24/05/11

Diva "The Glitter End"



The Wire ha già dedicato un ampio speciale alla scena underground di Los Angeles, puntando il dito su Not Not Fun, nuovo laboratorio dispensatore di idee e suoni. Diva Dompe è una figura centrale in questa scena che si estende in maniera capillare all’ombra delle colline di Hollywood. Acconciata come una starlette glamour versione dopo-bomba, non fa nulla per nascondere il suo eclettismo, a partire dall’immagine e dal titolo del disco che si chiama – non a caso – "The Glitter End". Fondatrice del trio mascherato BlackBlack assieme alla sorella Lola e soprattutto bassista nelle prematuramente sciolte Pocahaunted (la band di Amanda Brown, co-proprietaria del marchio Not Not Fun ora meglio nota come L.A. Vampires, e Bethany Cosentino di Best Coast), una delle formazioni shock del mutante indie californiano di inizio decennio. Questo suo debutto in solo è un affare davvero complesso, di certo possiamo dire di un viaggio personale ed articolato, quasi una seduta psicanalitica tradotta in musica. C’è spazio per numerosi elementi costituenti, che da tempo hanno fatto la forza della musicista. C’è la dimensione dreamy di certe produzioni 4AD – vengono in mente Cocteau Twins – ed un’attrazione fatale nei confronti della musica caraibica ed africana. E’ un animale a più teste "The Glitter End", uno di quei lavori che ti spiazzano al primo ascolto e rischiano di essere per lungo tempo incollati alla tua memoria. Diva conquista sulla distanza, forte di uno spontaneo egocentrismo. La sua musica sa di viaggi interstellari e l’utilizzo ricorrente a sonorità vintage non fa che sostenere l’ipotesi di una navicella alla gioiosa deriva nell’iperspazio. Diva di nome e di fatto per una delle pubblicazioni più a effetto di questo scorcio di stagione.

Las Kellies su Fire Records



Trio tutto al femminile con passaporto argentino che in appena cinque anni di frenetica attività sembra aver raggiunto traguardi invidiabili, non fosse altro per l’estrema abilità nel muoversi tra le linee di confine, modellando agli esordi un ruvido rock’n’roll ed avvicinandosi in maniera impertinente alla mutant disco con il successore "Kalimera". Il quasi omonimo "Kellies" viene pubblicato dalla sempre più tentacolare Fire Records e riduce ulteriormente la severa linea di demarcazione tra dancefloor e rock da cantina. Artigiane abituate all’effetto sorpresa le ragazze sudamericane scelgono un produttore sicuramente destinato a dar maggior lustro alla loro proposta. Dietro al banco di regia siede infatti una leggenda del reggae come Dennis Bovell, bassista col gruppo Matumbi, ma soprattutto produttore di Slits e Pop Group. Ed il suo apporto non è certo indifferente, come seppe plasmare una pietra miliare quale Cut, oggi conduce per mano queste giovani eroine nei meandri di una musica da ballo sghemba, negroide. Le influenze sono presto dichiarate. Dalla cover di Erase You a firma ESG a mille minuziosi riferimenti a Tom Tom Club, Lene Lovich ed appunto The Slits, Las Kellies non si nascondono certo dietro ad un dito ed infilano una sequenza di brani che ha del miracoloso. Siamo in piena atmosfera eighties, ma nessuno si scandalizzi, chè le ragazze si mostrano fantasiose cerimoniere pronte ad officiare al gran ballo in società. Cecil Kelly (chitarra e voce), Betty Kelly (basso e voce) e Sil Kelly (batteria e voce), giocano con i loro stessi nomi come i fratellini Ramones e soprattutto non mostrano alcun timore reverenziale nei confronti delle band chiamate in causa. Il loro sound è febbricitante e nelle vostre nottate estive ci sarà un’ulteriore luce a brillare sul patio.

Fire Records pubblica il nuovo album dei Jackie O'Motherfucker intitolato "Earth Sound System"

Quando si parla di new weird America bisogna necessariamente passare di qui, appuntarsi l’ultimo indirizzo noto di Tom Greenwood e soffermarsi nei pressi della sua improvvisata sala prove.
Stabilito un connubio artistico con Fire Records i suoi Jackie-O Motherfucker (un nome sempre gradito agli elettori democratici…) non conoscono soste e si imbarcano – impettiti – verso nuovi fronti.
Earth Sound System è il titolo ecologico di questa ennesima fatica da studio, che rispetta in pieno la visione psichedelica dell ‘ensemble, sempre aperto a forme di improvvisazione e musica creativa.
Con l’apertura 'In The Willows' si è trascinati in quello che è stato il campo principe dei primi Flaming Lips e poco più avanti dei Mercury Rev. E solo gente d’esperienza come Greenwood e compagni poteva uscire vincente da un confronto così rischioso.
In 'Raga Joining' viene fuori il minimalismo della musica indiana, altro argomento che da sempre ha ossessionato Tom. Per ascoltare la versione più ‘scoppiata’ del gruppo occorre portarsi avanti di due tracce e puntare il laser su 'Dedication' una vera e propria orgia freak folk, in cui la psichedelia sposa le scelte più ardite dell ‘impro jazz e del kraut rock via Faust. Si torna a respirare con Raga Separating mentre la conclusiva 'Where We Go' sembra una jam tra Gibby Haynes dei Butthole Surfers e J Mascis, sotto l’ombra di un cactus texano

Nonostante i molteplici cambi di line-up la quadratura del cerchio è completa ed è ancora Tom Greenwood a farsi sacerdote di quel rock acido e periferico che per anni ha corroso le fondamenta della musica dei benpensanti e dei predicatori. Lysergic emanations!

