per far fronte alla mole di richieste pervenute agli stessi fondatori del gruppo. Dopo un riposo sabbatico tornano in azione nel 2001. Decidono di fare le cose in proprio, ideando il proprio marchio – Dadaphonic – unicamente responsabile delle uscite firmate dai Cranes. Con "Future Songs" e "Particles & Waves" si denota un cambiamento stilistico, ferme restando quelle che sono le credenziali del duo di Portsmouth. C’è sicuramente un feeling, una vibrazione più elettronica in questi dischi, caratterizzati da una vena nuova negli arrangiamenti. Un nuova via che favorirà gli stessi Cranes nel mondo del cinema e del documentario, grazie ad una serie di brani utilizzati espressamente per lungo e cortometraggi. Il nuovo album eponimo, che uscirà ad ottobre, è composto da 11 suggestive composizioni piene di sorprese.

Potrete vedere dal vivo la band in queste date italiane:
21 ottobre ROMA – Circolo degli Artisti
22 ottobre MILANO – Musicdrome
24 ottobre CESENA – Vidia Club
25 ottobre S.GIORGIO – La Gabbia

Il Ritorno Dello Sciamano


Le pecore nere vengono spesso additate in famiglia. Julian Cope, che del rock inglese è il figliol prodigo, deve amarlo quest’attributo, tanto da titolare in questa maniera la sua nuova fatica sulla lunga distanza. C’è del black humour – tipicamente inglese – ma anche la coscienza di una vita artistica consumata ai margini. Prendendosi però delle belle soddisfazioni, grazie ad un percorso indipendente che – soprattutto in tempi recenti – sembra finalmente dar ei suoi magici frutti. E’ un album doppio Black Sheep, Julian del resto ci ha abituati ad autentici tour de force negli ultimi anni, la sua materia grigia in costante espansione anche grazie alle ‘fraterne’ sostanze psicotrope. Una cosa è evidente: è tornato lo spiritello malvagio che aveva reso indimenticabili alcune delle annate più ispirate dello psych-rock made in UK. E’ un album per certi versi ‘gentile’, il druido ha ripulito delle scorie hard-rock e di certe lungaggini kraut la sua musica, consegnandoci brani dal retrogusto pop lisergico, a tratti irresistibili. E in questo Black Sheep spuntano delle canzoni che si vanno immediatamente a collocare tra i classici del suo songbook. L’apertura trionfale di Come The Revolution è un gioiello maestoso, un refrain che si impone alla vostra attenzione, ispirando moti ‘carbonari’. Più che un reietto un sobillatore, a Cope non sono mai mancate le doti di leader ed il suo estro si è spesso combinato ad alcune delle più luminose pagine del rock inglese. C’è poi il gusto per l’esasperazione, supportato dal giusto e puntuale sarcasmo. I titoli delle canzoni sono sottotitolati in giapponese – la terra del sol levante è evidentemente la nuova mecca – ed il disco si divide logicamente in due parti: Return Of The Native e Return Of The Alternative. Tutto il gusto pagano e le memorie ancestrali in campo, per un rito propiziatorio, così pare. Ma non perdiamo di vista le canzoni, che sono ben sei nel primo cd ed hanno in dote la magia dell’eternità. These Things I Know, va ad esempio ad ascriversi tra i pezzi più riusciti dai tempi del capolavoro Fried. Un’impresa non da nulla per Julian, che ritrova la vena dei giorni migliori e sembra guardare nel firmamento la stella sempre brillante di Syd Barrett. Più riflessivo il secondo disco che ha una struttura quasi ‘ambientale’ e vive di episodi per l’appunto più ‘sospesi’. La notizia è ufficiale, il reverendo è tornato per fare nuovi adepti: To rally every black sheep is my goal.
Non scambiatelo per presuntuoso, Julian Cope è in missione per conto di qualche dio pagano!


