29/01/09

Monastic Madness


Chiunque voglia affrontare l’argomento garage-rock, anche in un’amichevole conversazione da bar, non può certo prescindere da alcuni punti fermi. Passi per le compilation manifesto Pebbles e Back From The Grave, per il trattato globale Nuggets e per gli eroi di Seattle Sonics, ma c’è un gruppo che in assoluto – a distanza di oltre 40 anni - suona come uno dei più futuristi ed allo stesso tempo sgangherati ensemble dell’emisfero rock’n’roll. Sono i Monks, con il loro memorabile taglio di capelli (la cosiddetta chierica, quasi un accessorio nell’outlook di coloro immolati alla vita ecclesiastica), le loro divise all-black ed il loro psicotico organetto. Veri e propri antesignani di una stagione, assai lunga, trascorsa tra revival e ritorni di fiamma, tanto che il garage-rock continua ad essere un genere vitale a cui è dedicata una fetta non trascurabile del mercato indipendente. La storia è questa, ed è una delle più bizzarre a memoria d’uomo; i Monks nascono agli albori degli anni '60, dall’idea di un gruppo di militari di stanza nelle basi americane tedesche. Il gruppo originariamente si fa conoscere come The Torquays, adagiandosi però su standard beat. Dopo aver abbracciato la nuova ragione sociale, il gruppo cambia radicalmente attitudine. Detto dell’immagine indubbiamente sopra le righe, anche il sound assume altre immancabili caratteristiche, così dagli innocenti standard sixties pop si passa in fretta e furia ad una sorta di proto-punk , in cui l’elemento psych compare non in forma di jam allungate, ma nell’uso sferragliante degli strumenti e di quell’organo ex-chiesastico bonariamente slabbrato. Anche i testi si liberano dello scontato binomio peace & love, per affrontare le ovvie magagne del tempo: addio amori adolescenziali, benvenute proteste sintomatiche contro l’invasione del Vietnam e l’annichilimento culturale della società occidentale in genere. Il tutto proposto con una tale leggerezza da rimanere sbigottiti.

I Monks divengono ben presto un’istituzione in Germania e nell’Europa continentale, ma a causa dello strisciante perbenismo dell’epoca il loro disco non vedrà la luce negli States. Troppo contradditori i loro testi per essere comunemente accettati. Nel 1967 il gruppo si scioglie lasciando ai posteri un album – Black Monk Time – oggetto di vero e proprio culto, causa la sua cronica irreperibilità. Il mito si alimenta nel 1994 quando il bassista Eddie Shaw pubblica l’autobiografia Black Monk Time, che oltre a fare del gruppo un’icona del proprio tempo, accelererà il cosiddetto processo di ‘beatificazione’. Conosceranno così una nuova giovinezza i nostri, che arriveranno a riunirsi nel 1999 durante il festival americano Cavestomp! Inutile dire che se al tempo furono letteralmente osteggiati nel paese natio, oggi vengono accolti come autentici eroi. E’ solo la prima di altre fruttuose reunion, che avranno poi luogo in Spagna nel 2004 (The Wild Weekend, Benidorm) ed in occasione del tour in Germania ed Austria del 2007. E come suonano quei tremendi monaci oggi? Come ossessi verrebbe da dire, le immagini di certo non tradiscono…

Non siete convinti della loro influenza? Perché non provate a ricercare la compilation tributo Silver Monk Time? I nomi di Fall, Faust, Ptv3 (Psychic Tv) International Noise Conspiracy, Alexander Hacke (Einsturzende Neubauten), Alan Vega (Suicide), Silver Apples, Mouse On Mars, Raincoats, Gossip e Jon Spencer Blues Explosion, dovrebbero solleticare quanto meno la vostra fantasia.

Black Monk Time, spesso pubblicato in riedizioni carbonare, vede finalmente la luce attraverso la preziosa opera di restauro della Light In The Attic di Seattle, che - come suo solito - amplia la scaletta originale andando a pescare un rarissimo singolo. Riproducendo una veste grafica di assoluto splendore ed un esteso booklet con le testimonianze degli stessi protagonisti originali. Unitamente al loro unico album da studio, giungerà l’ancor più sfiziosa raccolta The Early Years 1964-65, sunto sull’attività primordiale dei nostri. Due piccioni con una fava!

28/01/09

The Low Frequency In Stereo



C’è un tempo per crescere, un luogo in cui affrancarsi dalle passate esperienze. L’anno è il 2009, il luogo la Norvegia (siamo nella cittadina di Haugesund), la regia curata da Rune Grammofon, la prestigiosa etichetta locale che non guarda unicamente all’avanguardia, ma anche alle più sofisticate forme di pop in circolazione. La Susanna solista o in combutta con la magica orchestra sono una discreta pietra di paragone. Più strutturata l’esistenza dei cinque Low Frequency In Stereo, che che sembrano aver smaltito i timidi esordi indie a favore di un sound che in una serie di vivide istantanee convoglia il sixties garage, l’avant pop, lo shoegaze, l’elettronica minimalista e addirittura alcune spezie orientali.

Nascono nel 2001 sulla costa est norvegese. Dopo la coppia di album pubblicati rispettivamente nel 2002 e 2004 - "The Low Frequency In Stereo" e "Travelling Ants Who Got Eaten By Moskus" – i nostri ricevono addirittura una nomination ai Grammy nazionali con "The Last Temptation Of..." del 2006. Questo è in pratica il viatico alla crezione di "Futuro", che oltre alla lunga gestazione ha portato anche ad un rimpasto di formazione, con i nuovi elementi Clementsen e Frøkedal. Con "Futuro" il gruppo decolla letteralmente, suggerendo proprio una passione per quelle musiche retro-futuriste che negli ultimi 15 anni hanno fatto la fortuna di gruppi quali Stereolab, Pram o Laika. C’è ovviamente dell’altro, tanto che negli scenari del nuovo disco si insinuano le influenze più disparate: dai sempreverdi Can a Terry Riley, dal più sommerso electro-pop alla vocalità angelica dei B 52’s, senza in questo trascurare il rumore bianco dei My Bloody Valentine o certi immaginari spaghetti-western. Per loro Pitchfork ha coniato la definizione di Psych-Garage Dronemeisters, ma oggi lo spettro dei Low Frequency In Stereo si sposta molto più in là, alla ricerca di nuovi mondi e modi di intedere la musica contemporanea. Non c’è da stupirsi dunque della presenza di Nils Økland e Kjetil Møster (Ultralyd) compagni di scuderia che accendono le velleità avant del disco, registrato tra l’altro dal re mida Jørgen Træen (Jaga Jazzist, Kaizers Orchestra, The National Bank, Sondre Lerche). Ci sono tutti gli elementi in campo per un percorso finissimo. Buon viaggio.