L'inglese Jon Allen torna con "Sweet Defeat"


L’arte del saper scrivere canzoni indimenticabili. Potremmo dedicare un paragrafo a Jon Allen, che tra gli autori contemporanei ci sembra uno dei più lucidi interpreti di una tradizione che arriva sino ai tempestosi sixties. “Sweet Defeat” è il suo rientro sulle scene ed è licenziato dall’indipendente Monologue Records, con distribuzione One Little Indian. Il suo debutto “Dead Man’s Suit” – forte anche degli oltre 20mila download per il brano “Going Home”, utilizzato in una pubblicità della Landrover – impressionò soprattutto la critica più ortodossa, che nella penna di Allen ritrovò i prodromi di uno stile classico, legato ai folk singer più influenti del nostro tempo. Il disco esplose letteralmente in Inghilterra, per poi crescere esponenzialmente anche nel resto del vecchio continente. Oltre alla sfrenata sponsorizzazione di BBC Radio 2, fu il celebre Jools Holland a volerlo nello spettacolo televisivo “Later with Jools”, dopo aver ascoltato il suo brano “In Your Light” alla radio. Prodotto ancora da Tristan Longworth ed inciso con lo stesso team di musicisti che ne avevano impreziosito l’esordio, il secondo album di Allen trova fondamento nell’ immaginario West-coast, pur aprendosi ad interessanti coloriture soulful, che potrebbero far pensare ad un giovane Van Morrison. Indicato da più parti come il novello Bob Dylan, Allen ha in realtà personalità da vendere e ce lo dicono le 11 canzoni composte per l’occasione, tra solide riproposizioni dello stile Americana ed aperture al rutilante rock sudista. Britannico doc, il nostro autore sembra conoscere a menadito la geografia musicale a stelle e strisce, eppure – a ben senitre – il suo timbro è più prossimo ad un Rod Stewart meno roco. Ci sono canzoni incredibili in questo disco – dall’opener "Joanna" a "Broken Town" – ma tutto il disco merita di essere affrontato con rigorosa attenzione, proprio per cogliere tra le righe sfumature essenziali e profetiche visioni di un universo rock solo apparentemente autoreferenziale. C’è così tanta passione tra questi solchi che non saranno i volumi esagerati dell’ultima sensazione indie a farvi cambiare idea.

Jon Allen Music by Jon Allen Music

23/05/11

The Elected, il nuovo album esce per Vagrant



Il terzo album firmato da Blake Sennett, chitarrista e compositore di Rilo Kiley, esce per Vagrant Records, dopo che l’esordio ed il suo successore ebbero diffusione attraverso i canali della prestigiosa Sub Pop. "Bury Me In My Rings" è stato prodotto dallo stesso Sennett in combutta con Jason Cupp ed il sodale collaboratore Mike Bloom. Un affaire solista, fatte salvo alcune immissioni in fase di post-produzione. Blake ha suonato tutti gli strumenti da sé, in modo da operare rapidamente in fase di editing, senza urtare i sentimenti dei suoi sparuti collaboratori. Rispettando le credenziali di certo rock della costa occidentale, il nuovo album riscopre anche le soffici armonie dei sixties, attingendo dal libro dei Beatles per via di un epigono affatto insospettabile come Elliott Smith. Senza possibilità d’errore questo è l'album degli Elected più fortunato, si parla la lingua di un artigianato di altissima classica, in cui i brani sono rifiniti con maestria e gran senso della misura. Arrangiamenti semplici e soavi, che sottolineano la vena acustica e soulful dell’autore, che non pare mai adagiarsi su luoghi comuni, cercando di iscrivere le sue ispirate canzoni nel solco di un’attualità comunque vincente. Apparentemente ritiratosi dalla scena musicale dopo l’enensimo tour con Rilo Kiley, Blake sembra essersi riconciliato non solo con l’arte di fare canzoni, ma anche con la stessa idea di portarne in giro per il mondo i risultati. Una ricerca spirituale quella che si è consumata attraverso "Bury Me In My Rings", un’indagine interiore che ci ha restituito un cantautore dal talento indispensabile.

Ascolta "Babyface" sul sito di Vagrant
Oppure l'intero album in streaming su my old kentucky blog

Nuovo album per i danesi The Figurines



In questo periodo dell’anno ci voleva proprio qualcosa del genere: energica, solare. I danesi The Figurines vengono alla luce nella seconda metà degli anni ’90, sin dall’esordio – l’Ep "The Detour" pubblicato nel 2001 – lasciano intendere che la loro versione del modernariato pop ha solide radici nell’indie americano, come nella wave dai tratti romantici di scuola inglese. Hanno continuato a scalare posizioni con il debutto lungo "Shake a Mountain" (2004) ed il successore "Skeleton" (2005) . Nel 2006 iniziano a seminare anche negli Stati Uniti, dopo le puntuali esibizioni a SXSW e KEXP fanno breccia nel cuore di Pitchfork, che riserva loro un accoglienza di tutto rispetto. Nel 2007 con il terzo album "When the Deer Wore Blue" , la loro musica si fa ancora più corposa liberando al contempo aromi anni sessanta, in un’inaspettata patina pop orchestrale, che da lì in poi avrebbe costituito cifra stilistica non indifferente. Sarà stata anche la mano del produttore ed ingegnere del suono Jeremy Lemos (Smog, Jim O'Rourke, Loose Fur), fatto sta che le melodie del gruppo risultano oggi nitide e quanto mai classiche. Con il quarto – omonimo – disco la crescita è esponenziale. Con un incedere che è prerogativa solo dei grandi classici, i Figurines mettono insieme 11 brani che sono delizia per l’udito. Un filo rosso che dai Beatles appena immersi nell’acido lisergico giunge alle propaggini più gustose dell’indie dance, trafficando con il gusto alternative di Death Cabe For Cutie. Il nord Europa ha un’altra luminosa stella su cui contare


Figurines "New Colors" (official video) from The Control Group on Vimeo.


