25/01/13

La 'freaky way' di Joe Gideon & The Shark





‘Freakish’ è stato scritto e registrato – nelle parole della stessa band – nel momento più turbolento della loro stessa esistenza, con cruciali questioni di vita o di morte pronte a bussare indiscretamente alla porta. Con ‘Harum Scarum’ il duo londinese – all'anagrafe fratello/sorella -  si è imposto  immediatamente sulla scena, guadagnando posti d’onore tra la critica che conta (basti pensare ai tributi di riviste influenti come NME od Uncut). Immediata la visibilità guadagnata anche nei confronti di artisti imponenti, con le apparizioni al fianco di Nick Cave & The Bad Seeds, Yeah Yeah Yeahs o Seasick Steve. Time Out Londra senza mezze misure li ha definiti come uno dei migliori act dal vivo, non facciamo fatica ad immaginarne il perchè.

Con ‘Freakish’ si rinnova la magia, anzi -  a dirla tutta – il gruppo sembra prendere per buona l’ipotesi di sporgersi deliberatamente oltre la linea di confine del rock’n’roll, aggiustando il tiro con della ineccepibile poetry da strada, con guazzabugli electro-rock e dispettose rime wave, che  lasciano intravedere la sagoma di Mark E. Smith e dei suoi Fall. Musica comunque scheletrica, sottoposta ad un beat incessante.  Un suono nudo, con pochissimi accorgimenti da studio, un esperienza viva e contagiosa.

Anche i temi delle canzoni sono a volte straripanti. Pensate ad esempio alla stranita ‘The Insignificant Bullet’, che si dice ispirata da un Werner Herzog ferito da un colpo di pistola durante un’intervista con Mark Kermode. Sogni cattivi o quadri impressionistici, una cosa è certa l’originalità è dalla loro parte. Una delle più grandi sorprese – musicalmente parlando – arriva dall’interpretazione della batterista Viva, qui al suo debutto alla voce, nell’ipotesi synth-pop ‘Poor Born’ urla attraverso un vocoder testi assortiti della storica garage psych band Dead Moon (“I’m pissed off, pissed off, pissed off, it’s just the way I am”) . Il quadro è completo, l’Inghilterra ha trovato due nuovi genuini interpreti della più viscerale tradizione stradaiola.



23/01/13

Bassekou Kouyate, il nuovo profeta maliano





E’ il ritorno dell’asso maliano, virtuoso dello strumento tradizionale ngoni. Dopo il celebrato debutto con ‘Segu Blue’ e la nomination al Grammy con il successivo ‘I Speak Fula’, sono arrivati centinaia di concerti per tutto il mondo, oltre alle apparizioni all’interno del supergruppo AfroCubism. Pochi mesi fa ha diviso il palco con star internazionali del calibro di Paul McCartney, John Paul Jones e Damon Albarn all’interno del grande evento Africa Express.

‘Jama Ko’ è il titolo della sua nuova fatica, che tradotta letteralmente sta a significare ‘grande raduno di persone’. Ogni evento importante in Mali – a prescindere si tratti di una nascita, di un matrimonio od un funerale – è accompagnato dalla musica dei griots e Bassekou e la sua famiglia sono esattamente al cuore di questa tradizione. ‘Jama Ko’ è un invito all’unità, alla pace ed alla tolleranza in un periodo di grande crisi non solo per la sfera africana.

Registrato nel marzo dello scorso anno nella capitale maliana Bamako, il disco introduce una nuova formazione comprendente i due figli di Bassekou - Madou e Moustafa Kouyate – il fenomenale suonatore di ngoni Abou Sissoko ed una serie di altri talentuosi musicisti locali. Un disco che ha anche un sapore politico, accidentalmente. Nel pomeriggio del primo giorno di registrazioni il presidente  Amadou Toumani Toure (ATT) è stato deposto da un colpo di stato militare. Uno shock per Bassekou, in quanto il presidente era uno dei primissimi fan dell’artista. Aldilà dei tagli su energia elettrica e carburanti, le registrazioni sono state portate a termine. Nel frattempo la situazione nel Mali settentrionale precipitava. Piuttosto che mantenere la calma, Bassekou ha attaccato il suo pedale wah wah, alzando il volume del suo amplificatore per il massimo della risoluzione.