AC Newman



Get Guilty è il secondo album di AC Newman (per gli amici Carl), uno dei membri fondatori dei New Pornographers, una delle più influenti formazioni indie-rock contemporanee (lo stesso collettivo in cui si è fatta apprezzare una giovanissima Neko Case). Dalla natia Vancouver, Carl si è trasferito nella ben più movimentata Brooklyn, ideale punto di raccolta per menti libere e musicisti indipendenti. Nel 2004 il suo disco di debutto "The Slow Wonder" raccolse consensi unanimi, spinto in particolare dalla bibbia indie on line Pitchfork, che parlava di un perfetto ibrido tra pop e soul music. Con "Get Guilty" lo spirito è più introspettivo, ricalcando per certi versi la personalità di "Challengers", ultimo album in studio degli stessi New Pornographers. Non viene meno l’immediatezza e la tenuta emotiva dei brani è sempre molto eccitante. Dove guarda A.C. Newman? Sicuramente agli eroi del passato, in una dimensione che preveda gli evergreen del pop e gli artisti più fantasiosi della new wave. "The Palace At 4 A.M." è ad esempio un brano corale dal potenziale da Top 40; mentre "Like A Hitman, Like A Dancer" distilla il contenuto del film del 1967 Le Samurai in una semplice storia fatta di indecisioni, arricchendo anche le liriche del disco, pronte a testimoniare di una quotidianità sopra le righe."Elemental" è quasi un tributo ai Felt, mentre "The Collected Works" si diverte a citare il George Benson di On Broadway ed i Queen di Fat Bottomed Girls. Affatto trascurabile il cast di ospiti presente nell’album, alla batteria troviamo Jon Wurstel (Superchunk, Mountain Goats) e Charles Burst, al fianco di una ricca sezione fiati ed archi, anche la voce dell’emergente Nicole Atkins ed il cameo dei Mates Of State. Il segreto di "Get Guilty"? Un suono assolutamente familiare, confidenziale, eppure ricco di quelle sfumature che fanno di AC Newman un cantautore davvero imprevedibile.

E’ Broken Horse a licenziare per l’Europa questa sua nuova fatica, espandendo così un catalogo già di per sé brillante (si pensi al disco fantasma di Plush o alla costola dei Wilco Autumn Defense).


Novillero



La storia dei Novillero ha inizio in Winnipeg (la più popolosa cittadina della regione Manitoba in Canada) nel 1999, quando dalle ceneri delle formazioni locali Duotang e Transonic, viene fuori una band improvvisata che si perde in piccole jam da studio. Innamorati nella stessa misura del suono dei seventies come di certo college rock americano, i cinque mettono mano ad un’inedita fusione mod-pop, che mantiene una certa muscolarità di fondo. Rod Slaughter (tastiere e voce), Sean Stevens (chitarra), Dave Berthiaume (batteria e voce), Grant Johnson (basso e voce) e Jack Jonasson (tamburino, percussioni, voce e sintetizzatore) ci offrono le loro sostanziali coordinate: gli Who di High Numbers, i Love di Forever Changes, certo soul e l’eccentricità proto-garage degli Small Faces. I due primi album – "Brindleford Follies" e "Aim Right For The Holes In Their Lives" - riscuotono un immediato successo, confermato anche dalle entusiasmanti performance dal vivo. Spesso dividono il palco con altri celebri canadesi quali New Pornographers e Weakerthans. Con il terzo album "A Little Tradition" che esce in questi giorni anche in Italia per Mint il gruppo spicca il volo, perfezionando quello che è un ibrido pop già eccellente. L’altra novità è rappresentata dalla voce di Keri Latimer del gruppo alternative-country N
athan, che compare in alcuni brani specifici del disco. Un disco che guarda avanti, tra le sue perfette melodie, rispecchiando però il gusto dei tempi che furono.

27/01/09

Easy Star All Stars a Sanremo

E’ con immenso piacere che comunichiamo la partecipazione del combo newyorkese Easy Star All Stars alla 59sima edizione del festival di Sanremo nella serata del 19 febbraio.
Autori nel 2003 di un vero e proprio caso discografico con Dub Side Of The Moon, rielaborazione in chiave reggae-dub della pietra miliare The Dark Side Of The Moon a firma Pink Floyd, i nostri calcheranno il palcoscenico dell’Ariston nella veste di ospiti internazionali ed eseguiranno il brano Time.
L’esperimento Dub Side Of The Moon ha fruttato grande interesse e notevole visibilità alla formazione, fortemente indebitata nei confronti della musica giamaicana. Gilmour e soci ai Caraibi? Al solo pensiero molti scossero il capo, eppure quello che è accaduto con ‘The Dub Side Of The Moon’ è stato un autentico miracolo, di quelli che si possono iscrivere nella storia recente del pop. Sfruttando il potenziale melodico e gli arrangiamenti estrosi dell’originale, Easy Stars All Stars hanno ricostituito un nuovo ambiente, in cui il reggae è per definizione la stanza in cui aleggiano le vibrazioni spaziali dell’originale.
Dub Side Of The Moon è uno degli album reggae di maggior successo del 21simo secolo ed ha occupato per oltre 5 anni i primi posti della chart specializzata di Billboard. La prestigiosa rivista britannica Mojo ha indicato l’album come il secondo miglior disco di cover di sempre. Il successore – Radiodread, parabola ‘nera’ di Ok Computer – è stato per 18 mesi in cima alla Top Reggae Chart di Billboard, conquistando addirittura i favori degli stessi Radiohead.
Il collettivo newyorkese non teme certo confronti con la storia: il 14 di Aprile - ancora per il marchio Easy Star Records - vedrà la luce Easy Star’s Lonely Hearts Dub Band, come si evince dal titolo ripresa del concept album beatlesiano Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Tra gli ospiti del disco nomi di spicco della scena reggae, dancehall e dub internazionale come Steel Pulse, Michael Rose (Black Uhuru), Max Romeo, The Mighty Diamonds e numerosi altri.