Persian psych-rock e la nuova ristampa della Now Again dedicata a Kourosh Yaghmaei

Nei primi anni ’70 un numero consistente di artisti iraniani si è ricavato uno spazio importante non solo nell’economia locale, ma anche in quell’universo occidentale spesso osteggiato dalle istituzioni nazionali. Dalla diva per antonomasia Googoosh al suo sassofonista e direttore musicale Erik, passando per i rare-grooves dipinti dal fenomenale sitar virato funk di Abbas Mehrpouya e l’angelico tenore Pourain. Una cultura musicale stratificata, confortata dall’utilizzo di strumenti indigeni incrociati alle chitarre elettriche e ad una concezione musicale che andava per la maggiore sulla costa ovest degli Stati Uniti.
Ecco cosa troviamo alla base di questo lussureggiante edificio noto come Middle Eastern pop. Manco a dirlo Kourosh Yaghmaei ne è stato uno dei più sofisticati rappresentanti. Proseguendo in una ricerca che pone al centro le musiche dei paesi asiatici, arabi ed africani – fuori però dal concetto snob e mercificato di world – Egon allestisce un antologico da urlo su questo cantante chitarrista, che infiammerà l’Iran alla vigilia della rivoluzione komeinista. Back From The Brink è infatti un doppio lavoro che mette in fila musiche risalenti al periodo 1973-79, sonorità in bilico tra pop autoctono e rock acido. Non a caso Kourosh è considerato il padrino del rock persiano. Assieme al fratello Kamran – altro chitarrista non meno brillante, il duo ha creato uno stile per certi versi affine a quello dell’Hendrix del Bosforo Erkin Koray. Ma le loro canzoni, improntate sulle tecniche di meditazione come sulla profonda solitudine dell’animo umano sono farina del loro sacco.
Recuperando anche innumerevoli singoli rimasti nel cassetto per via delle disposizioni della monarchia locale, Now Again va a colmare un vuoto pneumatico di oltre 5 anni per rendere finalmente giustizia ad una coppia di autori capace di esportare la sensibilità arabica nelle strutture più lisergiche del rock anglo-americano.

Scarica un brano dalla raccolta di Kourosh Yaghmaei intitolato “Hajme Khali.”

Castlemania, il nuovo album per Thee Oh Sees esce per In The Red Records

Diavolo di un John Dwyer, prolifico come non mai e capace di investire rinnovate energie in quello che è ora il suo progetto principe, Thee Oh Sees. L’abbiamo visto spadroneggiare con il duo Pink & Brown sugli stessi territori che sono stati di Lightning Bolt, giocare a fare il cantore country & western ed armeggiare con i Coachwhips, in quella San Francisco crocevia tra esperienze più o meno rumorose e bucoliche. Con Castlemania la sua band – una vera e propria esperienza da testare dal vivo – si guarda alle spalle, confrontandosi con quella West Coast del flower power che avrebbe inebriato più di una generazione. Sempre forte del supporto di In The Red il gruppo allarga le maglie del suo suono, introducendo così distinti numeri pop-psichedelici, echi di una fantastica stagione che trovava in Creation e West Coast Pop Art Experimental Band alcuni dei suoi massimi esponenti.. E se in fondo anche Thee Oh Sees fossero delle deadhead?
Certo che alcuni passaggi del nuovo album più che far pensare alla poetica asciutta del kraut rock, rimandano proprio alle tirate strumentali dei Grateful Dead di Jerry Garcia. Un atteggiamento rinnovato dunque, in cui le jam strumentali si insinuano nel corpo di composizioni un tempo più austere. Segno di una perizia strumentale grande, la capacità di amministrare il rumore attraverso forme di scrittura più evolute. Siamo dunque nell’epoca del dopo garage, di un Nuggets 2.0, in cui le canzoni mai rinunciano all’immediatezza, pur parlando la lingua di un rock n roll schizoide.
Sempre ben disposto nei confronti delle melodia, benintesi.
È allo stesso tempo il disco più pop e più progressivo di Dwyer e soci, quello destinato a decretarne il successo planetario (ci auguriamo).

Comet Gain, ritorno col botto




Spesso il colpo di coda è riservato alle battute finali di un libro o di un lungometraggio. Nel nostro caso i Comet Gain realizzano con "Howl Of The Lonely Crowd", il loro miglior album, punto. Con una produzione pop ed al contempo roboante curata da due vecchie volpi quali Edwyn Collins e Ryan Jarman di The Cribs, questi inglesi doc si riprendono lo scettro di leader indiscussi del movimento dream pop. Con buona pace di colleghi vicini e lontani. Guidati dal talento cristallino di David Feck i nostri sono da sempre stati capo fila di un movimento che proprio dalla musica britannica degli ’80 prendeva le mosse. Nel cuore Sarah Records, Factory e C-86, ma anche la Rough Trade degli anni ruggenti. Considerati a ragione una delle più ispirate formazioni del sottobosco pop inglese, informate comunque dall’etica del do it yourself e dalla filosofia del dopo-punk, i nostri sono anche migrati oltreoceano per scendere a patti con l’influente Kill Rock Stars di Slim Moon. Hanno in seguito inciso per Track & Field e What’s Your Rupture, prima di siglare un nuovo accordo con Fortuna Pop. Con David Charlie Feck (voce e chitarra) c’ l’ex-Huggy Bear (ricordate lo split spartiacque con Bikini Kill?) Jon Slade alla chitarra, Rachel Evans (voce), Kay Ishikawa (basso) e l’ ex-batterista di Morrissey e Meteors Woodie Taylor. Chiudono il cerchio le presenze di Anne Laure Guillain (tastiere) e Ben Phillipson dei The Eighteenth Day Of May (chitarra). Prendendo spunto da generi diversi: dalla stagione dei gruppi al femminile dei sessanta all’Americana, dal post-punk inglese alla più morbida psichedelia, i nostri non hanno poi nascosto la fascinazione per il cinema della nouvelle vague, cogliendo in quell’immaginario anche definiti spunti stilistici. E’ la loro stessa estetica che ha folgorato gruppi come The Make-Up, The Yummy Fur, Jens Lekman e gli Herman Dune, fino ad arrivare ad una sfilza di talenti contemporanei come Male Bonding, Love Is All, Veronica Falls e gli stessi Crystal Stilts (compagni odierni di scuderia). Detto che in quest’album c’è lo zampino in post-produzione di Brian O’Shaughnessy (My Bloody Valentine, Primal Scream) e di Alasdair Maclean dei Clientele, avrete il quadro completo di un disco che raggiunge certo la perfezione formale, ma conservando una freschezza nella scrittura che è cosa da pochi eletti. Che sia questa la volta buona per l’exploit su vasta scala?