16/09/08

Voglio crederci



Probabilmente avrete realizzato che i marziani sono atterrati sul nostro pianeta. Nulla di sconvolgente, vi invitiamo peraltro a non chiamare gli agenti Scully e Mulder, ultimamente non sembrano troppo avvezzi alle storie che circolano attorno al rock’n’roll. Zach Hill, batterista degli Hella, fa proprio parte di quella compagine aliena che si è insidiata sul pianeta terra. Vive ed opera in California, ma è stato un giramondo sin dalla più tenera età. Il rock matematico e le adrenaliniche frammentazioni del gruppo madre hanno fatto da scenario ad una nuova epopea in rock. Il suo primo atteso album solista "Astrological Straits" è un viaggio sulle montagne russe, energia ed eclettismo sono le parole d’ordine, il circo s’imbarca in un viaggio verso la luna. E il bambino-prodigio Zach conduce il carro multicolore, un prestigiatore, un domatore di leoni, può prestarsi a qualsiasi ruolo, tanto è avvezzo ai cambi di strategia negli instabili confini della musica rumorosa. Non contento di aver frequentato Chino Moreno dei Deftones (ultimamente si è immolato dietro ai tamburi per i Team Sleep, progetto collaterale del vocalist), il produttore Chris Goss (con l’ex Masters Of Reality forma infatti il power trio Goon Moon, dove ritroviamo anche l’ex-Marylin Manson e A Perfect Circle Twiggy Ramirez) ed una miriade di altri fenomeni underground (con Rob Crow dei Pinback nel progetto Holy Smokes, e con Mick Barr degli Ocrilim, solo per citarne alcuni), Zach mette ora mano alla sua cosa. In grande stile, per carità, chè uno come lui non farebbe mai un passo da solo, nonostante abbia talento da vendere. Provate ad immaginare cosa ne viene fuori…lo stesso Mike Patton deve aver strabuzzato gli occhi, quando al quartier generale della Ipecac è arrivato cotanto materiale. Un disco pienamente immolato al demone del ritmo, "Astrological Straits" prende tanto dal post-punk quanto dal cosiddetto hip hop evoluto, toccando possibili scenari art-metal, heavy funk ed elettronici. Una successione emozionante, dove mai viene perso il filo, e questa è una notizia che fa sensazione. Dice di ispirarsi ai combo aperti di Frank Zappa e Miles Davis, Zach, e secondo questa logica allestisce tante micro formazioni all’interno del disco, proprio per saziare la sua incurabile smania creativa. La squadra prevede un numero eccezionale di fuoriclasse ed ottimi praticanti: Les Claypool (Primus), Chino Moreno (Deftones), i due No Age Randy Randall e Dean Spunt, Tyler Pope (!!!/LCD Soundsystem), Marco Benevento (virtuoso pianista di orientamento jazz), Zac Nelson (Prints), Marnie Stern (la fenomenale chitarrista californiana con due album all'attivo per Kill Rock Stars), Jonathon Hicshke (The Flying Luttenbachers) ed i recenti commilitioni negli Hella Carson McWhirter e Josh Hill. Le prime donne non si pestano i piedi stavolta, si lavora ad un comune obiettivo. Rendere l’album in solo di Zach Hill un tributo alla più carnascialesca rock music. Uno scavezzacollo dal nobile stile.

12/09/08

Land Of Talk, il nuovo album ad Ottobre



Dopo oltre due anni spesi in giro per il mondo in supporto al loro album d'esordio, i Land Of Talk fanno ritorno nella loro città natale di Montreal, Canada, per riordinare le idee (nel frattempo si sono avvicendati nuovi volti all'interno del gruppo) e dare un seguito all'iridata opera prima. Il primo obiettivo della leader Elizabeth Powell è stato rispettato in pieno: realizzare un manipolo di canzoni, poggiando su mezzi volutamente economici, tanto per allontanare la poco sobria tendenza dell'indie-chic, che vuole produzioni magistrali, laccate e pompose. Con la complicità del bassista Chris McCarron e del batterista Andrew Barr (altrove attivo con i tradizionalisti The Slip), la band si ritira in un vecchio edificio convertito a chiesa, proprio fuori Montreal, per registare quelle nove canzoni che costituiranno il nucleo del nuovo album. Per raggiungere l'obiettivo è indispensabile l'intervento dell'amico e produttore Justin Vernon (Bon Iver). La decima ed ultima composizione – "Troubled" – è stata invece registrata ad Eau Claire, Wisconsin, presso l'abitazione dei genitori dello stesso Vernon.