26/01/09

The Pack AD



Tornano le Pack AD con un nuovo album. "Funeral Mixtape" giunge proprio sull’onda dell’entusiasmo generato dal debutto "Tintype", licenziato dalla stessa Mint. Registrato in presa diretta su nastro analogico al The Hive Studios, "Funeral Mixtape" cattura l’intensità strumentale ed il calore del duo canadese composto da Becky Black e Maya Miller, rispettivamente chitarra/voce e batteria/voce. Impressionante come un duo possa generare tale fuoco, catturando in primis per la massa sonora e poi per il preciso songwriting. Il blues è la materia principe attorno alla quale le due costruiscono il proprio castello, un blues che può suonare ancestrale ma altrettanto avventuroso. Nel particolare la voce di Becky è stata spesso paragonata a quella di Janis Joplin, come le infuocate performance dal vivo accostate a quelle di eroi contemporanei quali The Black Keys. Ma aldilà dei pur sempre attendibili paragoni, le due ragazze mostrano letteralmente i denti, esibendo talento e personalità, ricalcando attitudinalmente il percorso di altre celebri coppie innamorate del blues (The White Stripes e The Kills tra gli altri). Arrivano dalla British Columbia e non fanno fatica a riconoscere tra i propri eroi di sempre mostri sacri quali Bo Diddley, gli artisti della scuderia Fat Possum e – a sorpresa – la grande folk-singer Karen Dalton come i padrini del garage The Sonics. Sfidando la misoginia radicata in molti dei seguaci di blues, la voce di Becky è riuscita ad imporsi prepotentemente anche negli ambiti più settari, grazie ad un timbro soulful e molto torturato. Pack A.D. è un progetto carismatico, un ruolo dissipato tra garage e cultura black, un ibrido di quelli immancabili.

23/01/09

Heartless Bastards - The Mountain

God gave rock’n’roll to you titolava un celebre brano degli anni ’70. Gli Heartless Bastards sembrano far tesoro di questa espressione, si aggrappano alla rude materia principe e lavorano di cesello, ovviamente senza andare troppo per il sottile, rischierebbero di svilire l’essenza stessa della musica del diavolo. Sono al terzo album per Fat Possum, quale migliore casa per un gruppo che prende il suono delle radici, lo riduce in poltiglia e ne estrae canzoni francamente irresistibili? Niente a che vedere col vostro mesto alternative-country, o con qualche cowboy che stancamente si trascina nel rituale delle dodici battute. La musica dei bastardi senza cuore – che tra l’altro mostrano di avere un innato senso dell’umorismo – è fatta di saliscendi umorali: rude e sensibile, nello stesso ascensore che porta ai primissimi piani del rock indipendente statunitense.
Se non credete alle nostre parole ascoltate il nuovo album The Mountain – come vedete altro obiettivo figurato da scalare – in uscita il 23 di febbraio e prodotto dalle sapienti mani di Mike McCarthy (Spoon, Trail of Dead, Patty Griffin). La nuova avventura sonica si arricchisce di interessanti ‘comprimari’, il terzetto piuttosto che incamerare improbabili turnisti, amplia il suo spettro sonoro: c’è infatti una chitarra pedal steel, un mandolino ed un banjo. Il tutto a supporto della voce trascendentale di Erika Wennerstrom che proprio il demone del blues sembra incarnare. Un po’ Patti Smith, un po’ PJ Harvey, ma non fatevi distrarre dalle percentuali.
Erika rimane la leader del gruppo, nel 2007 si trasferisce a Austin, Texas, per scrivere del nuovo materiale da sottoporre all’attenzione del produttore McCarthy. Ne viene fuori – dopo un ritiro quasi ascetico – con 11 canzoni che indicano un’evoluzione netta nel suo songwriting.
Il passo successivo è quello di allestire una nuova formazione. Dopo settimane di folli audizioni tocca ai locali Dave Colvin (batteria) e Jesse Ebaugh (basso) salire a bordo. Per l’imminente tour internazionale il trio sarà accompagnato anche da Bill Elm (lap steel) e – occasionalmente - Zy O.Lyn (violino). Questa nuova line-up degli Heartless Bastards sicuramente non farà rimpiangere i trascorsi altrettanto ‘sudati’ per Fat Possum.
Se cercate un’audace formazione a tutto tondo, stavolta sapete dove rivolgervi.

Joe Bataan - King Of Latin Soul

Il ritorno di Joe Bataan, uno dei personaggi chiave del soul latino in condizioni strepitose e con la capacità di cullarci nuovamente col suo caliente ibrido musicale. Stabilita una nuova alleanza con la spagnola Vampi Soul, Joe unisce le sue forze col gruppo latin funk catalano Los Fulanos, col fine di rispolverare alcuni dei suoi più gettonati standard. Stiamo parlando di un uomo che ha fatto la storia della musica ritmica, con le sue numerose hit per il catalogo Salsoul ed i gioiosi ibridi tra disco e musica sudamericana. I Los Fulanos hanno preparato il campo per questa nuova seducente operazione, riarrangiando numerosi brani di repertorio del nostro ed approntando ritocchi decisivi ad alcuni standard appositamente riletti. Come l’immortale The Bottle di Gil Scott Heron, che Joe aveva ripreso in chiave strumentale già negli anni ’70 ed oggi interpreta con decisione, col suo distinto piglio vocale. King Of Latin Soul è costituito dai suoi cavalli di battaglia Gipsy Woman, Special Girl, Subway Joe e Johnny’s No Good, registrati dal vivo in studio dopo la sua doppia visita a Madrid e a Barcelona. Per il resto sono i nuovi arrangiamenti a rendere ancora più sfiziosa la raccolta, che piuttosto che suonare come uno stantio best of, si presenta quasi come un disco ‘inedito’. Mestizo abbandona il feeling disco della versione originale per rivivere in un corpo latin soul, discorso opposto per Rap O Clap O che si accosta invece prepotentemente ai ritmi del dancefloor contemporaneo. Come vedete la parte del leone è recitata proprio dai Los Fulanos che hanno iniettato nuova linfa nel repertorio di Joe, riportando in auge la figura di un mostro sacro della musica latina.