Kasse Mady Diabate canta  in ‘Sinaly’, i cui toni latini riportano in auge la leggenda di Sinaly Diarra, un re del Banama famoso per aver resistito all’islamizzazione del 19simo secolo. ‘Kele Magni’ è un duetto tra Amy Sacko e Khaira Arby dal Timbuktu, un’invocazione alla pace, mentre ‘Poye 2’ mette in mostra un’incredibile jam tra Bassekou e Taj Mahal (voce / chitarra elettrica).

Howard Bilerman (Arcade Fire, Godspeed you! black emperor, Coeur de Pirate) ha registrato praticamente dal vivo l’album in Mali, per avviare poi la post-produzione nella natia Montreal. Andrew e Brad Barr (Barr Brothers) hanno aggiunto batteria e chitarra, mentre Mocky Salole (Feist, Jamie Lidell) a sua volta ha curato alcuni arrangiamenti suonando organo e batteria. Non solo il miglior disco di world music, ma una delle pubblicazioni più importanti di tutto questo 2013.





22/01/13

Langhorne Slim - The Way We Move





I 13 brani che compongono la nuova fatica di Langhorne Slim & The Law -  The Way We Move, licenziata dalla Ramseur Records del North Carolina – sono stati per prima cosa testati dal vivo, rispettando l’efficacia delle migliori creazioni rock’n’roll. Perfezionati dal leader con la sua formazione di fiducia,  i pezzi imboccano la trionfale via del migliore intrattenimento, seppellendo le cattive esperienze che hanno tempestato recentemente la vita privata del cantante/chitarrista. Con lui troviamo David Moore (piano, tastiere, banjo, chitarra e voce), Jeff Ratner (basso, voce) e Malachi DeLorenzo (batteria, percussioni e voce).

Il disco è stato prodotto da Kenny Siegal con l’assistenza dei quattro membri del gruppo, presso l’Old Soul Studios di Catskill, New York, rispettando un’estetica preziosamente vintage. Autodidatta e nativo della Pennsylvania, Langhorn Slim ha stabilito a Brooklyn il suo quartier generale dalla tenera età di 18 anni, lavorando in prospettiva ad un progetto che ne potesse esaltare le doti di songwriter. Stanco di essere associato ad un’ambigua scena punk-folk, è sulla costa occidentale che Langhorne raccoglie i suoi primi successi, arrivando praticamente ovunque – da Newport a Portland – ad imporre la sua cifra stilistica. Una tenuta solidissima per questo ‘The Way We Move’, dove gli arrangiamenti hanno maggior respiro grazie a fiati orchestrati solennemente  da David Moore, assistito da una sezione composta da Kenny Warren (tromba), Jeremy Viner (sax tenore e clarinetto), Andrew Carrico (sax baritono) e Sam Kulik (trombonista anche associato ai Talibam!).

Ad oltre tre anni da ‘Be Set Free’, il nuovo Langhorne Slim è forte di un repertorio scoppiettante, che non rinuncia alle asperità del blues delle origini, attraversando con carattere la canzone d’autore, sortite più soulful ed un tributo sincero alla musica del sud.










Indie-r&b dalla grande mela: Autre Ne Veut





Anxiety è il seguito all’omonimo debutto di Autre Ne Veut pubblicato nel 2010, uno di quei piccoli gioielli di pop moderno capace di mettere d’accordo i fans dell’indie-tronica con quelli di più stretta osservanza r&b. Per Software, l’etichetta co-gestita da Daniel Lopatin aka Oneohtrix Point Never, esce questo secondo lavoro, ancora una perfetta alchimia tra ciò che è l’universo patinato del nu-soul e la più genuina sensibilità indie. Newyorkese d’adozione, Arthur Ashin è stato salutato ai tempi dell’esordio da Pitchfork come l’anello mancante tra Avey Tare (Animal Collective) e D’Angelo. Dopo aver scalato in maniera vertiginosa numerose classifiche di gradimento, creando uno spazio inedito per la sua musica, ribadisce con Anxiety il concetto di una musica incentrata su ritmo e spiritualità. Credibile ipotesi di black music creata in laboratorio da un musicista bianco.

E’ veramente imminente l’impatto con la club culture in un brano come ‘Counting’, dove sembra andare in scena una rivisitazione cibernetica del miglior Timbaland, o nella traccia d’apertura ‘Play By Play’, una composizione immaginata per la Top 40, parti uguali di Dr. Luke e Patti LaBelle. Sono comunque importanti le fonti a cui si abbevera il 30enne musicista, affascinato tanto dalla cultura pop quanto dalla ricerca degli ingegneri del suono più in vista. Innovazione e tradizione, brani memorabili e ricerca istantanea del suono. Da David Byrne a Lee “Scratch” Perry, passando per Laurie Anderson, Annie Lennox e addirittura starlette come Katy Perry e Rihanna, tutto sembra convenire nel quadro assoluto di Autre Ne Veut.