Questo secondo disco è inteso come un'ideale continuazione della 'conversazione interna' che la Powell ha abbracciato sin dalla più tenera età, quando a soli 14 anni, ancora con una voce ben poco educata, provava a lanciare le sue piccole invettive nei confronti dle mondo esterno. Cosa attendersi da questo nuovo album dunque? Ancora furtive puntate nel mondo dell'indie-pop meno ecumenizzato, con strappi e dissonanze che spesso tradiscono la nobile arte del rumore cui i nostri sono segretamente immolati. Canzoni esposte comunque con una sincerità d'intenti impeccabile, canzoni definitivamente oneste. Come ombre ondivaghe di soul music che spesso si incuneano tra le righe, quasi a fornire un'altra versione dei fatti. Perchè è forse questa la più grossa novità. L'apertura. Come quei palesi rimandi all'alternative-country (di cui Jeff Tweedy dei Wilco può considerarsi in buona parte responsabile) che puntellano il disco. "Some Are Lakes", che esce anche questo per One Little Indian, è un disco nudo, disarmante, la Powell è una nuova discreta ma affascinante eroina dell'indie-rock nordamericano, celata dietro a storie che hanno più di una movenza personale. C'è l'ispirazione dei grandi momenti e questo dialogo non sarà mai isolato.

11/09/08

Deerhoof in anteprima su Pitchfork

Qui su Pitchfork potete vedere un anteprima dei Deerhoof dal vivo con un pezzo che sarà il primo singolo tratto dal nuovo album "Offend Maggie!" in uscita ai primi di ottobre per Kill Rock Stars.



**Pitchfork.tv Video Premiere** // This video for the first single from the forthcoming album, Offend Maggie, was shot & recorded in June 2008 in Tokyo.

10/09/08

Novità in casa Melodic

Arrivano alcune novità da Melodic, ottima etichetta inglese che ci ha preparato un vero set di sopravvivenza per l'autunno.



Registrato presso The Institute of Audio & Visual Science di Manchester, nel quinquennio 2002-2007, "Businessmen & Ghosts" è il classico disco che odora di britannico, con i suoi scenari grigio metropolitani ed il suo appeal leftfield dance. Non un caso che nella città industriale per definizione sia stato concepito questo doppio album dal sapore retro futurista. Prestando fede ad una tradizione che affonda con decisione negli anni ’80, portando in dote le combinazioni ormai tutt’altro che estemporanee tra dance e rock (in questo fondamentale il grado di operatività di etichette quali Factory e Mute), Working For A Nuclear Free City non deludono certo le aspettative con un album che trasversalmente taglia il dancefloor, per appropriarsi contestualmente della recente tradizione IDM e di quella più arcaica propriamente new wave. Disco sospeso tra lucido romanticismo e cinico profetizzare, partendo da un’esperienza suburbana per arrivare a toccare fascinose vette poetiche. La visionarietà del primo Brian Eno o il tocco pop psichedelico degli Stone Roses, chissà quale di questi particolari renderà ancora più appetibili Working For A Nuclear Free City.