Black Merda - Forces Of Nature

E’ spesso il fervente mercato delle ristampe a condizionare l’andamento della comunità musicale internazionale, portando anche ad inaspettate reunion, come nel caso degli americani Black Merda, che dopo aver raccolto i frutti del loro seminale black rock con la ristampa del 2005 The Folks From Mother’s Mixer, si riaffacciano a sorpresa sulle scene. La raccolta curata da Funky Delicacies metteva assieme il debutto omonimo (originariamente pubblicato dalla benemerita Chess nel 1970) ed il successivo Long Burn The fire (GRT 1972). Prossimi al sound dei Funkadelic più acidi ed agli Experience di Hendrix, i Black Merda si imposero con un sound dalle forti tinte psichedeliche, la cui eco giunge fino ai giorni nostri.
Force Of Nature celebra dunque la loro ricostituzione, sviscerando un funk rock dalle solidissime basi e dagli accenti bluesy. Un repertorio di inediti per questi pionieri del black rock che non mancherà di stuzzicare le fantasie dei più versatili ascoltatori. Ancora guidati dal talento del chitarrista Charles Hawkins e del bassista Vc Veasey, i Black Merda (ci raccomandiamo con la pronuncia. black murder!) demoliscono ogni luogo comune del genere, tanto è capace di suonare fresco e roboante il loro funk, che oggi si traduce in tracce al vetriolo come Can’t Get Enough Of The Funk, Miss Hawkins’ House, I’m Not Coming Back o Beautiful Thing. Sarebbero potuti essere dei giganti al tempo, magari firmando un contratto con Motown, ma spesso il corso degli eventi può risolversi in inedite ed insperate combinazioni: oggi – con la supervisione dell’iberica Vampi Soul – potremmo realmente ascoltare un’altra storia.

Dan Deacon "Bromst"

A tre anni dall’eclettico Spiderman of the Rings il ritorno di Dan Deacon è non meno terremotante. Porta il titolo di Bromst ed è stato inciso presso lo SnowGhost nel North Western Montana da Brett Allen. 70 minuti che riproducono tutta l’energia dei live unitamente al suo folto background che prevede un ascolto maniacale di musica elettronica e composizione moderna. Quello che viene fuori è un album che premia l’intensità delle sue performance, mantenendo sempre un’attitudine fresca, quasi gioviale. Nelle stesse parole di Dan il disco si presenta in questi termini:
“è differente, c’è molta meno computer music ed un uso maggiore degli strumenti acustici (marimba, xylofono, glockenspiel, vibrafono, batteria, piano), il suono è così più ricco. E’ stato catturato su nastro con l’ausilio di numerosi sintetizzatori analogici, così da rendere l’insieme meno plastificato…è probabilmente meno orientato al dancefloor, ma allo stesso tempo è anche più intenso, variegato e serio… le canzoni non debbono essere ascoltate integralmente per partecipare ad un’esperienza completa.”
La comunicazione è stata sin dagli esordi un pallino fisso per Dan, che dietro l’idea del network ha costruito le proprie fortune. Fondatore del rinomato collettivo artistico Wham City, organizzatore del festival – rigorosamente do it yourself - Whartscape e curatore del mastodontico tour Baltimore Round Robin che prevedeva qualcosa come 60 musicisti per circa 30 band. Ecco perché l’idea di mettere assieme un nucleo di persone ha costituito la maggiore attrattiva di Bromst.
“Per buona parte Bromst racchiude storie che affrontano fantasmi presenti e passati, i cicli della terra, le montagne, l’invecchiamento, il cambiamento, il tempo non lineare, la cospirazione globale, l’oppressione dello spirito ed i reami psichedelici che co-esistono tra i nostri piani materiali” spiega Dan. “Molto è cambiato dai tempi di Spiderman – il collettivo Wham City è stato messo sotto silenzio, a questo aggiungiamo qualche colpo di cuore, la riscoperta di un approccio più spirituale alla vita, elementi del genere – ecco perchè Bromst porta con sè un ampio bagaglio di emozioni rispetto al disco precedente”.
Un album complesso a ben vedere, che per impatto lirico e sonoro proietta Dan nell’Olimpo dell’indie-tronica, sposando ricerca e propensione alla danza. Presto la sua musica raggiungerà anche un paese lontano come la Nuova Zelanda, dove supporterà gli High Places. Niente male per un artista che cita beatamente Devo, Talking Heads, They Might Be Giants, Scratch Orchestra, People Like Us, Raymond Scott, Iannis Xenakis, Residents e Conlon Nanc

La pagina myspace di Dan Deacon

Da questo link è possibile scaricare gratuitamente i precedenti lavori di Dan Deacon

Bromst uscirà il 23 Marzo su Carpark Records

22/01/09

Introducing Dent May & His Magnificent Ukulele

Un atto d’amore? Prendetelo come tale, lo smarrito Dent May, con il suo evidente bagaglio d’influenze e la sua attitudine da primo della classe osteggiato allo school prom (la festa danzante che chiude solitamente l’anno accademico) non poteva che finire sotto l’ala protettrice della Paw Tracks, marchio affiliato alla scuola weird-pop di Animal Collective. Dent May – alla guida di His Magnificent Ukulele - è una nuova sensazione pop da Oxford, Mississippi. Se non avete ancora sentito parlare di lui, preparatevi alla cosiddetta invasione mediatica, il 2009 potrebbe essere l’anno del suo riscatto.
Dent ha le physique du role del più incallito intrattenitore, e nonostante la giovane età sono proprio le sue movenze ed il timbro vocale a stupire. Uno stile da crooner con sobri picchi in falsetto, una carta d’identità di quelle ragguardevoli, con la benedizione virtuale di alcuni dei suoi interpreti favoriti: Prince, Serge Gainsbourg e Lee Hazlewood, giusto per fornirvi qualche indicazione di massima. Le sue sono canzoni pop dal sapore antico, classici immediati che sembrano attingere tanto alla musica hawaiana quanto al dizionario esotico dei Beach Boys, passando attraverso lo swing, il country, l’incredible strange music e finanche certa psichedelia made in Sud America.
Peraltro ricche le esperienze musicali del nostro che debuttava in tenera età col synth power-pop dei Rockwells, per poi abbracciare la più atipica country music con Cowboy Maloney's Electric City. Con lo pseudonimo di Dent Sweat si affaccia invece di recente nell’emisfero dance. Quella che verrebbe voglia di definire una personalità multipla.
Musicista globale, le cui liriche rispecchiano però la quotidianità in cui è immerso, con testi che affondano negli scenari cittadini, ripercorrendo la vita dei propri amici e delle ‘ninfette’ che accidentalmente lo circondano.
L’incontro tra Dent e gli Animal Collective è avvenuto proprio a Oxford, Mississippi, agli albori del 2008, quando il gruppo di Panda Bear era intento a registrare il suo ultimo capolavoro da studio. L’intesa, immediata, ha portato a siglare un accordo per il disco di debutto The Good Feeling Music of Dent May & His Magnificent Ukulele, 11 brani inediti ed una cover dei Four Preps – 26 Miles (Santa Catalina) – prototipo di surf music direttamente dagli anni ’50.
Il disco è stato inciso nella vicina Taylor, MS, con l’ingegnere del suono Rusty Santos (già al lavoro con Panda Bear, Animal Collective, White Magic e numerosi altri). Se la primavera appare ancora lontana, con la musica di Dent May sarete addirittura sbalzati in un torrido scenario di mezza estate.