Alex Skolnick Trio - Veritas (Megaforce)

Da giovane talento della scena thrash-metal della Bay Area, nel ruolo di maggior chitarrista dei tanto lodati Testament, a musicista dalle indubbie prospettive anche nel circuito più legato all’universo jazz. Le sette vite di Alex Skolnick in musica. Co-prodotto da Megaforce (la storica indie che lanciò i Metallica) e Palmetto Jazz, il disco in trio di Alex porta il titolo di Veritas ed è un excursus sulla sua personale visione musicale, che sembra proprio attingere da oltre 50 anni di musica rock e jazz, contemplando ibridi davvero fantasiosi. A coadiuvarlo nelle azioni, la sezione ritmica composta da Nathan Peck (contrabasso e basso elettrico) e Matt Zebroski (batteria), partner versatili che non temono anche scorribande soliste. Potremmo parlare di un concept album, tanto che Alex esplica all’interno del cd il modus operandi che ha condotto in porto la realizzazione del disco. Fatta eccezione per la ripresa assolutamente originale di Fade To Black dei Metallica, Skolnick va a scomodare in maniera del tutto originale i suoi maestri, mettendo in piedi composizioni ispirate ad immaginifici duetti. Ecco così l’associazione Path Metheny/Jimmy Page in ‘Path Of Least Rsistance’, il folletto di Minneapolis Prince ed il chitarrista jazz John Scofield in 99/09 o Rodrigo Y Gabriela con i french-poppers Air in ‘Alone In Brooklyn’. Cartoline che sono tradotte essenzialmente in suono, per un trio jazz che sa swingare ma anche porre con fermezza il piede sull’acceleratore. Mandando messaggi d’amore anche ai compositori delle colonne sonore di Bollywood, al batterista Dave Grohl, a Jeff Beck e a John Coltrane, Skolnick ci tiene a ribadire che il suo universo non conosce opposizioni mediatiche ed è pura astrazione. La sua maturità si evince anche da questa visione universale.

Our Lives Are Shaped By What We Love: Motown's Mowest Story (1971–1973)

Un vecchio detto recitava “Go west, young man”. Aldilà dei clichè, molti artisti ed addetti ai lavori hanno imboccato l’autostrada per la città degli Angeli, anche con la visione di un impiego come maestranze nella culla dorata dei sogni Hollywood. La storia di Berry Gordy Jr. è quanto mai diversa. Natio di Detroit, impresario di successo e fondatore del marchio icona Motown, il nostro decide di cambiare aria al fine di sviluppare – parallelamente – altri progetti musicali.
Spostando progressivamente i suoi protetti sulla costa occidentale, Berry fonda a Los Angeles nel 1971 il sottomarchio Mowest, l’impegno è riposto nel documentare i più abili creatori di rare grooves locali, senza lo stress di guardare sistematicamente alla cima delle classifiche.
Un diktat, dopo che tutti gli autori di casa – da Stevie Wonder a Diana Ross, passando per Jackson 5 e Marvin Gaye - avevano più volte conquistato il disco d’oro. La leggenda del brand occidentale di Motown è ora dominio pubblico, grazie all’instancabile lavoro di ricerca di Light In The Attic. "Our Lives Are Shaped By What We Love: Motown’s Mowest Story 1971-1973" è così una porzione sostanziosa di quanto immesso sul mercato dal marchio: soul music, nerboruto funk e qualche traccia del west coast sound più incline alla tradizione hippie.

Tra gli artisti di punta in catalogo una citazione perentoria per Syreeta, all’epoca compagna di vita di Stevie Wonder, le Sisters Love e G.C. Cameron. Nel corso della sua breve esistenza l’etichetta ha messo in commercio una dozzina di album e qualcosa come 40 singoli, lasciando una traccia indelebile nella storia della black music della prima metà del decennio.
Da esordienti come Odyssey passando per veterani quali Frankie Valli & The Four Seasons, Mowest ha investito significative speranze (ed una quantità di denaro non indifferente) sul nuovo roster, mai suffragata dai risultati di vendita. Detto ciò il marchio interrompe le pubblicazioni nel 1973. The Commodores, Thelma Houston e lo stesso Cameron si accasano presso l’etichetta madre, mentre gli altri artisti di casa finiranno coi loro album nelle polverose cassette dei vinili cut out (salvo poi riprendere quotazione con le smanie dei crate-diggers di mezzo mondo)
Il best of che in 16 mosse ci dice della brillante idea ‘logistica’ di Berry è stato remasterizzato da Dave Cooley (Blue Note, Warp, Stones Throw, Now Again), mentre le estese liner notes sono opera del curatore del progetto stesso Kevin “Sipreano” Howes (già al lavoro sulle ristampe di Jamaica-Toronto, Doug Randle, Rodriguez, Monks); l’impeccabile grafica è di Strath Shepard (Pacific Standard). Un pezzo di Motown inedito, roba da perdere letteralmente la testa.