Questo pasticcio r&b, non dimentico delle sue radici underground, suona come una delle cose più sensuali con cui accompagnare le vostre sortite notturne. Una musica che non risparmia nessun  fascio muscolare, disegnando traiettorie ideali per il dancefloor quanto per il più intimo private party.





Sorge il nuovo sole di Phosphorescent





A circa tre anni da quello che è considerato il suo personale capolavoro -  Here’s To Taking It Easy -  Phosphorescent ritorna con la sua produzione più ambiziosa: Muchacho, ancora su etichetta Dead Oceans. Salutato in maniera trionfale – soprattutto oltremanica – da un’istituzione come Mojo e da uno dei negozi di dischi per eccellenza – Rough Trade -  il penultimo album di Matthew Houck è stato quello dell’affermazione su più ampia scala, complice anche un trittico di date sold out alla Brixton Academy come spalla a The National.

Nativo dell’ Alabama ed ora residente in quel di Brooklyn, Phosphorescent esordisce nel 2003 e da quel momento mette in fila qualcosa come sei album, andando anche a scomodare uno dei personaggi simbolo del country americano, quel Willie Nelson cui è dedicato l’acustico ‘To Willie’. Associato in maniera circospetta a nomi fondamentali come Waylon Jennings, John Prine e addirittura Bob Dylan, Matthew ha spesso ignorato i dettami dell’industria discografica, ponendo il suo istinto compositivo innanzi a tutto, assecondando così la sua prolifica vena.

Con ‘Muchacho’ si riappropria della malinconia e del sensuale minimalismo che rappresentarono le fondamenta di un disco come ‘Pride’. Dopo circa un anno e mezzo ‘on the road’, Matthew si è detto letteralmente bruciato. Nemmeno il tempo di una pausa strategica  che sul finire del 2011 le idee tornano a fioccare. Meglio dunque recarsi nel fido studio di Brooklyn Navy Yard, già teatro delle due precedenti creazioni. Affrancatosi momentaneamente dall’idea di un tour esteso, il musicista acquista una serie di apparecchiature analogiche, provando a fermare su nastro alcune ruvide intuizioni. Più che canzoni, i primi esperimenti assomigliano a dei cut-up sonori, invero rumorosi. 

Nessuna meraviglia dunque nello scorgere il meccanico battito di una drum machine – la famigerata 808 – all’interno di un disco che si annuncia come tra i più contaminati concepiti dall’autore. Il dittico iniziale ‘Sun, Arise!’ e ‘Song For Zula’ sembra un appuntamento al buio tra i maggiori protagonisti della rivoluzione hypnagogica ed i loro padri putativi californiani. Avete indovinato: Animal Collective e Beach Boys stipati nella stessa stanza. Ma il violino ed il piano di ‘The Quotidian Beasts’ sembrano invece ricucire lo strappo con l’americana, descrivendo paesaggi infiniti su cui planare. Lo stesso dicasi per ‘A New Anhedonia’ dove le sottili voci r&b rendono le manovre neo-country di Phospohorescent più erranti. Un disco che sa poi scherzare con l’elettronica, alla maniera del tanto bistrattato Neil Young di ‘Reactor’. Una cosa è certa, il muchacho avvistato alla frontiera è oggi più maturo, cosciente dei propri mezzi e capace di fornire un imprinting decisivo alle sorti della musica più classicamente a stelle e strisce.



21/01/13

Big Harp, si incendia l'alt-country!





Chris Senseney e Stefanie Drootin-Senseney (The Good Life, Bright Eyes, She & Him) danno vita ai Big Harp nel dicembre del 2010. In circa tre anni di attività anche la loro vita privata ha subito qualche sostanziale cambiamento. A partire dal matrimonio e proseguendo con la nascita del primogenito. Tutto questo non ha impedito loro di debuttare con ‘White Hat’, una selezione di sbilenchi brani folk-rock che non rinunciavano agli occasionali tratti ironici o a corroboranti scariche di black humor.

