29/08/12

L'apocalisse secondo Michael Gira




‘The Seer’ è un mastodonte che buca il traguardo delle 2 ore. La nuova fatica in studio degli Swans di Michael Gira – sulla personale Young God - è un sogno nel cassetto, o meglio un’ossessione che ha accompagnato il nostro in 30 anni di onorata carriera. Con questo disco uno dei principali agitatori della New York degli anni ’80 tocca la sua vetta artistica, accomodandosi al fianco di leggende del nostro tempo come Nick Cave (un sostenitore sfegatato) ed Einsturzende Neubauten (non a caso il disco è stato registrato a Berlino, tra lo Studio P4 e la vecchia sala d’incisone degli stessi EN Andere Baustelle). Dopo una decade di assenza ed un funerale celebrato alla grande con il doppio live ‘Swans Are Dead’, Gira rispolvera il nome, facendo in modo che la puzza stantia di reunion sia a debita distanza. Quelli che sono i nuovi Swans non possono certo prescindere dalla recente esperienza – dai tratti decisamente acustici – di Angels of Light.

Affrontando nel dettaglio i punti salienti del doppio album (triplo per che si aggiudicherà la versione in vinile) è opportuno mettere dei paletti. Si parte con ‘Lunacy’, un anthem dai toni solenni, in cui le voci dei due Low Alan Sparhawk e Mimi Parker affiancano minacciosamente quella del leader. Per ascoltare la band nel pieno della sua forza motrice bisogna passare alla successiva ‘Mother of the World’, una furia matematica ispirata alle visioni del re cremisi e del suo vate Robert Fripp. Gli incroci percussivi dell’ex-Cop Shoot Cop Phil Puleo e di Thor Harris (Lisa Germano, Shearwater), preparano il terreno ad una delle più intense rappresentazioni sotto il profilo strumentale del gruppo.

I 32 minuti della traccia che titola il disco sono l’epitome dello Swans pensiero. Un’ascesa cacofonica testata nelle lunghe maratone dal vivo e portata a termine in studio con la benedizione dei ‘padrini’ tedeschi Amon Duul II. Un’esperienza biblica che proietta il mesto narratore Gira verso lidi infiniti. Perché la cultura dell’apocalisse, come la feroce critica sociale che mai ha abbandonato le sue liriche, continuano a foraggiare questa debordante cerimonia.

Cantata principalmente da Karen O degli Yeah Yeah Yeahs, ‘Song for the Warrior’ assomiglia ad una lettera al fronte, destinata a quel soldato che combatte oltre i confini del campo di battaglia. E’ come se attraverso immagini mistiche o situazioni surreali Gira cercasse di esorcizzare i suoi stessi fantasmi. C’è anche una voce che torna, quella di Jarboe, campionata letteralmente nella lunga ‘A Piece of the Sky’. Tra le tante esperienze catartiche di un disco che assomiglia sempre più a un capolavoro c’è anche la chiosa di ‘The Apostate’, che ci riporta a quegli Swans proto-industrial, che definitivamente segnarono la desolata New York degli ’80. Non un ritorno in senso stretto, ‘The Seer’ è semmai la definitiva rivalsa degli Swans su tutto ciò che ancora oggi ci ostiniamo a definire noise-rock.


Il Chris Robinson Brotherhood concede il bis!




Le porte della percezione di Aldous Huxley si sono spalancate alla vista del Chris Robinson Brotherhood, che in questa sua seconda sortita discografica – a breve distanza dall’acclamato ‘Big Moon Ritual’ – decide di varcare ancora una volta i confini spazio-temporali, con tutta la nonchalance dei capi classe. E’ stato un 2012 ricco di rivelazioni  per Robisnon e soci, dopo l’accantonamento a tempo indeterminato dei Black Crowes.
Occasione più unica che rara per dedicarsi all’esplorazione del proprio ego musicale. L’elemento più sorprendente risiede nella versatilità delle composizioni, distanti dalla nomenclatura southern-rock che ha pur sempre definito lo spettro sonoro dei corvi neri.

Chris Robinson è da sempre un grande appassionato di musica e la vena lisergica di questo nuovo progetto, pur se incrociata ad elementi roots, rispetta in pieno la sua visione emancipata rispetto al music business. Non bisogna infatti trascurare l’elemento cardine che sorregge la nuova produzione, la Silver Arrow è infatti un’emanazione della stessa Robinson family. E’ forse più disteso il clima di ‘Magic Door’ che mette in fila sette brani, di cui sei originali —“Someday Past The Sunset,” “Vibration & Light Suite,” “Appaloosa,” “Little Lizzie Mae,” “Sorrows Of A Blue Eyed Liar” e “Wheel Don't Roll” — ed una cover di “Let’s Go, Let’s Go, Let’s Go” a firma Hank Ballard.