Torna Mark Nelson con Pan American



Sesto album in studio per Mark Nelson alias Pan American, elemento cardine di una delle formazioni post-rock per eccellenza d’America: i Labradford. Un ritorno all’ovile con "White Bird Release", fuori per Kranky – la stessa etichetta del suo omonimo debutto e dell’altrettanto sorprendente Quiet City (con relativo dvd in allegato), lo stesso marchio che ha permesso ai Labradford di crescere in maniera esponenziale nel circuito indipendente – come a riprendere le fila di un discorso solo parzialmente accantonato. Il prestigio di Nelson è infatti tale da aver permesso al nostro di pubblicare per Mute, Verticla Form e la promettente indie elettronica austriaca Mosz (che ha licenziato il penultimo For Waiting, For Chasing) . Il nuovo album non fa altro che arricchire le fluttuanti strutture che da sempre ne costituiscono l’opera, in un inseguimento palpabile tra ambient music e sottili rumorismi. E’ questa l’arte di Pan American, lavorare ad un suono dai tratti molto descrittivi, lasciando ampio spazio all’immaginazione. Un’impostazione quasi panoramica, da sposarsi spesso ad immagini suggestive (un esempio per tutti è dato appunto dall’esperienza multimediale di Quiet City). Mark Nelson è a tutti gli effetti il papabile erede del Brian Eno più immaginifico, del John Hassell che approntava la cosiddetta Fourth World music e dei corrieri cosmici nel loro formato – appunto – più spaziale. Un altro colpo messo a segno da Kranky, che nella continua ricerca di nuovi talenti torna a riscoprire gli autori che ne hanno fatto un marchio di razza per la musica contemporanea più avventurosa e propositiva.

21/01/09

Tipsy




Sembrano già archiviati i tempi del revival easy listening, eppure qualcosa nei sotterranei americani continua ad agitarsi sull'onda lunga delle compilazioni curate dall'indomabile marchio Re/Search e nel rispetto dell'onirica memoria dei padrini dell'incredible strange music. Chi fa ancora storia a sé sono i Tipsy, duo originario di San Francisco che incurante delle mode continua a prodigarsi in un ibrido fascinoso di musica dai tratti extra-sensoriali. Un'esperienza auditiva che comporta l'accostamento di molteplici elementi, al fine di rinnovare lo spirito di musiche marziane, difficilmente catalogabili. Proprio sulle onde del cut-up burroughsiano - sappiamo del resto che la letteratura off si sposa abilmente con i suoni di confine - il duo composto da Tim Digulla e David Gardner, continua ad approcciarsi in maniera libera alla materia elettronica, risultando imprendibile a tutti gli occhi. Potrebbero essere considerati l'alter ego meno intellettuale dei Matmos, ma il paragone sta sicuramente stretto. Nel 1998 il gruppo ottiene i suoi 5 minuti di gloria lavorando secondo la propria formula il brano "This Is Hardcore" dei Pulp. E' il viatico verso un'affermazione su più ampia scala, ai Tipsy vengono commissionate musiche per celeberrime serie televisive come The Sopranos e Sex In The City. Anche con MTV si apre una finestra importante con The Real World. I numerosi impegni concomitanti hanno in qualche misura rallentato l'attività principe del duo, che torna in studio solo sul finire del 2005. Buzzz è il frutto del loro più recente sforzo artistico, quasi due anni nella lavorazione. Ed è Ipecac ad immetterlo sul mercato a fine 2008, prestando fede alla sua tradizione di etichetta artisticamente libera. E' evidente una maggiore cura per il dettaglio ritmico e l'apertura ancora maliziosa al più stravagante pop, grazie all'ingresso a mezzo servizio della vocalist giapponese Coppe.

The Drones, il nuovo album



Il nuovo album degli australiani Drones nasce in una casa nel mezzo alla foresta di Melbourne, nominalmente domicilio per la coppia Gareth Liddiard e Fiona Kitschin, rispettivamente cantante e bassista del gruppo, ambiente ideale in cui mettere mano al quarto album in studio dei Drones che vedrà la luce il 16 di febbraio 2009.

Giusto nel febbraio 2008 – nell’occasionale studio approntato nei pressi dell’inedita dimora rurale - Liddiard aveva iniziato a lavorare ad un manipolo di nuove canzoni, che avrebbero composto l’ossatura di "Havila". Due mesi più tardi a raggiungerli è il chitarrista Dan Luscombe, il volto nuovo della formazione, accompagnato dal batterista Michael Noga: iniziano le prove generali per le nuove composizioni, lavorando duramente nell’arrangiata sala prove, il che porterà il gruppo ad ottenere un suono se possibile ancora più scarno. L’ultimo tassello è fornito dal produttore Burke Reid, la persona che materialmente documenterà queste ardite session. E’ un album diverso per i Drones, un disco che vive di tumultuosi raga elettrici e di ballate drammatiche, un disco al solito carnale, fatto di passioni autentiche, per nulla stereotipato. E come si conviene ai classici del rock australe un disco senza tempo, moderno per certi aspetti, tradizionale per altri. Sentirete l’impeto delle grandi formazioni del post punk australiano, come l’eco per nulla filtrato dei grandi gruppi della terra dei canguri: dai Birthday Party – ovviamente – ai Beasts Of Bourbon. Circostanze che già da tempo hanno fatto dei Drones una delle formazioni più apprezzate negli States ed oltre manica. "Havila" è un disco pregno di riferimenti al rock più classico e narcotico, mettendo in fila echi del Neil Young più elettrico, dei Velvet come dello stesso Lou Reed solista, finanche dei Suicide. Le dieci canzoni che ascolterete sono quanto di più prossimo al Giardino dell’Eden evocato proprio dal biblico titolo. Benvenuti nell’Olimpo dei grandi.

Ecco il video di "The Minotaur", seconda traccia del nuovo disco


20/01/09

Official Secrets Act




E’ tempo che il pop assuma una nuova dimensione e la grossa responsabilità è anche sulle spalle di Official Secrets Act, nuova scoperta di One Little Indian. Space age pop dal piglio ricercatissimo, nulla che abbia a che fare con gli stereotipi dell’indie rock e l’immagine imbellettata dei nuovi divi d’oltremanica. Un giornalista influente come Steve Lamacq li ha già indicati come la band più erudita ascoltata da diverso tempo a questa parte, mentre il prestigioso The Guardian ha detto di loro che sono una formazione tutta anima e cuore. Niente calcoli dunque, perché stavolta la classe è innata, è un fattore genetico. Molteplici le loro influenze, in combinazioni spesso imprevedibili, un piatto ambizioso in cui le loro strutture mobili sono spesso sorrette da armonie delicatissime.