Todd Goldstein, da Brooklyn, New York, è l’unico depositario del marchio Arms. Un elemento che ancora ad oggi suscita scalpore, tanto da far sembrare così lontana l’ipotesi di una one-man band. Particolarità degli atteggiamenti, magnetismo delle canzoni, fatto sta che il debutto del 26enne – "Kids Aflame" - odora già di classico. Una scrittura la sua che sembra abbeverarsi alla fonte dei grandi storyteller americani, siano essi i ‘vecchi’ Neil Young e David Byrne od eroi contemporanei della scena indie come Stephin Merritt (The Magnetic Fields). Ed è pressoché un gioco di corsi e ricorsi storici questo sfrontato album d’esordio, alla ricerca del ritornello pop perfetto, del baldanzoso gioco armonico, della signorile immediatezza. Goldstein suona tutto da sé, senza sconti, ipotizzando canzonette country & folk, riverberi in salsa shoegaze e appuntamenti al buio con qualche cappellaio matto della scuola lo-fi. Un disco pieno di inventiva: fragile ed allo stesso tempo delizioso.



Da queste parti cucinano un’ottima zuppa wild & western. Ai controlli – pardon agli strumenti base – troviamo Tommy Eisner di Baltimore (chitarra elettrica e voce) e la fascinosa swedish girl Linda Beecroft (batteria e voce). Si chiamano Golden Animals e suonano rock’n’roll, nulla di così becero invero. Una musica piena di soul e groove, nera nello spirito. La loro immagine potrebbe trarre in inganno, tanto che "Free Your Mind And Win A Pony" sembra avere tutte le sembianze del vostro sbiadito ed inconcludente album di free folk. Nulla di più sbagliato. Qui c’è dell’ottimo boogie, dell’altrettanto passionale rhythm’n’blues: una musica selvaggia però swingante. Siano i Rolling Stones più negroidi, i Royal Trux degli ultimi dischi (quando all’eroina era stato sostituito il metadone) o qualche misconosciuto eroe della psichedelica della costa ovest, nel gioco delle sottili citazioni i Golden Animals certo non sfigurano. Sono il duo da battere al momento e dimenticatevi pure di porcherie tipo The Kills…

05/09/08

Populus With Short Stories "Drawn in Basic"


La crescita dopo l'adolescenza nella post e pop modernità. Andrea Mangia potrebbe usare una traccia o due per parlarvene. E lo fa in Drawn in Basic, il terzo album (ancora per Morr Music) che il musicista di Lecce ha pubblicato con il nome di Populous.
Dove "Queue for Love" (2005) curiosamente aveva allargato le fondamenta astratte ed elettroniche del suo debutto "Quipo" (2002) con le coordinate del jazz, folk e specialmente soul (come attitudine e come suono), "Drawn in Basic" si estende con forza e determinazione in tutte le direzioni. Questo disco naviga placidamente in un lago calmo chiamato pop. E Andrea Mangia è allo stesso tempo capitano e clandestino, cantautore e bricoleur del suono. Le sue tracce sono polifoniche e quadrate allo stesso tempo. Ed è ciò che accade a chi ha dato molto significato sia ai De La Soul che a Siamese Dream degli Smashing Pumpinks. A chi si è innamorato tanto del feedback delle chitarre dei My Bloody Valentine quanto dei suoni particolari del pioniere dei sintetizzatori Raymond Scott. E i sintetizzatori sono presenti anche in "Drawn In Basic "con il loro suono caldo. Basta il titolo: Drawin In Basic. Basic come il linguaggio di programmazione, la traduzione di musica pop analogica in una matrice digitale. Basic come la semplicità e la riduzione all'essenziale. "Man Overboard" è una melodia shoegaze, tra indiepop e disco. "Only Hope" è ugualmente un affascinante ibrido di suoni digitali ed anima analogica. "Days" innalza i suoi muri di suoni sempre più in alto. E alla fine arriva "Breathest the Best", già pubblicata come singolo in vinile lo scorso anno su anost, la sister label di Morr Music. I testi malinconici e cupi e le loro inflessioni più solari vengono di nuovo dall'MC Short Stories, aka Michael McGuire.