Chris Robinson (voce, chitarra), Neal Casal (chitarra, voce), Adam MacDougall (tastiere, voce), George Sluppick (batteria) e Mark Dutton (basso, voce) ricreano un clima eccitante per tutta la durata del disco, rispondendo in primis al proprio istinto creativo. Si respira un aria di totale indipendenza artistica, nella consapevolezza di poter accogliere dal vivo una creatura concepita pe illuminare i migliori festival live.



28/08/12

Stan Ridgway - Mr. Trouble




Il dono della scrittura è cosa rara, trovare un performer illuminato come l’ex Wall Of Voodoo Stan Ridgway un’impresa addirittura secolare. Dopo il ritorno comunque soddisfacente con ‘Neon Mirage’, Stan decide di dare una sterzata virtuosa con ‘Mr. Trouble’(ancora fuori per la personale A440 Records), un disco davvero brillante, non fosse altro per il numero considerevole di collaboratori e per quel taglio a mezza via tra jazz da balera e vaudeville. Accompagnato dalla fida compagna Pietra Wexstun (piano, farfisa e melodica), Stan è ancora l‘uomo della frontiera, il poeta di periferia abile nel prenderci per mano. Un brano come  ‘Across the Border’ suona senza esagerazione come la cosa più carina ed al contempo triste mai concepita dal nostro. Una di quelle melodie ancestrali, colorata da suoni vagamente tropicali, sempre a ribadire un elegante idea di meticciato. Ed anche la voce di Stan non è mai apparsa così limpida, come nella title-track ad esempio, che senza troppi giri di parole suona come un outtake del periodo d’oro di Dr. John!

Storie di fantasmi, accalcati sul fondo di qualche battello alla deriva. La pedal steel di Tommy Arizona che si fa prepotentemente largo nella title track è una figura tanto imponente da lasciar poco spazio ad ulteriori commenti. Sei brani originali e 4 pezzi incisi dal vivo con la Mountain Stage Band – ‘Afghan Forklift’, ‘Turn A Blind Eye’, ‘Stranded’ e l’evergreen ‘Camouflage’ -   in West Virginia nel novembre del 2010. Un programma da leccarsi i baffi, non fosse altro per il clamoroso interplay tra il sax di Ralph Carney (fondatore dei Tin Huey e per lungo tempo collaboratore di Tom Waits) ed il violino di Lazlo Vickers (dei californiani Hecate’s Angels, noti per il loro approccio da cabaret futurista), che rendono impeccabile l’allestimento di ‘Mr. Trouble’ anche dietro le quinte. Non resta che dare l’ennesimo benvenuto a questo poeta del nostro tempo. 



27/08/12

Josephine Foster - Blood Rushing



Registrato in Colorado da Andrija Tokic (Alabama Shakes) con la collaborazione del partner Victor Herrero e di musicisti navigati come Paz Lenchantin (The Entrance Band, A Perfect Circle, Zwan), Heather Trost (A Hawk and a Hacksaw) e Ben Trimble (Fly Golden Eagle), Blood Rushing è il nuovo album della Foster per Fire Records.

Un disco dal tenore radicalmente diverso rispetto alle recenti uscite da studio, informate da un viscerale amore per la musica e la letteratura spagnola. In questo disco Josephine si ri-appropria per certi versi delle sue radici, muovendosi tra americana e folk elettrico e dispensando gioiose perle cantautorali, rese ancor più imperdibili dagli interventi dei cospiratori di turno. Trapiantata da anni a Cadiz, comunità autonoma dell’Andalusia, dove vive con il marito Herrero, la nostra ha ritrovato terreno fertile per le sue scorribande acustiche. La sua musica ha il valore degli scritti tramandati a voce di generazione in generazione, per la Foster è fondamentale la ricerca di melodie popolari che per quanto anonime possano conservare quegli elementi magici tali da renderle eterne. Gioielli in altre parole, che possano splendere di nuovo alla luce del sole. Una cantante d’opera sfuggita alle oppressive regole accademiche, la Foster ha presto trovato nel folk il luogo in cui trasferire il suo sapere, sposando anche un’esistenza ‘migrante’ a cavalle tra Europa ed America.