Nascono a Leeds Thomas Charge Burke (voce, chitarra), Lawrence James Diamond (basso, voce) e Alexander Dunlop MacKenzie (batteria, voce) e inizialmente si riuniscono attorno ad un nastro d’epoca di Marquee Moon dei Television ed cominciano a pianificare il proprio futuro. Il quartetto si completa pesto con l’arrivo di Michael Andrew Evans (il polistrumentista del gruppo: chitarra, harmonium, tastiera Roland e batteria). I quattro ragazzi si spostano a Manchester e passano con disinvoltura dall’ascolto dei Talking Heads a quello dei Vampire Weekend, attraverso numi tutelari dell’indie americano come Bright Eyes e Neutral Milk Hotel, influenze che possono fornire un’indicazione di massima sulla loro musica, forse uno degli esempi più fulgidi ed allo stesso tempo sfuggenti di pop contemporaneo. Una vena glam quasi spaziale, una sezione ritmica incalzante che evidentemente non ignora quanto scritto in ambito white-funk, soprattutto in patria. Ed un cantato austero, abbellito dagli intrecci vocali dei 3 uomini dietro al microfono. Tempo di apparire diffusamente sui palchi nazionali e già arrivano le prime conferme da parte di NME, Artrocker e Time Out. Il gruppo divide spesso il palco con altri nastri nascenti della canzone elettrica inglese come Thomas Tantrum e Pete And The Pirates, continuando ad accrescere la propria fama sul territorio. Una continua scalata che li porta a spalleggiare i ‘maestri’ Gang Of Four all’Offset Festival. Il loro imminente debutto “Understanding Electricity” (in uscita a fine marzo) sarà una scossa, per tutti gli ambienti pop alternative abituati ai soliti pasti precotti.

19/01/09

Lotus Plaza



Lockett Pundt è il secondo elemento dei Deerhunter in congedo. Una fuga artistica momentanea, così come accadde lo scorso anno per il frontman Bradford Cox che mise in piedi il fortunato progetto Atlas Sound. Lotus Plaza è lo pseudonimo utilizzato dal nostro per il disco di debutto "The Floodlight Collective", in uscita per Kranky il 23 di marzo. Siamo sempre dalle parti dellealle atmosfere meditabonde ed ambient del gruppo madre, quasi una deriva isolazionista del suono shoegaze, con ricordi ben impressi di quanto pubblicato da un’etichetta come 4AD nella seconda parte degli anni ’80 (si pensi a Cocteau Twins e This Mortal Coil). Ma aldilà della passione per il più etereo post-punk di marca inglese Lockett è interessato alle armonie vocali dei gruppi doo-woop e del Brill Building, il celebre palazzo sito a Broadway che ha ospitato i talenti di Phil Spector, Burt Bacharach e Neil Sedaka tra gli altri. Partecipa al disco il compagno di ventura Cox, che presta la sua voce al brano "Different Mirrors", uno dei passaggi più immediati del disco, debitore dell’inimitabile e primordiale Factory Sound generato dall’ingegnere Martin Hannett. Ma tutto l’album è un delizioso ibrido, muovendosi discretamente tra armonie vocali pop ed arrangiamenti che a seconda dei casi possono riportare alla mente kraut-rock, ambient e surf. Una produzione curata nei minimi dettagli, proprio in onore dei cosiddetti maghi da studio che da sempre hanno influenzato il carattere della musica contemporanea e pop. Un’esperienza che non si distacca radicalmente dai Deerhunter, ma che anzi ne amplifica aspetti per certi versi nascosti. Un campionario di canzoni che possono colpire a seconda dei casi per le loro subdole movenze o per rime eccentriche. Seguendo un ipotetico filo rosso che da Brian Wilson porta agli Animal Collective, da Phil Spector ai Jesus & Mary Chain. Come dire, alta classe!

16/01/09

Il video di Welcome Wagon



Il nuovo video per Don Vito Aiuto e sua moglie Monique tratto dal bellissimo "Welcome To The Welcome Wagon" prodotto da Sufjan Stevens e pubblicato dalla Asthmatic Kitty

MELODIE CHE SPRIGIONANO UN CALORE SCONOSCIUTO ALLA MAGGIORANZA DEI DISCHI INDIE, UNA INTIMITA' CONDIVISA E PIENA...E SUFJAN STEVENS, CERTO RILEVANTE SONICAMENTE, QUESTA VOLTA E' SOLO UNA COMPARSA. VITO E MONIQUE BASTANO E AVANZANO!" - BLOW UP

UN TRADEMARK CHE NON SAREBBE ESISTITO SENZA LA PRODUZIONE DI SUFJAN STEVENS CHE AGGIUNGE ALL’ALBUM GLI ELEMENTI CHE MANCAVANO, AFFINANDO LE CANZONI CON ARRANGIAMENTI MISURATI, EFFICACI, DAI TONI APERTI E DISTESI, ARMONIZZANDO LE IDEE MUSICALI IN UN DISOC DI SENSO COMPIUTO - JAM

DOVENDO SNOCCIOLARE QUALCHE OFFICIANTE, DIREI I LOW PIÙ ETEREI, LA PARTE MENO INFERVORATA DELLA COMBRICCOLA ELEPHANT 6, I POLYPHONIC SPREE OVVIAMENTE, POI IRON & WINE E APPUNTO MR. STEVENS. DETTO QUESTO, C’È APPUNTO LA SPECIFICITÀ DEL CASO IN QUESTIONE, OVVERO QUEL CERTO TALENTO CHE CONSENTE L’ACCADERE DI BALLATE COME HE NEVER SAID A MUMBLIN’ WORD, ROBA CHE NON SFIGUREREBBE AFFATTO NEL (ANZI AVVALOREREBBE IL) REPERTORIO DEI CALEXICO E FORSE UN PO’ ANCHE DEGLI STESSI LOW, COSÌ COME I AM A STRANGER FAREBBE LA GIOIA DEGLI PSEUDO-AMERICANI GOMEZ - SENTIRE ASCOLTARE

NON POTEVA MANCARE L’INCONFONDIBILE BANJO DI STEVENS NEL BRANO PIU’ EMOZIONANTE DEL LOTTO, I AM A STRANGER, UN CANTO ACCORATO CHE CRESCE LENTAMENTE, ESPLODE E SI FA SUSSURRO - ROCKERILLA

SUFJAN STEVENS HA DECISO DI METTERE MANO AL DEBUTTO DEL REVERENDO VITO AIUTO E DI SUA MOGLIE MONIQUE, MINISTRI DELLA CHIESA PRESBITERIANA DELLA RESURREZIONE. UNA DELLE PIU’ BELLE SORPRESE DI INIZIO ANNO - GQ

Alice Russell live on TV



Il video della performance live di Alice Russell a Canal Plus in Francia.