TRACKLISTING:
• 1. You're A Song (That I Can't Sing) - Frankie Valli & The Four Seasons
• 2. Our Lives Are Shaped By What We Love - Odyssey
• 3. Give Me Your Love - The Sisters Love
• 4. Act Like A Shotgun - G.C. Cameron
• 5. I Love Every Little Thing About You - Syreeta
• 6. Black Maybe - Syreeta
• 7. Sun Country - Frankie Valli & The Four Seasons
• 8. Battened Ships - Odyssey
• 9. I Can't Give Back The Love I Feel For You - Suzee Ikeda
• 10. Don't You Be Worried - The Commodores
• 11. You've Got To Make Your Choice - The Sisters Love
• 12. Broken Road - Odyssey
• 13. A Heart Is A House - The Nu Page
• 14. I Hope I See It In My Lifetime - Lodi
• 15. The Night - Frankie Valli & The Four Seasons
• 16. I Ain't Going Nowhere - Thelma Houston

18/05/11

Rolo Tomassi: doppio antologico ricco di inediti e rarità




Doppio cd per una delle formazioni che più ha saputo rimestare negli anfratti del post-hardcore dei ’90, arrivando alla definizione di un genere originalissimo, nonchè schizofrenico. La natura stessa dei Rolo Tomassi impone l’eccezione come regola, la creatività torrenziale sopra ogni cosa, anche a scapito di quelle più classiche strutture attinenti al post-punk. Con un nome che rimanda al personaggio omonimo apparso nel libro del gigante James Ellroy (L.A. Confidential, dalle cui pagine sarà tratta una fortunatissima pellicola), i ragazzi di Sheffield si rifanno ad un immaginario americano non solo nelle scelte musicali. In una bagarre che sembra proporre gli aspetti più conturbanti del metal core e del rock progressivo, Rolo Tomassi organizzano la loro offensiva, citando il rovinoso attacco dei Converge, la fase più epica ed amplificata dei King Crimson (tra le righe del loro sound scorgiamo le colte citazioni di Red e Lark’s Tongue In Aspic) e dirottando addirittura sul jazz libero e spirituale del tardo Coltrane. Eternal Youth oltre ad essere un augurio è anche una circostanziale disamina dello stile multiforme del gruppo, che in questo doppio antologico allestisce un programma di 36 brani, per di più ricco di inediti e tracce apparse solo su singolo. Destination Moon è la loro etichetta personale, l’estensione più logica ad un lavoro certosino svolto nel corso degli anni. L’eclettismo dei nostri si può leggere anche nel documentato fascino per i remix (ce ne sono almeno 8 in questa raccolta) come nella passione per l’elettronica contemporanea, tanto da scegliere il produttore di grido Diplo (M.I.A.) per l’album del 2010 Cosmology.

Il ritorno di Jello Biafra e dei Guantanamo School Of Medicine

Per chi ha assistito alla loro unica apparizione sul suolo italiano – la scorsa estate al Forte Prenestino di Roma – saprà bene di cosa stiamo parlando. Uno dei leoni del punk californiano più sagace e beffardo, ha deciso di mettere le cose in chiaro, dopo che la disputa attorno al nome Dead Kennedys ne ha messo in discussione il futuro professionale.
Jello Biafra è notoriamente uno che non si da per vinto, spesso chiamato a difendere la propria arte in tribunale, figurarsi se ha timore di puntare in alto o di prendersi qualche roboante rivincita. Con il secondo album per Alternative Tentacles realizzato assieme a Guantanamo School of Medicine, è evidente che quello che nacque come un progetto estemporaneo è ora una band a tutti gli effetti. Con le classiche velleità delle formazioni rock’n’roll più antiquate…non ultima quella di conquistare il mondo! Sulla scorta dell’ottimo debutto The Audacity of Hype, il gruppo—Ralph Spight (Victims Family, Freak Accident, Hellworms), Jon Weiss (Sharkbait, Horsey), Billy Gould (Faith No More) e Kimo Ball (Freak Accident, Carneyball Johnson, Mol Triffid, Griddle)— torna a tuonare con un album che saccheggia letteralmente dai migliori momenti della storia del rock più adrenalinico.
Ciò significa che a partire dalla più selvaggia surf music, attraversando gli spigoli del Detroit sound ed accovacciandosi sugli stipiti del punk californiano, si continua a danzare – mal fermi – su ritmi sostenuti, accecati dall’elettricità, sospinti da ritmi al fulmicotone.
Unicamente nella versione CD e download digitale troverete una cover trasfigurata di “Metamorphosis Exploration on Deviation Street,” 18 impellenti minuti dal libro di una delle formazioni feticcio di molti seguaci del suono più stradaiolo: i Deviants . L’assalto delle due chitarre sposa in pieno la tradizione del punk più spaziale, tracciando appunto una linea perpendicolare che dagli Stooges di Funhouse porta ai Chrome, passando ovviamente per gli autori di Holiday In Cambodia.
Una band formidabile dal vivo che continua a fare faville anche da studio, rileggendo il verbo originale ed attualizzandolo secondo l’istintività ed il credo moderno. Nulla si crea e tutto si ricicla, Biafra e Guantanamo School Of Medicine colpiscono nel segno, il resto sono chiacchiere.