Per quanto agli esordi paragoni ingombranti con Patti Smith e Grace Slick abbiano condizionato i giudizi sulle sue interpretazioni, la nostra ha saputo mettere a frutto le esperienze in ambiti estranei al rock per fornire sempre e comunque una versione eterodossa della musica popolare. Blood Rushing è un disco che ripercorre i sentieri polverosi della Carter Family, del Dylan altezza Highway ’61 Revisited, rivelando anche interessanti parentesi acide. Un disco che in qualche misura rivede i punti salienti della recente ondata weird folk, riaccendendo vecchie emozioni ed omaggiando in tutto e per tutto la 'country life'.   


08/08/12

Rivelato l'alter ego di Caribou: Daphni!



Mentre Caribou girava il mondo in lungo e in largo per buona parte del 2012 come gruppo d’apertura dei Radiohead, Dan Snaith – il depositario della sigla, un tempo meglio noto come Manitoba – si è ancor più innamorato del dancefloor e delle sue pratiche, ponendo gli ultimi ritocchi a quello che è il suo scoppiettante progetto collaterale: Daphni. Il risultato di questa immersione anima e corpo ha un titolo: JIAOLONG (pronuncia Jow-long) e sarà pubblicato dal marchio con lo stesso nome in Europa e da Merge in America ad inizio ottobre.  Parallelamente alla forsennata scaletta che un tour mondiale impone, Dan si è proposto all’occorrenza come dj, toccando i club più esclusivi delle città visitate. Ha fatto letteralmente le ore piccole per guadagnare quel piccole angolo accanto alla consolle, ma la sua è stata in realtà un’esperienza esplorativa. “Nel periodo in cui stavo lavorando al disco Swim, sono tornato a frequentare i club, rimanendo folgorato di fonte alla figura del dj di turno, capace di impressionarti con numeri inediti, quel tipo di brani di cui ignoravi l’esistenza fino a pochi attimi prima”.

E’ una spinta a rivedere i suoi metodi di lavoro, allontanando il rigore compositivo e musicale che ha caratterizzato il lavoro a firma Caribou. Dan Snaith nei panni di Daphni raggiunge nuove vette umorali, puntando ad una più fluida energia e ad una gratificazione istantanea. “Le tracce di Daphni sono ruvide e spontanee” ci tiene a precisare. “Si basano su un lavoro veloce ed intuitivo, catturando quel tipo di spinta che ti consente di scrivere una traccia nel pomeriggio e riproporla la sera stessa nel club di turno”. C’è tanto soul in questa musica, che vuole riattualizzare i momenti clou della scuola di Detroit e Chicago, guardando con un’ottica interessata ai percorsi di grandi manipolatori contemporanei come Akufen o Farben.

Dopo uno split 12” con lo spirito affine Four Tet, una manciata di remix per Hot Chip ed Emeralds, Daphni debutta sulla lunga distanza regalandoci momenti di assoluta gioia come nell’ afro-centrica Cos-Ber-Zam - Ne Noya o nelle atmosfere baleariche di Pairs, future-disco di grandissima fascinazione. Uno dei dischi chiave per la club culture del 2012. Magia in polvere di stelle.



07/08/12

I fratelli McDonald più esplosivi che mai




Tornano i fratelli Jeff e Steven McDonald, fondatori 34 anni fa di una delle più longeve formazioni del rock californiano, capace di attraversare la primigenia stagione punk, affondare i denti nel power pop ed anticipare di gran lunga le sonorità del rock alternativo made in Northwest.  Avevano rispettivamente 15 ed 11 anni, quando aprirono un live dei Black Flag ad una tipica festa da high school. Selezionati dopo il loro debutto dal celebre dj losangeleno Rodney Bingenheimer, i loro brani “Annette's Got The Hits” e "I Hate My School" fecero breccia tra i numerosi ascoltatori dell’influente stazione radiofonica KROQ. Pur rispettando il ruvido sound egli esordi, il gruppo si aprì progressivamente a sonorità più ricercate, lasciando trasparire un naturale portamento per  melodie a pronta presa.