http://www.myspace.com/populous
http://www.promorama.it

04/09/08

This Is London

Dusk + Blackdown
"Margins Music"
ft Durrty Goodz and Farrah





"Un tragitto che introspettivamente va da Est a Sud o, minimizzando, dal Grime al Dubstep "Margin Music" trasforma geometrie urbane in suono" - Disco del Mese Ritmi & Black di Blow Up di Settembre / voto 8

"Forse il primo vero concept ad uscire dal mondo Dubstep. "Margin Music" è un viaggio notturno dei produttori Dan Frampton (Dusk) e Martin Clark (Blackdown) - quest'ultimo autorità in materia, compilatore della raccolta "The Roots Of Dubstep" e columnist di Pitchfork, tra le altre cose - attraverso i quartieri periferici di Londra, le loro diverse composizioni etniche e le diverse sonorità che li animano" - Rumore di Settembre / voto 8

Aspettando Pete...

Anche Costantino della Gherardesca si è accorto di quanto è bravo il nostro Pete Molinari (oltre che di che uomo straordinariamente giusto ed elegante sia Billy Childish).
Nel frattempo, siamo tutti in trepida attesa di qualche sua data live in Italia.

03/09/08

Limbo "Early Works"




I Limbo nascono nel febbraio del 1984 per merito di Gianluca Becuzzi, ad oggi una delle eminenze grigie della scena elettronica peninsulare. Dal momento della fondazione, con la sigla Limbo ha pubblicato ben dodici album, due mini, un box ed una cassetta, senza peraltro dimenticare raccolte a tema in cui compariva con tracce inedite. La frenetica attività discografica ha funzionato come trampolino di lancio per quella concertistica, con apparizioni dal vivo frequenti anche in Germania, Svizzera ed Austria.

Un esistenza discografica e artistica tormentata quella di Limbo, con repentini cambi di stile, personale ed etichetta. Un’unica costante riconoscibile: il distinto approccio oscuro ed elettronico. L’opera dei nostri è caratterizzata da una possente ricerca ritmico/timbrica e dal carattere altamente drammatico sia del mood sonoro che dei temi in essere: tecnologia e misticismo, scienza e neoprimitivismo, tanatologia e pratiche erotiche estreme. La qualità estetica, la coerenza concettuale e formale così come la continuità dei linguaggi sviluppati, hanno determinato lo status di culto che circonda il nome Limbo nel circuito underground internazionale.

Nel settembre del 2005 la rinata Spittle Records (già responsabile nel 1986 della stampa del mini-LP di debutto “IN LIMBO”) chiede agli ormai sciolti Limbo di pubblicare tutto il loro primo materiale: il demo d’esordio, il primo mini-LP ed una manciata di brani apparsi dai magazzini sotterranei della stessa label. Il risultato è “Early Works 1984-1987”, doppio-CD che include una versione digitale rimasterizzata e ripulita dell’intera produzione musicale di Limbo nei suoi primi anni.

Il remastering è stato curato da Diego Loporcaro (aka D. Loop), musicista già nell’ultima incarnazione dei Limbo, nonché produttore dell’album “Compendium: The Light Fall”, canto del cigno della formazione toscana. L’artwork è invece opera di Gianluca Becuzzi e Marco Formazioni: l’intero concept grafico di “Early Works 1984-1987” è basato sul materiale visivo originariamente utilizzato nelle due prime release della band.

Nonostante i Limbo appartengano alla storia, la loro eredità musicale è tale da segnare un passo importante nella crescita della scena underground di seconda metà anni ’80, la loro un’influenza estesa a buona parte dell’Europa continentale