Il singolo Victory Stinks in free download




Bella collaborzione tra Tara Jane O’Neil e Nikaido Kazumi in uscita su K Records


Tara Jane O’Neil incontra Nikaido Kazumi nel 2002 a Kyoto, Giappone. Da quel momento in poi i due gireranno per ben 5 volte nel paese del sol levante, portando a spasso il loro stringato teatro sonoro. L’appendice non poteva che realizzarsi in studio, con la pubblicazione di un album omonimo per K Records, che va a cementare la felice joint-venture artistica. Ascolterete la cantautrice – che nasceva come bassista nelle fila dei Rodan, uno dei gruppi chiave nella nascita del post-rock in quel di Louisville, Kentucky – in una dimensione inedita, parimenti riflessiva ma decisamente più aperta ad una filosofia di ricerca e ad un approccio più focalizzato sull’esperienza strumentale. La lavorazione dell’album è partita nel 2008, il luogo del concepimento una piccola casa, in cui stipare strumenti a corda, piccole percussioni artigianali ed invitare un paio di amici fidati come Geoff Soule e Norio Fukuda. Quattro ore di materiale improvvisato messo in cantiere, in appena un giorno di session! Nel 2010 Tara torna in Giappone per incontrare Nikaido a Kobe, al Guggenheim house; ancora una volta un equipaggiamento molto minimale al servizio dei nostri: un floor tom, un amplificatore ed una camera vuota in uno stabile vittoriano. I brani precedenti rivisti e corretti, nuove strutture costruite attorno ai vecchi bozzetti musicali; se spesso l’interscambio linguistico non è dei più fluidi, si può sempre ricorrere alla gestualità, ai disegni pur di concretizzare quel florilegio di idee.
Sono trascorsi oltre due anni da quel primo fatidico incontro casalingo, in cui sono state messe le prime pietre di un lavoro organico, che oggi risuona nel suo fascino minimale ma organizzato. Un album di musica folk, sensibile al richiamo dei field recordings e di una musica d’ambiente che sembra sottoscrivere l’idea di una pop-psichedelia in punta di piedi. Aria di rinnovamento nella tradizione.

Ne potete ascoltare un estratto intitolato Ruh Roh da questo link

Helado Negro - Canta Lechuza (Asthmatic Kitty)

Figlio di immigrati ecuadoregni, Roberto Carlos Lange è nato nel sud della Florida nel 1980. La sua infanzia è stata dunque corrosa dal calore tropicale, dalla forte umidità, dagli uragani, ma anche arricchita dal suono e dai colori provenienti dalla vasta comunità latino-americana di stanza nella regione.
Ogni piccolo elemento ha finito con il condizionare l’estetica di Roberto Carlos, affascinato parimenti dai party illegali che si tenevano a tarda notte - peñas il loro pittoresco nome – quanto dal suono proveniente dalle autoradio delle macchine di passaggio o dai vecchi soundblast utilizzati dai giovani dell’area. Ecco perché l’orientamento ritmico di Helado Negro è così prepotente, altrettanto può dirsi delle numerose fonti utilizzate per riprodurre il suono, siano esse percussive, analogiche o digitali. Nel corso degli ultimi anni si sono alternate le collaborazioni con il sound designer David Ellis, per alcune installazione dal fascino sicuramente indiscreto: la macchina da scrivere che in automatico riproduceva il testo di "The Message" (Grand Master Flash) deve pur aver sollevato più di una coscienza. A questa esperienza debbono sommarsi i ripetuti incontri con Paul Duncan e Bear In Heaven, anche se il fiore all’occhiello di questa sua concitata attività rimane l’incontro con Guillermo Scott Herren deus ex-machina di Prefuse 73 e Savath and Savalas, con il quale ha spesso composto a 4 mani. Nel suo album di debutto per Ashtmatic Kitty Herren rese il favore, ma è nel secondo Canta Lechuza che Lange impara a camminare da solo , a testa alta. Ed è una cultura radicata nel ritmo la sua, nell’hip-hop più trasversale come nell’elettronica più raffinata, un tempo altrimenti detta intelligent dance music. L’attenzione è pero circoscritta alla forma canzone, ogni singolo elemento esterno, ogni scansione sonora costruisce un ponte su cui montare armonie di stampo quasi tropicalista. Psichedelia pop in salsa sudamericana, che istintivamente sgorga dalla penna del nostro. Un feeling inaspettato, per un’opera che si colloca a cavallo dei tempi, tra memorie del passato cucinate secondo il rituale dei rare grooves e le indicazioni della musica da club più elevata.

Ascolta e scarica il singolo REGRESA

17/05/11

Joseph Arthur torna con "Graduation Ceremony"



Figura sfuggente e poco disposta al sensazionalismo, Jospeh Arthur incarna per molti versi l’essenzialità dei cantautori vecchia scuola, lasciando che a parlare sia unicamente la sua voce e la sua sei corde, oltre ad un libretto di testi invero crepuscolari. Lanciato a metà anni ’90 da Peter Gabriel che lo volle in forza alla sua Real World, il nostro impiegò non poco tempo a farsi notare, nonostante il beneficio dei grandi canali di distribuzione e dell’apporto logistico di una major. Con un timbro che risentiva dell’influsso del compianto Jeff Buckley – oltre che delle brumose atmosfere di Leonard Cohen e del più contemporaneo Joe Henry – Arthur, grazie anche al suo mentore, si interessò ben presto alla sterminata geografia della world music, incamerando elementi che ne avrebbero arricchito la maturazione artistica. Spalleggiato dalla critica e da un numero affatto trascurabile di artisti chiave – Michael Stipe dei R.E.M. ha una sorta di venerazione nei suoi confronti – Arthur ha saputo emozionare più di un ascoltatore, grazie ad una magia tutta sua. Un ruolo di cantastorie tra le righe, profondamente spirituale, immerso in un clima ed un immaginario da sogno, distante da tutti i borbottii della vita moderna. Un uomo che si affranca, un’artista che ci prende per mano e ci conduce negli anfratti del cuore, scuotendoci intimamente. Non c’è nulla da fare nel Midwest a parte sognare, così intona Joseph in "The Graduation Ceremony", il suo primo album solista dai tempi di "Nuclear Daydream" (2006), anche se nel 2010 Arthur aveva realizzato un altrettanto prezioso "Fistful of Mercy", disco concepito a 6 mani con Ben Harper e Dhani Harrison. Prodotta da John Alagia e resa ancor più interessante dalla presenza da un turnista di lusso come il batterista Jim Keltner (John Lennon, Bob Dylan), questa nuova collezione di brani si presenta come l’ennesimo colpo di coda di un talento ritrovato, un elegante contributo alla causa della canzone più classica, con l’utilizzo di una sezione d’archi che strizza l’occhio alla musica da camera più pop. Joseph Arthur sarà in tour negli Stati Uniti per buona parte dell’anno ed i suoi poliedrici dipinti saranno esposti per tutto il mese di giugno al Gershwin Hotel di New York City. Uno dei più talentuosi folk singer della sua generazione, Arthur confida nel riprendersi il ruolo che più gli è consono. Una guida spirituale dotata di un’infallibile penna.