Disegnati spesso come un ibrido tra la Partridge e la Manson Family; i Beatles ed i Black Sabbath; The Osmonds e New York Dolls, i fratelli McDonald hanno sempre accentuato questa promiscuità stilistica, consegnando alla storia piccole pietre miliari come “Teen Babes from Monsanto”, “Born Innocent” e “Neurotica” Lo stesso Thurston Moore nel 1990 si fece scappare un commento del genere, all’indomani della pubblicazione di “Third Eye”: Redd Kross are definitely one of the most important bands in America”. La sua ex-compagna Kim Gordon, Mike Watt e Gene Simmons dei Kiss sono – tanto per gradire – altri loro grandissimi supporter.

Inattivi con questa sigla dal 1997, i nostri non si sono certo persi d’animo, inanellando una serie di collaborazioni a livello individuale con Sparks, Tenacious D, Beck Donnas, Turbonegro, Imperial Teen, Anna Waronker e Be Your Own Pet. In particolare Steven si è visto dimenarsi sui palchi di mezzo mondo con gli Off!, creatura fortemente voluta dall’ex-Black Flag e Circle Jerks Keith Morris. Un cerchio che si chiude, se pensate che proprio il chitarrista dei Circle Jerks - Greg Hetson - faceva parte della primissima incarnazione della band (quella che realizzò Born Innocent per Frontier nel 1982). Dopo aver lanciato il sito www.ReddKross.com il gruppo torna a connettersi con la base dei propri fan, anticipando un clamoroso ritorno in scena.

Nel 2006 Jeff e Steven annunciano la reunion con la classica formazione del disco Neurotica, ricongiungendosi così al chitarrista Robert Hecker (IT’S OK) ed al batterista Roy McDonald (the Muffs). “Researching the Blues” è l’album da tempo anticipato. Pubblicato in contemporanea in Europa (da Sweet Nothing) ed America (Merge), il disco è un’esplosione di motivetti appiccicosi, un’irresistibile tirata in 10 brani, potenziali hit single per ogni college radio che si rispetti. Il pop torna a graffiare!


Nuovo solo album per il leader dei Posies




Ken Stringfellow è una delle figure più rispettate di tutto il circuito indie americano, autentica personalità di spicco dell’area Northwest, dove ha messo le fondamenta per una delle più importanti realtà contemporanee: i Posies. Musicista, autore, produttore ed arrangiatore, Ken è passato ripetutamente dal banco di regia ai palchi di mezzo mondo. Al culmine dell’esplosione del cosiddetto Seattle sound, i Posies licenziano il loro album più famoso, quel "Frosting on the Beater" che nel 1993 sarà un vero e proprio caso discografico. Il gruppo è ancora in attività, avendo pubblicato il suo settimo disco da studio - "Blood/Candy" – nel 2010.

Ken ha recitato anche un ruolo di primo piano all’interno dei ricostituiti Big Star, tra il 1993 ed il  2010, fino alla prematura scomparsa di Alex Chilton. Oltre a suonare il basso, cantava; ebbe un ruolo non indifferente nella creazione del disco del 2005 "In Space", ritorno ufficiale dopo il leggendario "Third/Sister Lovers" del 1978. Di rilievo anche il suo coinvolgimento con i R.E.M., 10 anni tra studio ("Reveal" del 2001 e "Around the Sun" del 2004)  e live.

Certo non si arrestano qui le sue collaborazioni, tanto che Ken se l’è spassata con la punk band  Lagwagon per un breve periodo di tempo, ha prodotto l’ottimo cantautore Damien Jurado ed ha fatto il turnista con Snow Patrol (suona le tastiere nel seminale "Eyes Open"), Neil Young, Patti Smith, Mudhoney e Death Cab For Cutie. Non proprio una persona cui piace sedersi e godere del proprio tempo libero… Ken licenzia il suo quarto album solista – l’ironico "Danzig in the Moonlight" – in ottobre per Lojinx. Il disco è stato registrato presso il leggendario ICP Studios di Brussels e mixato dall’emergente  team di produttori TheLAB a Los Angeles. Ken per l’occasione si è avvalso anche di contributi a distanza da parte di musicisti con base in Mumbai, Italia e Seattle. Charity Rose Thielen dei The Head & The Heart lo raggiunge in "Doesn't It Remind You of Something", che suona come un duetto d’antan tra Lee Hazlewood e Nancy Sinatra.