02/09/08

Dianogah




Sono passati la bellezza di sei anni dall’ultimo disco pubblicato da Southern Records a titolo "Millions Of Brazilians", da quel momento in poi per i Dianogah è trascorso quasi un periodo di ibernazione. Pausa di riflessione o indagine artistica? Fatto sta che uno dei gruppi guida del movimento post-rock made in Chicago ha ben riflettuto su quale fosse l’argomento più logico da abbracciare, in questi anni in cui la frammentazione stilistica più che una costante è divenuta un’insana abitudine. Figli di quello stesso territorio che ha celebrato le gesta dei Tortoise, anche al termine del momento di massimo fulgore della scena, i Dianogah hanno saputo attendere. Per gettarsi anima e corpo sulla nuova preda. Un album fatto verosimilmente di canzoni. In parte abbandonate le elucubrazioni strumentali degli esordi i tre – il nucleo base consta di Jay Ryan (basso, voce), Jason Harvey (basso) e Kip Mcabe (batteria) – sviluppano un suono dai forti connotati melodici, in cui la voce è strumento altrettanto importante ai fini della riuscita delle singole composizioni. Un avvicinamento dunque alla forma canzone verrebbe da dire. Riprova ne sono gli ingressi esterni della vocalist Stephanie Morris, che oltre a rappresentare l’ideale contraltare di Ryan, rende ancora più speziati i pezzi raccolti in "Qhnnnl". Come ospiti avvistiamo Andrew Bird che con il suo violino in dote porta un tocco di arrangiamenti neo-classici, Billy Smith alla chitarra e Mark Greenberg alle tastiere. Rilasciata l’onda post-rock e soprattutto le insidiose trappole contingenti, i Dianogah rinascono come formazione indie tout court, spiccando il volo verso nuovi – inediti – orizzonti.

La band sarà in tour in Italia ai primi di Ottobre.

01/09/08

WOVENHAND - "Ten Stones"



Usando le parole di Robert Browning, con il nuovo Ten Stones Wovenhand (creatura di David Eugene Edwards, già frontman degli acclamati 16 Horsepower) annuncia "un'altra nazione, più grande e più selvaggia" e si muove in terreni ancora inesplorati. Co-prodotto da Daniel Smith dei Danielson, Ten Stones è stato registrato al New Jerusalem Recreation Room di Clarksboro (New Jersey) e ai Dust Bowl Studioso di Glade Park in Colorado.
Le canzoni sono state ulteriormente messe a punto grazie alla chitarra del guest artist Emil Nikolaisen (Serena Maneesh), alle vibrazioni portate dal basso elettrico e dal contrabbasso di Pascal Humbert (anche lui nei 16 Horsepower), la batteria incisiva di Ordy Garrison e la chitarra di Peter Van Laerhoven. Elin Smith dei Danielson, poi, regala la sua voce alla melodia di Humbert in "His Loyal Love". Questi musicisti raffinati - molti dei quali hanno contribuito alla scrittura dei pezzi - illuminano e rasserenano la considerevole ampiezza vocale di Edwards e la sua magistrale capacità compositiva. Dieci canzoni ribelli e fradice di pietà per ascoltatori assetati, questo è Ten Stones. Dal folk discordante di "White Knuckle Grip" alla straniante bossa nova di Antonio Carlos Jobim di "Quiet Nights of Quiet Stars" all'impetuoso foot-stomper "Not One Stone", l'album si distingue per profondità ed eclettismo. Fiancheggiato dall'ammaliante incedere del bandoneon e dai drones del contrabbasso, le parole di Edwards tessono simboli in una tela di immagini pacifiche e infernali allo stesso tempo e proclamano la devastazione del peccato e la dolcezza della redenzione. La musica di Wovenhand è decisamente unica, confonde chi vi si imbatte con i suoi giochi di chiaro-scuro. Ten Stones ci regala un magnifico incontro con la guarigione, la sofferenza e il dolore. "“Not one stone/ atop another will stand,” canta Edwards. E poi, come ogni grande artista che aspetta il momento in cui la sua arte sarà destinata ad una gloria più grande, prosegue “This weary melody ends/ The host of heaven descends/ Down beneath this bleeding ground/ Behold the lamb.”

la pagina myspace di Wovenhand
www.soundsfamilyre.com
www.promorama.it