15/01/09

Maupa




La storia dei Maupa non è diversa da quella di numerosi gruppi di provincia, che durante e dopo il college si trovano a provare insieme, accomunati dalle stesse passioni, spesso anche extramusicali. Arrivano da Manchester e Blackburn e nel 2004 Iil oro debutto "The Minor Highs and The Major Lows" vede la luce per Necessary Records ed è un tripudio di gentilezze pop e richiami alla più romantica wave dei primi eighties. Adam Bishop (Moog, Piano, Organo), David Boon (voce, chitarra), Anthony Gibbons (batteria), Lorcan Moriarty (chitarra, tromba), Paddy Mckeown (chitarra, mandolino) e Matt Smithson (basso) tornano sul finire del 2008, con un lavoro che ancor di più evidenzia la loro caratura stilistica. "Run Run Sleep", è un disco d'altri tempi in cui troviamo un filo rosso che conduce al bucolico post punk alle armonie di casa Sarah Records, ai sofisticati arrangiamenti della scuola scozzese alla più morbida psichedelia in circolazione. In primavera saranno in tour alle nostre latitudini, ovviamente la preghiera è quella di non mancare ai loro avvolgenti show.

"Si muovono con eleganza in un rombo che comprende sicuramente i Led Zeppelin al loro picco folk, i Mercury Rev, i Cowboy Junkies e qualche altro autore dalla vibrazioni particolarmennte decise" - THE INDEPENDENT

"Questo sestetto di Accrington presta fede ad un unico giudizio: epica magnificenza. Un ascolto assolutamente mesmerico. Per troppo tempo questa formazione è rimasta tra i segreti meglio custoditi del nord-ovest. 'Run Run Sleep' è un'autentica gemma" - 8/10 NME

13/01/09

Madlib è The Beat Konducta - A Tribute To Dilla

Quando Madlib ha fatto seguito all’epocale Donuts di J Dilla – un lavoro che ha introdotto nuovi standard non solo nel mondo dell’hip-hop, ma anche in quello della musica ritmica tutta – con un concept interamente strumentale, una nuova serie ha preso forma all’interno del già sfavillante catalogo della californiana Stones Throw.
Beat Konducta, questo il marchio indelebile che campeggia nella nuova collana, di cui Madlib è cospiratore principe, spesso associato a complici di tutto valore. Il concetto è semplice, tutti i beats ed i campioni accumulati dal nostro in maniera spesso rudimentale, vengono accorpati formalmente in un album, seguendo un concetto comune. Sono autentici viaggi che prendono forma attorno alla produzione più ‘casalinga’ del nostro, quasi un diversivo rispetto alle avventure ufficiali che lo hanno visto protagonista dietro al banco di regia per il gotha della musica urban afro-americana: Ghostface, De La Soul, Talib Kweli e più recentemente Erykah Badu.
I primi due volumi della serie – Movie Scenes – rappresentavano una colonna sonora mentale, come un film che si svolgesse unicamente nella testa di Madlib. Viaggio totale con tappe in Africa – il versante più psichedelico dell’afro beat – nell’America – appunto – cinematografica della Blaxpoitation , in Sudamerica – tropicalismi ed emanazioni lisergiche di quella tribù facente capo ai vari Caetano Veloso, Gilberto Gil ed Os Mutantes – e forse anche in Italia (certo oscuro rock progressivo). Per la seconda tappa ci spostiamo in India, e più precisamente nei pressi della grande industria cinematografica locale: Bollywood, anno di grazia 1975.
Con Beat Konducta Vol. 5-6: Dil Cosby & Dil Withers, l’attenzione si sposta ai giorni nostri. L’omaggio – evidente sin dal titolo – è al compianto compagno di scuderia J Dilla, arguto ricercatore di rime e battiti. E’ una riflessione sul suo innato talento. Prendetelo come un tributo di cuore all’opera dell’uomo, una trasposizione ideale, una lettera aperta alla comunità hip-hop internazionale. Del resto fu lo stesso Madlib ad incoronare J Dilla come King Of The Beats. Niente esotismi questa volta, la strada da battere è quella urbana, contemporanei impasti sonori come pellicole che sfilano sullo schermo della nostra quotidianità. Beats da qui all’eternità.

“One of hip-hop’s finest, most cerebral craftsmen” - Rolling Stone

12/01/09

Il Nuovo Video Di Jim Jones Revue


Uno dei più esaltanti progetti garage-blues dell'anno appena trascorso, con il vocalist e leader dei mai troppo esaltati Thee Hypnotics.

JIM JONES E’ UN CANE BASTARDO. UNO CHE HA SCOPATO CON GLI SPIRITI E RESPIRATO LA CONDENSA DENTRO I CELLOFAN DEI VINILI DI STOOGES, BLUE CHEER E SONICS. CON GLI HYPNOTICS PRIMA, CON I BLACK MOSES DOPO. E’ ORA LA VOLTA DELLA SUA BAND PIU’ ROCK’N’ROLL. ROCK’N’ROLL MARCIO PER LA PRECISIONE - RUMORE

ALBUM REALMENTE ESPLOSIVO, PER IL QUALE LE QUATTRO STELLE NON SEMBRINO UN’ESAGERAZIONE - MUCCHIO

L’IMPROVVISATO QUADRILATERO MC5, SONICS, JERRY LEE, ELVIS HA TROVATO IN QUESTO DISCO UNA SOSTANZIOSA AREA - FREQUENZE INDIPENDENTI

C’E’ POCO TEMPO PER RILASSARSI, MAGARI GIUSTO QUELLO PER GUSTARSI UN NUMERO HONKY TONK COME ANOTHER DAZE…PER IL RESTO AVRETE TRA LE MANI UN DISCO FORSE SOPRA LE RIGHE MA ACROBATICO ED ESPLOSIVO COME POCHI - BLOW UP