L’album è un deliberato assaggio della statura del nostro, folgorante power pop incrociato a numeri elettro-wave, un po’ di quella sporcizia sixties garage e qualche ballata che lascia un segno indelebile nella memoria. Disco completissimo a riprova di un artista capace di sublimare l’immaginario rock degli ultimi 30 anni.
"An artist worthy of respect and a listen from any true fan of classic pop... uniformly flawless" (Pitchfork)

"Stringfellow is one of the most underrated songwriters of our generation" (Billboard)


"Stringfellow's clear, composed croon forgives all sins" (Rolling Stone)


"Lush pop perfection"(Mojo)






Fire Records e l'Oceania



La sensibilità di Fire Records è andata sempre ben oltre gli steccati del rock occidentale e se c’è un continente per cui i responsabili dell’etichetta hanno sempre avuto un debole, quello è l’Oceania. Il trittico di nuove uscite è esemplare in questo senso. Si parte con i leggendari neozelandesi  Bailterspace, vero e proprio fiore all’occhiello della scena indipendente locale e già protagonisti negli anni ’90 nella scuderia Matador. 'Strobosphere’ è la loro prima incisione da 13 anni a questa parte e non fa altro che ribadirne lo status di cult band, spesso richiamato dalla bibbia indie on line Pitchfork.

Al pari dei My Bloody Valentine i Bailterspace hanno sempre incantato per il loro approccio rumoroso e melodico allo stesso tempo, le loro performance dal vivo ricordate negli annali come un qualcosa di necessario e doloroso. Già operativo con The Gordons, Alister Parker forma i Nelsh Bailter Space con il batterista dei Clean Hamish Kilgour nel 1987. Dopo aver abbreviato il nome in Bailterspace, il gruppo decolla definitivamente con l’inserimento degli altri ex The Gordons.Etichettati ben presto dal Melody Maker come i Sonic Youth dell’emisfero sud, i nostri arrivano oltreoceano agli albori dei 90 – la nuova dimora è New York - ponendo le basi per una progressiva conquista globale. Il nuovo album ce li riconsegna in forma invidiabile, accelerando semmai l’ossessione per le chitarre in saturazione e quelle melodie capaci di insinuarsi sottopelle.


Ned Collette and Wirewalker pubblicano il loro secondo album appoggiandosi alla stessa label britannica. Collette nasce a Melbourne, ma si trasferisce due anni fa a Berlino. Nel vecchio continente trova immediatamente spiriti affini con cui dividere il palco, le sue esibizioni al fianco di Joanna Newsom, Akron/Family, Bill Callahan e Nina Nastasia introducono la sua penna gentile ed originale. E’ un cantautorato vellutato quello del nostro, che si arricchisce però di soluzioni a sorpresa, forte anche di frequentazioni in ambiti più espressamente sperimentali.

L’esplicito titolo "2" introduce così canzoni pop dal piglio ricercato, con elementi folk, cinematici e addirittura di musica concreta. Benchè siano stati fatti paragoni con personalità ingombranti come Leonard Cohen e Ghostface Killah, Collette impone il suo stile, anche attraverso strade non propriamente in discesa. Le sue canzoni affrontano temi come la morte ed il declino, memorie di luoghi abbandonate, situazioni spesso narrativamente morbose. Nel disco anche un tributo strumentale al compianto scrittore cileno Roberto Bolaño, semplicemente titolato "For Roberto". La chitarra spagnola è lo strumento principe per Ned, al suo fianco si avvicendano numerose vocalist, tra cui: Gemma Ray (UK), le australiane Laura Jean and Biddy Connor, Mirjam Smejkal (Germania) e  Sascha Gersak (Germania).




Chiudiamo questo felice trittico con il debutto di Opossom, progetto del neozelandese Kody Nielson, già protagonista in patria con il tribolato combo art punk  The Mint Chicks. ‘Electric Hawaii’ è sin dal titolo un affare esotico. Questa nuova direzione punta in maniera decisa verso una rivoluzione stilistica. Svanisce per molti versi la forma canzone, le strutture sono più flessibili e a guadagnarci è un eclettismo di fondo che è un po’ la summa del percorso di Nielson. La psichedelia è più una forma mentis che un genere codificato, mentre il surf, l’elettronica ed il jazz sono costanti rintracciabili nell’arco di tutta l’opera. Presto sui palchi di mezza Europa.

