28/05/13

Ristampati i primi due album di Bobby Whitlock







Continua inesauribile la missione di Light In The Attic, nel documentare alcune delle più sottovalutate pubblicazioni del tempo che fu. Per il marchio consociato  Future Days è sulla rampa di lancio ‘The Bobby Whitlock Story: Where There’s A Will, There’s A Way’ una collezione con i primi due album in solo del cantautore di Memphis. Presentati per la prima volta  in CD, Bobby Whitlock (1972) e Raw Velvet (ancora 1972) sono album stellari, non fosse altro per il cast di partecipanti (George Harrison, Eric Clapton, Delaney & Bonnie), che si inseriscono di diritto nel solco dell’americana, con un bagaglio soul bianco non indifferente.
La musica è stata per Whitlock letteralmente una via di fuga. Nella natia Memphis si trova presto in affari con Stax Records, sarà il primo artista bianco a firmare per la sussidiaria pop HIP. Ma era il soul nel suo cuore, non certo la musica pop, tanto che l’ingresso nella band della coppia Delaney & Bonnie (The Friends) segnò una drastica svolta nelle operazioni.

Delaney & Bonnie lo portano in tour con i Blind Faith, qui Eric Clapton si invaghisce del suo stile. E’ un attimo. Il musicista si unisce ben presto a Clapton, Jim Gordon e Carl Radle nei Derek & The Dominos, l’incredibile backing band che accompagnerà George Harrison in alcuni album seminali come ‘All Things Must Pass’ e registrerà l’altrettanto fondamentale ‘Layla And Other Assorted Love Songs.

Durante le registrazioni di questi dischi, Whitlock inizia a ragionare sui primi passi da solista. Nonostante le droghe iniziassero a minare il percorso dei Derek & The Dominoes, Whitlock riesce a coinvolgere alcune personalità di spessore nell’avventura: Clapton, Harrison, il bassista Klaus Voorman (sessionmen per John Lennon, Carly Simon), il batterista Jim Gordon, Chris Wood ( Traffic)  ed altri. Il solo di chitarra di slowhand è quello che descrive il brano  ‘The Scenery Has Slowly Changed’ per diritto di cronaca.

Quando Bobby ha presentato il suo album all’Atlantic Records, questi è stato rifiutato. Da qui arriva la consensuale rescissione del contratto e la separazione dai Dominoes, durante le problematiche session per il secondo album. Bobby non si ferma, torna in Inghilterra, poi in Francia, dove i Rolling Stones stavano registrando ‘Exile On Main Street’. Trova un nuovo accordo per pubblicare il suo esordio unitamente ad un successore, grazie all’interesse del produttore Jimmy Miller. ‘Raw Velvet’ metterà in campo le Edwin Hawkins Singers, l’orchestra L.A. Symphony, Eric Clapton, Jim Gordon ed i nuovi compagni di ventura: Rick Vito (chitarra), Keith Ellis (basso) e Don Poncher (batteria). Andy Johns produrrà entrambi i dischi. Andy è stato l’ingegnere del suono di ‘Exile On Main Street’ e successivamente produrrà ‘Marquee Moon’ dei Television.



Il fragoroso ritorno dei tre Oblivians!



In The Red è orgogliosa di presentare il nuovo album in studio degli Oblivians, il loro primo dal lontano 1997, quel ‘Play Nine Songs with Mr. Quintron’ che chiuse definitivamente un’epoca.

‘Desperation’ raccoglie l’eredità della band rappresentando così un continuum temporale con il suo passato. Una pratica che si condensa in 14 brani pregni del loro distinto soulful e trashy garage-blues, definito in parti uguali dal rock ’n’ roll dei fifties, dal primigenio garage dei ’60, dal Memphis soul, dal Delta blues e finanche dal punk in stile Killed By Death (la serie di compilation che avrebbe riportato alla luce oscurità del periodo post-77). E non meravigliatevi di ascoltare anche una cover di uno standard  cajun zydeco in questo marasma, tanto è ricca l’offerta dei ritrovati Oblivians.