A voi il video di "This is Still My World"


Esce finalmente anche in Europa il meraviglioso "Kaputt" di Destroyer


Destroyer al secolo Dan Bejar, è un musicista di Vancouver, British Columbia. I suoi trascorsi, parallelamente alla carriera solista, dicono del coinvolgimento in alcune delle più belle realtà della scena canadese: New Pornographers e Swan Lake. "Kaputt" è la sua ultima visionaria fatica pop. Un masterpiece annunciato che sposta le lancette indietro nel tempo, scegliendo – dopo la sbornia folk dei seventies e le cartoline d’amore inviate a Bob Dylan – gli anni ’80 del pop più magistrale ed intelligente. Dagli arrangiamenti lussureggianti alle melodie che si insidiano sottopelle, l’indicazione è quella dei capi della classe. Che nella fattispecie possono portare il nome di Steely Dan, 10 CC, Scritti Politti, Brian Ferry, Prefab Sprout e addirittura Sade. Il film del disco parla di brani curati nei minimi particolari e realizzati con l’apporto di un largo ensemble da studio: tale assetto sarà rispettato anche nelle imminenti date del tour europeo, in cui Bejar sarà accompagnato da otto elementi. Il disco, pubblicato originariamente da Merge, è licenziato in Europa e Giappone da Dead Oceans, dopo aver letteralmente sbancato nel circuito indie in USA, con un perentorio ingresso al numero 62 della classifica di Billboard. Segnalato con sacrosanto tempismo da Pitchfork tra le gettonatissime colonne ‘best new music’, il disco arriva anche nel vecchio continente, accompagnato dal rituale carico di aspettative. Perfettamente rispettate in corso d’opera, con una scaletta da brividi che alterna momenti soulful e ballate dal piglio elettrico, rispettando le ispirate orchestrazioni di fondo. Pochi lavori rasentano la perfezione come questo "Kaputt", il Destroyer del 2011 è veramente a un passo dai primati stilistici dei suoi numi tutelari.


Potete ascoltare qui la splendida traccia di apertura "Chinatown"


Questo è il video di "Kaputt"

Destroyer - Kaputt from Merge Records on Vimeo.


"Green Naugahyde": esce il 12 settembre il nuovo disco dei Primus


Avete mai visto degli avanguardisti balzare in cima alle classifiche di vendita americane? Evidentemente i Primus hanno sconfessato più di un tabù, con la loro musica che si è posta sin dagli esordi in bilico tra forme di metal sperimentale, funk-wave bianco ed un eccelso croonerismo. Non è un caso che abbiano fatto combutta con Tom Waits in quello storico singolo che portava il titolo di "Tommy The Cat". Tornano a luglio con il primo album da studio in oltre dodici anni, considerato che aldilà delle due reunion estemporanee del 2003 e del 2006 i membri del gruppo hanno preferito concentrarsi su progetti paralleli non meno indovinati. Les Claypool (basso e voce) e Larry LaLonde (chitarra) si ritrovano per "Green Naugahyde" con il primo batterista della band Jay Lane, un autentico fenomeno che con la formazione di San Francisco aveva inciso dei demos prima del debutto. Destinatario del Drummer of the Year nell’edizione dei California Music Awards del 2002, Jay ha suonato spesso e volentieri con il trio del chitarrista Charlie Hunter (Blue Note) e con gli Alphabet Soup, altra formazione della Bay Area dedita ad un ibrido tra jazz ed hip hop. Pubblicato dalla Prawn Song dello stesso Claypool il disco ci riporta realmente ai giorni migliori dei Primus, rivelando il volto più incompromissorio e cerebrale della band. Un’opera da considerarsi nella sua interezza, un corpo unico in cui i tre elaborano giochi di prestigio con lo sfoggio sapiente delle loro armi strumentali. Ascoltando "Last Salmon Man" – ancora l’ossessione di Claypool con il mondo della pesca (ricorderete quella stellare "John the Fisherman" in merito) – non potete fare a meno di pensare al più turbolento Frank Zappa, mentre la giostra di "Eternal Consumption Engine" riporta direttamente ad una versione più polposa ed orchestrale dei Residents, altra eterna passione del trio. Il drumming di Jay Lane si mostra ancor più funzionale a questa seconda giovinezza del gruppo, andando a consolidare un impianto ritmico allo stesso tempo frizzante e portentoso. Come dei pop-up animati fanno capolino i Material di Bill Laswell ed i Talking Heads con Adrian Belew, ma sono solo flash, fin quando il basso di Claypool si inerpica oltre la cortina di "Eyes Of The Squirrel", deliziandoci con la più alta prospettiva avant-rock di questo 2011. Fuoriclasse nacquero, fuoriclasse rimangono. E se volete davvero fare una gita a South Park…

I Primus iniziano in questi giorni un tour mondiale che toccherà l'Italia con due date a giugno:
26 giugno VIGEVANO Castello
27 giugno ROMA Atlantico Live