Patrick Wolf re-interpreta i suoi piccoli capolavori




Sundark and Riverlight (per etichetta Bloody Chamber Music) è il giubileo di Patrick Wolf, molto più di una retrospettiva: l’unicità di una collezione di brani che consenta al polistrumentista inglese di riavvolgere letteralmente il nastro. Una carriera costellata da importanti successi personali e da una progressiva scalata verso le cosiddette posizioni di merito. Un doppio cd che non vuole essere un’antologia di comodo, bensì un  luogo da cui ripartire. I 16 brani – 8 per cd – che compongono il doppio album sono stati selezionati tra i più rappresentativi del nostro. Ri-arrangiati e registrati in veste rigorosamente acustica presso i prestigiosi studi della Real World di  Peter Gabriel, i pezzi rinascono a nuova vita, rivelando l’anima più classica dell’arrangiatore, la sua propensione ad un minimalismo che mai ignora una discendenza accademica, pur rispettando un formato pop. Sempre tese le sue interpretazioni, partiture a cuore aperto che affondano nei lavori da studio ormai consacrati, come Lycanthropy, Wind In the Wires, The Magic Position, The Bachelor, Lupercalia ed il più recente Brumalia.

La voce di Patrick sugli scudi, il gran piano, l’arpa, il dulcimer, l’ukelele e la viola gli altri strumenti utilizzati per raggiungere una virtuale estasi sonora. Numerosi gli ospiti: un quartetto di fiati ed uno di archi, un contrabbasso, una bodhrum drum, una sega musicale ed una chitarra. Il disco verrà riproposto dal vivo da Patrick in un serie di appuntamenti selezionati in tutto il vecchio continente.

Si esibirà in Italia in queste 3 date:


Mercoledì 24 Ottobre - Roma – Teatro Ambra Jovinelli
Giovedì 25 Ottobre - Ravenna – Teatro Almagià
Venerdì 26 Ottobre - Mestre (VE) – Teatro Corso



Bright bright bright




Who Needs Who, il nuovo album dei Dark Dark Dark, si poggia su una sequenza di brani ricchi, capaci di alzare l’asticella delle emozioni grazie ad un lavoro strutturale che ha del mirabolante. Il quintetto ha avuto modo di consolidarsi grazie ad un’intensa attività live, che ha portato a compimento un ricerca da studio tale da farne nuovi alfieri dell’avant-pop.  Sin dal primo singolo, Tell Me, il ritmo si accende, con basso e batteria a sostenere la passionale performance di Nona Marie Invie, volto e voce di questa band.

Buona parte del materiale è stato scritto dalla stessa Invie in quel di Minneapolis, arrangiato in seguito dalla band durante il successivo tour ed in una location speciale a New Orleans, dove l’acclamato ingegnere del suono Tom Herbers li ha raggiunti per mettere a punto gli ultimi dettagli. Emozioni forti – si parla anche di relazioni interpersonali tra membri della band giunte al termine – riportate in maniera razionale in musica, un passato scuro che viene esorcizzato attraverso l’esperienza collettiva. E’ un lavoro che rivede quanto di buono fatto dalla formazione coi due precedenti album da studio in sostanza.

Il gruppo – destinato ad un imminente tour europeo che culminerà con la partecipazione all’ATP organizzato da The National – si è già fatto notare per una serie di apparizioni come spalla ai Low, gruppo con il quale condivide la stessa passione per lo slo-core. C’è più di un rimando alle sensazionali tracce umorali di Mazzy Star, Red House Painters ed Idaho in questo album, dove la Invie sembra inserirsi sul solco di quotate prime donne come Kate Bush e Fiona Apple. La prospettiva pop dei Dark Dark Dark è ammaliante e convincente.


06/08/12

Janka Nabay's Bubu Music




Il cantante della Sierra Leone Janka Nabay esclama: "Il mio unico interesse è quello di riscrivere la storia," uno di quegli obiettivi modesti sulla carta, per un’artista capace di lasciare il segno in patria. Approdato in America, dopo esser fuggito alla guerra civile, inizia a lavorare per una catena di friggitorie, pur continuando a plasmare le proprie canzoni. Ci vuole una band per supportare un autore così esplosivo, qualcuno che abbia la capacità di interpretare i ritmi dell’africa occidentale, sfoggiando una conoscenza musicale globale. Brooklyn è il luogo ideale in cui stringere alleanze, è qui che Nabay s’imbatte nella  Bubu Gang, un’accolita di indie-rockers ora rapita dalla musica sperimentale e world. Con membri di Skeletons e Chairlift a bordo, il debutto ‘occidentale’ è presto ultimato. En Yay Sah ("I'm Scared") è una delle uscite prioritarie di questo 2012 per Luaka Bop.