Come ci tiene a specificare lo stesso Greg Oblivian  “tra il nostro ultimo album come band del ’97 ed ora, molta acqua è passata sotto i ponti. Ognuno di noi ha perseguito la propria strada, dando respiro alle personali passioni musicali, con obiettivi chiaramente distinti. A dire il vero mi è sempre mancata la dinamica con cui Jack ed Eric sapevano accompagnare la mia scrittura. Come del resto mi mancava l’avere carta bianca rispetto alle loro composizioni, potendo così aggiungere del mio. Ho suonato con un numero importante di grandi musicisti nel frattempo, ma – inutile dirlo – è stato difficile raggiungere certe vette od una coesione ideale. Le dinamiche tra di noi erano qualcosa di singolare. Così, nel corso degli anni e durante le occasionali rimpatriate per un festival od un party speciale, l’idea ha iniziato a prendere forma, quasi un’ ossessione che si manifestava nella mia testa: registrare un nuovo disco. Voglio dire, qualora continui a suonare come una band è naturale avere l’esigenza di scrivere nuove canzoni per dare maggiore densità alle tue performance. Per quanto ci piacesse suonare assieme, la cosa di cui sentivamo maggior bisogno era il comporre all’unisono. Questo è esattamente quello che desideravamo, la missione può dirsi compiuta”.




Immagini color seppia per il nuovo Dirty Beaches





C’è aria di cambiamento nel nuovo disco di Dirty Beaches, al secolo Alex Zhang Hungtai, artista solista che nel 2005 ha dato i natali a questa oscura creatura in quel di Montreal. Nel suo carnet non mancano certo le collaborazioni più ardite, tanto che spesso la sua descrittiva miscela è finita con l’accompagnare cortometraggi e documentari di genere. Una passione viscerale per tutto quello che è l’immaginario old-fashioned americano ha contribuito a posizionarlo in una terra fantasma, dove si celebrano allo stesso tempo il mito della frontiera e le immagini che scorrono in sottofondo sono rigorosamente in bianco e nero.


Potremmo dare un nome a questo suono polveroso, definendolo industrial-blues, ma rischieremmo di non rendere giustizia all’uomo, che ha sempre in serbo una trovata eclettica, un arrangiamento sopra le righe. Il nuovo disco, proprio per raccogliere in maniera compiuta i suoi molteplici interessi, è un doppio, concepito nell’inverno del 2012 tra il suo domicilio canadese ed una sempre più evanescente Berlino. ‘Drifters / Love Is the Devil’, ancora per marchio Zoo Music, è così un’ampia sintesi del suo modus operandi. Un lavoro contrassegnato dal viaggio e dall’idea di vita on the road, considerate le numerose tappe dei suoi tour europei. C’è il fascino labirintico per città capitali come Berlino, Belgrado e Parigi, immagini che si riflettono in una musicalità sospesa, sempre sul punto del collasso emotivo.


Un blues dell’anima dicevamo od una sorta di pre-war folk sorretto da strutture minimal-rumoriste se preferite, dove la drum machine sostituisce il battito del piede e le chitarre sono necessariamente filtrate (assieme alla voce). E’ così che si compie un’opera definitiva, sospesa tra il cinema di David Lynch e i sottoscala di qualche club inglese dei primi anni ’80.  Roba da perdere la testa. Elvis a passeggio coi Cabaret Voltaire, od anche un Robert Johnson intrappolato in una performance radioattiva dei Throbbing Gristle. I riferimenti potrebbero essere molteplici, ma il miracolo di Alex Zhang Hungtai è proprio nella potenza delle immagini che riesce ad evocare. Grandi e piccole tragedie del quotidiano che si svuotano di ogni significato prendendo la via del palcoscenico. La musica si insinua, definisce i dettagli, proietta sentimenti. E mai l’abbandonarsi è risultato così lieve.





27/05/13

Rip Rig & Panic: ristampata la trilogia




Il polistrumentista cieco Roland Kirk è stato uno dei giganti del jazz, un innovatore che con le sue trovate di scena – riusciva a suonare contemporaneamente più ance  - ed il suo approccio realmente trasversale alla materia (è riuscito a flirtare con la musica contemporanea tanto quanto con il soul/funk) si è guadagnato un posto di tutto rispetto nella hall of fame dei musicisti neri. Un suo album in particolare – Rip, Rig & Panic pubblicato da Limelight nel 1965 – avrebbe presto sbaragliato ogni concorrenza andando a guadagnare i favori della critica e del pubblico. Proprio da lì parte la nostra storia, con un tributo in termini.