Nino Bruno per il nuovo film di Paolo Sorrentino



L’amicizia tra Nino Bruno ed il cineasta Paolo Sorrentino ha origini antiche, tant’è che il loro primo incontro risale alla seconda metà degli anni ‘90. Una conoscenza di primo acchito artistica, considerato che Paolo aveva assistito delle performance di Nino, mentre questi aveva visionato alcuni medio metraggi del regista. Dopo il primo intendimento c’è però l’appeal umano. Premessa che ci porta ad una mattinata del giugno 2010, quando Paolo richiede espressamente un pezzo per il suo nuovo film al musicista. Deve rispettare una sorta di diktat invero: praticamente è il pezzo forte del protagonista (Sean Penn, alias Cheyenne), che nel corso della pellicola intonerà il brano al fine di sedare un cane inferocito pronto all’attacco. Facendo ricorso alla sua ‘specialità’ sarà in grado di salvarsi la pelle. Rispetto al suono bisognava orientarsi su un brano che mantenesse le caratteristiche del miglior rock FM, una melodia che rimanesse appiccicata all’immaginario del pubblico presente in sala. Dopo aver smussato numerosi angoli Nino consegna finalmente il brano, che ha un potenziale incredibile, tanto da ricordare alcuni episodi dell’ex-Eagles Joe Walsh, nelle sue più riuscite sortite soliste. Di suo Bruno aggiunge delle chitarre che mantengono il gusto per una certa psichedelia, ormeggiata dalle parti della wave britannica. Mancava però il cantato in madrelingua inglese; la Indigo film si presta ad inviare un cantante su Napoli per registrare il contributo. E’ proprio allora che Nino s’imbatte casualmente in David Copley, bluesman americano e giramondo, in quei giorni nel capoluogo partenopeo. "Every Single Moment In My Life Is A Weary Wait" viene così concepito in appena tre ore. Con la voce di Copley che rimanda alla natura corale del brano, mantenendo gli indissolubili aromi roots americani. Nello stesso tempo viene anche editata una versione del brano con la voce dello stesso Nino Bruno. Ascolterete il risultato di questa preziosa alchimia non solo nel trailer del nuovo film di Sorrentino, ma anche negli outtakes della stessa pellicola che compariranno in DVD. Il brano sarà comunque colonna sonora portante dello stesso film, in quanto la versione a cappella intonata da Penn è destinato ad essere uno dei momenti clou dell’intero plot.


NINO BRUNO feat. David Copley "Every Single Moment In My Life Is A Weary Wait" radio edit by Pitbellula

12/05/11

Wewe all'esordio con "Wolf In The Piano"


I Wewe hanno attraversato la più tumultuosa stagione hardcore e dopo-punk del nord-Italia, avendo partecipato ad esperienze formative all’interno di gruppi quali Fluxus – epigoni di un certo suono Touch & Go - ed Ifix Tcen Tcen – la leggendaria formazione h/c che ha licenziato lavori per l’altrettanto mitica T.V.O.R. "Wolf In The Piano" è così un esordio che ha remote tracce in un passato fatto di suoni ruvidi, funzionali comunque a preparare una nuova piattaforma artistica. Già disponibile in digitale sul finire dello scorso anno, il debutto dei Wewe vede ora propriamente la luce nella sua versione fisica. Un lavoro che ci stordisce nel suo desolato romanticismo, proiettando la memoria su qualche sperduta highway, rivisitando il roots americano attraverso i toni solenni del post-punk, introducendo peraltro ricercati fraseggi strumentali in odor di sperimentalismo jazz-rock. Il background dei cinque Wewe è tale da preparare il terreno ad escursioni inedite, condite da un lirismo superbo e da reali appunti di viaggio. Non mancano certo i riferimenti letterari, come nel brano "Bring me up the one who sings" gentilmente concesso da Alberto Papuzzi e liberamente ispirato al suo libro "Portami su quello che canta. Processo a uno psichiatra". Tra murder ballads ed una versione rivista e corretta dell’americana, elettrificata al punto giusto, i Wewe battono sentieri selvaggi coscienti però delle potenzialità di un suono che ha i numeri per competere con i più affermati cantori ‘maledetti’ contemporanei.

Il debutto de Les Sanspapier


Per il loro album d’esordio, Les Sanspapier scelgono un titolo che evoca immediatamente la Francia, soprattutto Marsiglia e i cafè tabac con le bottiglie di Pernod e Pastis appese sopra il bancone, pronte all’uso. Profumo unico e inconfondibile, sapore fresco ma denso, leggero se allungato con acqua, pungente se bevuto d’un fiato. Questo è un aperitivo all’anice: a questo aroma pensa la band per definire la propria musica, senza etichette di genere, senza confini linguistici (i testi mescolano francese e italiano soprattutto, ma anche spagnolo, dialetto piemontese…). Musica meticcia, ma con un sound ben riconoscibile; inebriante e dolciastra, ma con un carattere deciso e un tocco d’amaro nel retrogusto. Non solo Francia, comunque: l’anice è anche Mediterraneo. Le caraffe di ouzo nelle taverne greche, la dolce rakia balcanica, il suo ben più ruvido fratello turco, il raki. Un mondo intero nel fondo d’un bicchiere; un mondo musicale che Les Sanspapier raccontano in queste undici canzoni, nate nel cuore di Torino.

05/05/11

Radici Nel Cemento presentano Fiesta!

Dopo quasi venti anni di attività (la band nasce nel 1995) esce finalmente il primo disco dal vivo delle Radici. Un documento che mancava nel percorso artistico del gruppo reggae romano. Una testimonianza necessaria perchè Radici Nel Cemento oltre ad essere una delle reggae band storiche della scena italiana proprio dal vivo hanno incrementato la loro fama, forti di performance incendiarie che da sempre hanno mandato in visibilio l’audience multicolore.

E’ pieno delle cosiddette buone vibrazioni Fiesta!, frutto di varie riprese effettuate durante il tour del 2010 : l’ album raccoglie tutte le vecchie hit della band, più l’ inedito ‘L’ Acqua’ e la memorabile fiesta dei Pogues, rivisitata nella maniera consona a Radici Nel Cemento.

Una celebrazione all’aria aperta, sull’onda dei ritmi in levare e di quel sole caraibico che sembra riflettersi anche sul nostro orizzonte.