La musica "bubu" può suonare addirittura futuribile alle orecchie del pubblico occidentale, ma la sua è una tradizione centenaria. C’è tanta mitologia dietro a questa forma espressiva. Oltre 500 anni or sono un giovane "bubu boy" strappò la formula ad una strega pur di renderla pubblica, sacrificando la sua stessa vita nel processo. Quando l’ Islam raggiunse la Sierra Leone, bubu diviene una parte fondamentale delle processioni indigene durante il Ramadan; questa è la musica che Nabay impara  e perfeziona sin dalla più tenera età. Come numerosi musicisti locali Nabay si confronta in primis con la musica del cuore, in altre parole il reggae. Ad un contest locale il nostro sorprende però la giuria esibendosi in un originale forma di bubu music, dando praticamente il là alla sua scalata.

Spinto dalla stessa giuria realizza il suo primo lavoro presso i Forensic Recording Studios di Freetown (la capitale di Sierra Leone). Si diceva ispirato da Michael Jackson, Bob Marley e Dio, ma tra i solchi del disco si distinguono i tratti di una musica dance ipnotica, grazie all’apporti di strumenti inusuali. La lingua utilizzata è il locale Krio, incrociato con il tribale Temne, l’inglese e l’arabico. Durante gli anni della guerra Nabay si avvale della sua musica come veicolo sociale. I ribelli – a loro volta - utilizzano la sue cassette come urlo di guerra, al momento di invadere i villaggi e scovare i civili dai loro nascondigli. Arrivato negli States, il nostro trova sostegno tra i numerosi rifugiati della comunità leonina, ma questo non lo aiuta certo a vendere i suoi cd-r. La scelta per sostenersi è drastica e Nabay si ritrova a lavorar per un fast-food. L’incontro col produttore radiofonico Wills Glasspiegel – che lo aveva notato nel Bronx – porterà alla prima pubblicazione su territorio americano: Bubu King EP.

I due iniziano a recarsi con insistenza presso uno dei locali più hip del sottobosco newyorkese, lo Zebulon, alla ricerca di una vera e propria band che potesse accompagnarlo stabilmente. Durante una delle sue performance in stile karaoke, Nabay s’imbatte nel vocalist e bassista di origine siriana Boshra AlSaadi, il primo ad essere convocato nella nascitura formazione. Tony Lowe (Skeletons, Zs) responsabile per la serie di eventi a nome Cool Places presso lo stesso Zebulon, suggerisce alcuni accorgimenti ai due cantanti, occupandosi in primis delle parti chitarristiche. Per liberarsi definitivamente del fastidioso effetto karaoke e dello stantio uso di una drum machine, viene reclutato Jon Leland (Skeletons). Il suo approccio allo strumento è tale da ricordare il lavoro di 3 percussionisti in contemporanea.

A completare il gruppo provvedono Jason McMahon al basso (Skeletons, Chairlift) ed il tastierista Michael Gallope (Skeletons, Starring), il cui stile replica le linee melodie del flauto bamboo. Doug Shaw è l’ultimo pezzo del puzzle e subentra alla chitarra. Già devoto del musicista S.E. Rogie, un’icona per lo stesso  Nabay -  va a completare il puzzle. Tony Lowe abbandona la formazione per dedicarsi alla regia, ma il gruppo ormai si solidifica attorno a questa line-up, partorendo il monicker  Bubu Gang. Il prodotto di questa succulenta collaborazione è testato nei migliori dance e rock club della grande mela. I risultati sono formidabili, del resto l’attitudine del gruppo non sembra prescindere dalle vibrazioni di certo rock psichedelico e tribale, sposando sovente anche l’elettronica dal volto più umano. La musica  bubu è del resto frutto di un’idea collettiva, e quella tradizione centenaria non può che rinnovarsi in questo cruciale clash culturale. La solidità del gruppo è provata e la pubblicazione di En Yay Sah sarà davvero una rivelazione per chi tanto investe nelle produzioni in bilico tra etnica e alternative-indie.