I Rip Rig & Panic sono figli di una delle più entusiasmanti ed elettrizzanti stagioni della musica inglese, il luogo dove ogni collisione artistica era non solo possibile, ma anche benvenuta. Agli albori degli anni ’80 le maglie del dopo-punk si erano definitivamente allargate e questo avrebbe permesso agli artisti più votati alla sperimentazione, di considerare anche le ipotesi più azzardate. Al crocevia tra funk, jazz, punk e world music (furono tra i primi artisti ad esibirsi al festival internazionale Womad nel 1982),  la formazione che vantava nella giovanissima figlia d’arte Neneh Cherry una guida carismatica, avrebbe stabilito una serie di record del tutto personali.

La band ha registrato 3 album per Virgin Records mai legittimamente pubblicati in cd. Il trittico di ristampe curato da Cherry Red attinge ovviamente ai nastri originali, incorporando anche una sostanziosa serie di extra, direttamente dalle b-sides d’epoca. I membri originali Gareth Sager (ex-Pop Group) e Mark Springer sono stati coinvolti nella preparazione del trittico, con la benedizione della stessa Neneh Cherry e dell’attulae batterista deit PiL Bruce Smith (anche lui con trascorsi nel Pop Group).

Pubblicato nel 1981, ‘God’ è stato il debutto della band, pubblicato originariamente in versione  doppio 12 pollici. Tra le bonus troviamo i singoli ‘Go, Go, Go! (This Is It)’ e ‘Bob Hope Takes Risks’assieme alle rispettive B-sides, più l’estratto da una musicassetta pubblicata da NME a titolo ‘Billy Eckstine’s Shirt Collar’. E’ del 1982, ‘I Am Cold’(disco in cui l’ospite speciale è addirittura il ‘patrigno’ Don Cherry alla tromba), loro seconda fatica, ora ampliata da remix esclusivi di ‘You're My Kind Of Climate’ e ‘Storm The Reality Asylum’ e da una rara B-side. Nel 1983 il gruppo poneva la parola fine alla sua avventura con il terzo album ‘Attitude’. Anche qui troviamo una serie di B-sides ed alternative mixes a rendere il piatto ancor più ricco. 

I Float Up CP raccoglieranno brevemente il testimone dei nostri, preparando in pratica il terreno all’exploit commerciale di Neneh Cherry che nella seconda metà degli anni '80 conquisterà i vertici delle classifiche inglesi (e non solo) con i singoli 'Manchild' e 'Buffalo Stance'.




P.I.L. - First Issue






Per il numero 100 in catalogo Light In The Attic decide di fare le cose in grande dando anche seguito alla ristampa limitata in 45 giri del singolo ‘Public Image’ in occasione del  Record Store Day. Stiamo parlando di una delle pietre d’angolo di tutto il post-punk inglese, quel ‘First Issue’ che avrebbe in pratica resettato la ribellione punk dei Sex Pistols, scegliendo un format più algido ed estemporaneo.

John Lydon, già Rotten, si sbarazza in un sol colpo della sua immagine di oppositore intransigente, scegliendo nuovi compagni di ventura ed un approccio – che seppur corrosivo -  si insinua sottopelle, mettendo ugualmente in discussione l’assetto della nuova Britannia. Con il bassista Jah Wobble, il batterista  Jim Walker ed il chitarrista Keith Levene i Public Image Limited sono pronti a sconvolgere definitivamente l’organigramma della nuova onda.

L’ album non è mai stato pubblicato ufficialmente per il mercato Americano, considerato troppo estremo nei suoi contenuti dalle multinazionali del disco d’oltreoceano, che al tempo declinarono ogni ipotesi di licenza. Quello della Light In The Attic è così un appuntamento ‘mancato’ con la storia, l’occasione per porre rimedio alle valutazioni tutt’altro che illuminate di qualche manager d’acchito. L’occasione è ghiotta anche per i fruitori e completasti del vecchio continente a ben vedere. Perché la doppia versione in cd ci regala oltre alla b-side ‘The Cowboy Song’ un’intervista di circa un’ora a John Lydon per la BBC, risalente all’ottobre del 1978. Ancor più intrigante il vinile che include una replica dell’originale poster pieghevole, annunci apparsi sui tabloid d’epoca un set di adesivi ed una download card per l’intero album. L’intera operazione è stata approvata e coordinata con lo stesso John ed il suo management personale.