MESSA SU IN APPENA QUARANTOTTO FORSENNATE ORE DI STUDIO, LA 'RIVISTA' A SUO NOME E' UN AUTENTICO SPETTACOLO PIROTECNICO, TRENTA MINUTI DI R'N'R PRIMITIVO, CRUDO, INCANDESCENTE E INCONTENIBILE COME UNA COLATA LAVICA - ROCKERILLA

Leadfinger



Stewart "Leadfinger" Cunningham suona rock'n'roll da oltre vent'anni, nella terra dei canguri si inchina a questa passione primordiale già dal 1985, frequentando nel corso degli anni alcune delle stelle del firmamento underground australiano. Tutto questo implica un discreto numero di album nonchè una miriade di esibizioni dal vivo. Brother Brick, The Proton Energy Pills, Asteroid B-612, Yes Men e Challenger-7 sono solo alcuni dei nomi cui il nostro ha prestato la sua arte. Con la sigla di Leadfinger, Stewart affronta un nuovo capitolo nella sua esaltante carriera, giocando per certi versi la carta solista. Come nella tradizione di altri musicisti celebri della sua terra, Cunningham vanta origini scozzesi (essendo nato a Glasgow) proprio come alcuni membri degli AC/DC, degli Easybeats e dei Men at Work. Si trasferisce a Sydney alla tenera età di 3 anni, forse aveva intuito tutte le potenzialità della scena locale, la sua è la scelta di un devoto, per natura. Ispirato da leggende locali quali Radio Birdman e The Celibate Rifles - come dagli antesignani del Detroit sound Stooges, MC5 e Sonic's Rendezvous Band - Stewart scopre in seguito anche le canzoni finemente scritte da Bob Dylan e dagli eroi degli eighties Replacements. La sua musica mette dunque insieme il meglio della selvaggia eredità australe, svelando anche inedite soluzioni pop, un ibrido che conquisterà gli operatori del settore indipendente di mezzo mondo, siano essi europei od americani, riprova ne sia la folta discografia con uscite per Dog Meat, Au-Go-Go, White Jazz, Estrus e Bang!.
Con "Rich Kids" il nostro continua a rovistare negli annali del rock'n'roll, senza con questo risultare un bieco imitatore. L'energia è quella dei tempi migliori, il titolo del disco un tributo ai grandi rockers del passato. Se ai vostri musicisti rock preferiti chiedete canzoni oneste, scosse da quell'energia primordiale, non guardate oltre: per questo scorcio di stagione avete già un ottimo indizio. Ora che il garage e proto-punk hanno finalmente raccolto i favori della critica più snob, è tempo di tornare ad indossare le luride vesti dell'originario rock australiano.

07/01/09

Night Horse



A volte è imbarazzante pensare a quanto fosse compromessa l'industria del disco a cavallo tra gli anni '80 e i '90, con tutti quei rockers di dubbio gusto coperti di lustrini e paillettes. Per fortuna arrivò il fangoso suono del Northwest - ed in particolare di Seattle - a ristabilire le distanze, riportando in auge i suoni cupi dell'hard seventies, e più in generale una condotta sobria e concreta. Pensiamo all'opera di traghettatori fondamentali quali i Soundgarden o delle dichiarate influenze settanta di interpreti diversi della cosiddetta scena alternative e metal, quali Rollins Band - da un lato - e Pantera dall'altro. I Night Horse arrivano da Los Angeles, luogo da sempre ascritto ai vertici del rock and roll internazionale, ma qui non c'è traccia di glamour. I nostri suonano un possente hard-rock, con tracce di boogie e southern, finanche tonante psichedelia. Non parliamo certo di esordienti assoluti, la spina dorsale del gruppo è composta da membri degli spiritati Ancestors, delizioso combo drone-metal da molti additato come naturale depositario del verbo-Sleep. La voce calda è quella di Sam James Velde, originariamente coi Bluebird, gruppo culto californiano con uscite per Dim Mak, tra l'altro apprezzatissimo da Dave Grohl dei Foo Fighters. La loro musica omaggia con decisione e grande personalità mostri sacri quali John Lee Hooker, Taste, primi Deep Purple, i Fleetwood Mac del periodo Peter Green e gli Allman Brothers, senza in questo mai risultare banalmente retrò. Semmai la portentosa miscela dei Night Horse può per intenti avvicinarsi a luminari contemporanei quali Harvey Milk, Down e Priestess. Il ricongiungimento ideale con il sound ancestrale dei settanta, in una dimensione più moderna e colorata. Di per sè un classico.

"If Sonic Youth had been immersed in an ocean of Allman Brothers inspiration, or Soundgarden had been steeped in late 60s Fleetwood Mac, then they might have turned out something like this. Night Horse take traditional blues-rock, spark it up with riotously noisy flashes and drag the rhythms through an early-90s grunge experience. Moreover, they're cohesive, charismatic and compelling." (Malcolm Dome, Classic Rock Magazine)

05/01/09

Fauna

Contrariamente allo spirito guerrafondaio e satanista di buona parte dei gruppi del circondario nord europeo, il nuovo black metal americano si impone per altre credenziali, lasciando da parte alcune pantomime adolescenziali ed abbracciando i culti pagani. Conservando in ciò un'attitudine decisamente punk, quasi filo-crassiana (la vita nelle comuni, il rifiuto degli organigrammi sociali). I Fauna che giungono dalla prolifica aria del Northwest che affaccia sull'oceano pacifico, intendono continuare questa giovane tradizione, avvicinandosi concretamente al suono ed all'immaginario di colleghi contemporanei quali Wolves In The Throne Room e Blood Of The Black Owl. Nel dettaglio i Fauna sono un duo piuttosto egocentrico, che al debutto sulla lunga distanza - dopo la classica sequela di cd-r con i quali si sono imposti nei circuiti più underground - intende mettere subito le cose in chiaro, con una marziale suite di oltre sessanta minuti. Il titolo è "Rain", proprio perchè si vanno a scomodare gli elementi primordiali. Il sublime rumore della pioggia che anima la foresta inaugura questa lunga ed ancestrale maratona, un sfondo ambientale sul quale si innestano voci in sottofondo ed atmosfere acustiche. Il tutto è preludio ad una sfuriata in puro stile black metal, in cui i Fauna vengono fuori alla distanza con piglio e personalità, facendosi per nulla tentare dai luoghi comuni del genere. Le classiche velocità mozzafiato come i tipici growls sono loro patrimonio genetico, ma l'aria di questa epica composizione implica anche influenze esterne ed astruse, che possono avere a che fare tanto con il folk apocalittico quanto con l'hardcore meno intransigente. L'urlo sciamanico dei Fauna sarà la vostra via di fuga da questi nuovi tempi corrotti.