Una raccolta attesa 10 anni: Tim Maia per Luaka Bop



Nei primi anni ’70 la musica popolare brasiliana stava conoscendo il suo più alto picco creativo. Artisti come Elis Regina, Chico Buarque e Milton Nascimento scrivevano il loro capolavori pop, mentre il gruppo dei tropicalisti - Caetano Veloso, Gilberto Gil ed Os Mutantes – procacciavano un’alta forma di intrattenimento sulla stregua di una sensibilità più avant e di chitarre fuzz. Tim Maia è stata una figura altrettanto prestigiosa della scuola sudamericana, forse meno esposta ai favori dei media, ma altrettanto nobile nella sua ricerca stilistica. Praticamente l’epitome di una rockstar, un’immagine fortemente riconoscibile – quella splendida pettinatura afro – ed un’esistenza che definire agitata è un puro eufemismo. Cinque matrimoni, diverse sentenze di incarcerazione, discreta tendenza all’uso di sostanze stupefacenti e l’associazione con uno di quei folli culti religiosi a sfondo fantascientifico. Grasso, arrogante, auto indulgente, tollerato a stento, una sorta di eterno bambino venuto a mancare troppo presto, a soli 55 anni

Sebastiño Rodrigues Maia nasce a Tijuca, Rio de Janeiro, il 28 settembre del 1942. Nel 1957, all’età di 17 anni, il cantante va in America. In tasca ha appena 12 dollari ed una conoscenza della lingua inglese prossima allo zero. Adotta il nome di 'Jimmy' e mente all’autorità preposte ai controlli sull’immigrazione, spacciandosi per studente...Vive in un primo momento con alcuni cugini alla lontana che hanno residenza a Tarrytown, New York; lavora occasionalmente e si dedica ai primi furtarelli. Grazie al suo orecchio prodigioso impara ben presto a parlare, cantare e scrivere in inglese. Dà vita ad un piccolo gruppo vocale a nome The Ideals, la sua intenzione è quella di costruirsi una solida carriera in America, evitando di tornare nel paese d’origine. Ma il destino gioca spesso brutti scherzi e Tim ha l’innata capacità di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato. Nel 1964 viene pizzicato a Daytona, Florida mentre fuma dell’erba all’interno di una macchina rubata. Si becca sei mesi di prigione e l’ufficio immigrazione non ci pensa su due volte a deportarlo.

La sua musica contribuisce a fondare il movimento Black Rio, una nuova cultura musicale Afro-Brasiliana fortemente influenzata dalle battaglie per i diritti civili dei neri d’America. Gli album del nostro – tutti omonimi aldilà di un numero cronologico che campeggia sulla copertina – contengono almeno un brano in inglese, a dimostrazione dell’intramontabile sogno di divenire una stella internazionale. Nel 1971 – sulla scia del successo del primo album – vola a Londra, perdendosi nei fumi di alcol e droghe, acquista infine 200 dosi di acido lisergico da distribuire tra gli amici più cari. Appena tornato in Brasile si dirige agli uffici della Philips, punta il responsabile del quartier generale e con tono pacato annuncia: "questo è  LSD, ti aiuterà ad aprire la mente, migliorerà la tua esistenza e ti renderà una persona migliore e più felice. E’ molto semplice: non ci sono effetti collaterali. Non provoca dipendenza e ti può far solo del bene. Si assume in questa maniera. . . "  Lo posiziona all’interno della sua bocca, glielo fa ingoiare e ne abbandona un altro sopra la scrivania. Considerata la sua posizione di artista di punta, all’interno della compagnia tutti pensano ad uno scherzo ben congegnato.

Nel 1974 si converte ad una setta religiosa, il culto della Racional Engergy. Gli umani sarebbero esseri di un distante pianeta esiliati sul pianeta terra, destinati a purificarsi attraverso la sofferenza e destinati ad elevarsi grazie alla lettura di un singolo libro, per poi essere raccolti da un disco volante e riportati al proprio pianeta d’appartenenza. Al momento dell’illuminazione stava per completare il suo quinto album, realizzato con la Vitória Régia Band, la formazione che l’avrebbe in pratica accompagnato sino alla fine dei suoi giorni. D’ora in avanti i brani da lui registrati saranno ispirati al Superior Rational da un altro pianeta. Un funk devozionale è quello che occuperà dischi come Tim Maia Racional I (1974) e II (1975). La Philips si mostra poco interessata alla cosa e Tim Maia, da buon pioniere, fonda la prima etichetta indipendente brasiliana a nome Seroma. Nel novembre del 1997 – quattro mesi prima della sua morte - si esibisce in uno spettacolo nel lounge di un hotel a Miami, sotto gli occhi di 50 brasiliani scatenati. Filma poi un viaggio assai poetico da Miami a New York, ricordando i luoghi chiave visitati quasi 40 anni prima. E’ in pratica l’ultimo capitolo di un storia incredibile, che Luaka Bop ci aiuta a conoscere grazie a questa estensiva raccolta. Uno dei ripescaggi dell’anno, va da sé.