Un suono che cambia radicalmente alla luce del nuovo disco, in uscita a febbraio per Saddle Creek. Il duo ha nel frattempo raffinato la propria penna, provando anche nella versione live le nuove ‘partiture’. Dalle basi intimiste degli esordi si è passati ad un suono più corposo, dove le credenziali acustiche sono soggette al fuoco di nuovi eventi. Gli arrangiamenti sono ora più complessi e l’elettricità dei nuovi brani ne è naturale conseguenza. Dimenticate per un istante alcune delle più celebrate coppie rock’n’roll del nostro tempo – White Stripes, The Kills – e concentratevi su questi  caldissimi soggetti. Il vostro cuore tornerà a palpitare, come per magia.

Assoldato il vecchio amico John Voris alla batteria, i Big Harp abbandonano gli arrangiamenti bucolici degli inizi, assaporando una vena più tribale e metropolitana. Blues dell’anima sarebbe opportuno definirlo. Una lunga linea rossa che da Captain Beefheart e Willie Nelson porta direttamente ai giorni nostri, passando per l’alternative country di Townes Van Zandt .


Acid-rock fa stranamente rima con VietNam





Difficile resistere all’ipotesi di un blind test o di un jukebox invisibile. L’opportunità ci è fornita da Michael Gerner, voce e chitarra – nonchè forza motrice – dei VietNam. Il suo timbro beffardo in più di un’occasione tira in ballo quello di uno dei più grandi performer americani degli ultimi 30 anni: Gibby Haynes dei Butthole Surfers. La somiglianza è alle volte imbarazzante, ma questo non deve alterare il corso degli eventi e soprattutto l’introduzione a quell ‘A.merican D.ream’, destinato a materializzarsi sul finire di febbraio nei migliori negozi di dischi specializzati,. Mexican Summer si prende la briga di licenziare il lavoro, dopo che il gruppo era rimasto in animazione sospesa per un periodo di tempo indeterminato.

Nessuna paura i VietNam – che esordirono nel 2004 per Vice, bissando poi nel 2007 per Kemado - sono invecchiati benissimo e non c’è traccia di nostalgia nella loro musica, quasi un nevrotico stralcio dalle migliori pagine dei poeti beat, con quel background bluesy che rende ancor più credibile lo scorrere della narrazione. Poesia da strada, potete ben dirlo, che non rinuncia al lascito dei grandi poeti e cantori che hanno reso meno amara la storia del disperato occidente. Da Ginsberg a Kerouac, passando per Fugs e Pearls Before Swine, canzoni di protesta e seduzione, amore libero e rivoluzione lisergica. Un sogno americano, riscritto all’occorrenza.
In questo periodo di inattività Gerner non si è mai perso d’animo, anzi, sfuggendo alla logica di una vera e propria band si è dedicato ad alcuni progetti minori con l’alter ego di D.A., sonorizzando alcune pellicole di qualche cineasta indipendente. Se in queste piccole sortite ha spesso utilizzato dei sintetizzatori analogici per meglio esplorare l’idea di un suono ambient, facendo ritorno nella Big Apple torna alla sua vecchia passione per il rock’n’roll.

Filtrata attraverso bizzarre contaminazioni psichedeliche e latin-rock, in un gioco di società in cui certo non mancano le percussioni e le chitarre wah-wah; la sfrenata giostra dei VietNam è incentrata su di uno svolgimento camaleontico. La forma canzone si scioglie, come un figurina di acido, rivelando aspetti inconsueti. Gli stessi spettri visionati da Flaming Lips e Mercury Rev ad inizio carriera. Non cadere in tentazione sarebbe davvero un grande peccato.   



Secondo album per i Suuns





I Suuns – al secolo Ben Shemie, Max Henry, Liam O'Neill e Joseph Yarmush – arrivano da
Montreal, punto nevralgico della cultura francofona canadese e patria di numerose stelle del firmamento indipendente. Difficile non farsi condizionare dal clima sociale estremamente caldo e dai sommovimenti della popolazione studentesca, che a titolo diverso sembrano aver informato tutte le session di ‘Images du Futur’.
A detta del cantante Ben Shemie un disco che nasce in un clima di grande eccitamento, speranza e al contempo frustrazione. Rispetto al tanto chiacchierato debutto, il quartetto sembra gradire una maggiore varietà stilistica, senza mai trascurare un’intensità di fondo. Già nei tratti dell’opener "Edie's Dream" si snodano gli eccentrici pensieri dei canadesi, che tra celestiali vocalizzi e pareti di white noise danno la loro personale rilettura dello shoegaze, passando anche dalle parti del più spaziale rock tedesco.

Già lodati da Pitchfork ed NME per le loro doti spontanee, con l’esordio "Zeroes QC" i nostri si guadagnarono l’appellativo di ‘Best New Band’ proprio tra le colonne del magazine inglese. Questo accadeva nel 2011, e nulla sembra essere mutato nell’atteggiamento dei Suuns, che questa volta sono intenzionati  anche a farci ballare, seguendo traiettorie non propriamente convenzionali. Tutto ciò senza particolari artifici sonori, considerando che l’idea stessa dei Suuns insegue la pratica del ‘massimo dei risultati con il minimo dello sforzo’. Una filosofia minimalista, cui provvede anche la produzione mai sopra le righe di Jace Lasek dei Besnard Lakes, che prova a restituire alle composizioni un genuino feeling live.  

Non mancateli dal vivo in primavera alle nostre latitudini.

29/04/2013 - Roma -  Lanificio 159 
30/04/2013 - Carpi (Mo) -  Mattatoio 





L'altra Naomi dei Cave Singers





Naomi è il quarto album da studio per The Cave Singers (la label ancora una volta Jagjaguwar), formazione che muove da quel Northwest, da sempre quartier generale per le migliori rappresentazioni del rock alternativo americano. Se il nuovo disco è stato registrato in poco meno di un mese, altrettanto non si può dire della sua gestazione, vicina addirittura all’anno solare. Tutto questo per conciliare l’impronta delle loro esibizioni dal vivo con alcuni aspetti più meditabondi della scrittura casalinga. Un disco che innanzitutto è fatto di dettagli, a prescindere dall’asticella del volume. La band del resto è passata attraverso numerosi cambi intenzionali nel corso degli ultimi 5 anni, rispettando le scosse d’assestamento che hanno riguardato il proprio organico. Forti dell’esperienza del produttore ed ingegnere del suono Phil Ek (Fleet Foxes, Built To Spill, Shins, Modest Mouse) assemblano un disco da intendersi come volume letterario, con ogni singola canzone a rappresentarne un paragrafo.

Si parla – in ordine sparso -  di dipendenza,  proprietà di automobili, giochi d’artificio, casette sugli alberi, trasferimenti nel New Mexico e dell’immancabile Dio, in un miracoloso gioco di riferimenti, dove la quotidianità assume spesso contorni surreali. Al trio base composto dal cantante Pete Quirk, dal chitarrista Derek Fudesco e dal batterista Marty Lund, va ad aggiungersi l’amico di lunga data Morgan Henderson (uno che senza colpo ferire è passato dai Blood Brothers ai Fleet Foxes) che amplia l’organico occupandosi del vacante ruolo di bassista, pur contando sul sempre efficace ruolo di polistrumentista. Un’apertura che ha consentito al gruppo di battere nuovi territori, anche spirituali, pur mantenendo un’identità che li vede prossimi al folk più anarcoide e rumoroso.

Una musica dal forte potere curativo, che anche attraverso prepotenti sezioni blues parla una lingua immacolata, tramandata di generazione in generazione. Tempeste acustiche e rarefatte distese elettriche, per un altro gruppo che si appropria con grande dimestichezza dei numeri della tradizione. Un sospiro, un battito del cuore.





14/01/13

Meet the JSBX





Sarà un 2013 pepato per la Jon Spencer Blues Explosions – che sulle ali del successo di ‘Meat And Bone’ – torna a calcare i palcoscenici delle maggiori città europee.
Il gruppo apparso recentemente – l’11 di gennaio – al Dave Letterman Show è tornado su livelli di assoluta eccellenza, mostrandosi una delle più efficaci macchine rock’n’roll nella dimensione live. In occasione degli appuntamenti italiani, sarà possibile incontrare la band di Jon Spencer per alcune interviste. Non perdete il nuovo coloratissimo video 'Bag Of Bones' diretto dall’artista australiana Lucy Dyson e dall’animatore Joseph Jensen. Un vero trip psichedelico!

Di seguito le date
12 Febbraio: Torino - Molodiciotto (Musica 90)
13 Febbraio:  Roma - Circolo Degli Artisti
14 Febbraio:  Bologna - La Scuderia
15 Febbraio:  Firenze -  Auditorium Flog
16 Febbraio:  Verona - Interzona