30/09/09

Jon Allen



"Dead Man’s Suit" è l’album di debutto di un nuovo ed affascinante cantautore proveniente dal sud di Devon che risponde al nome di Jon Allen. Incorporando nella sua musica ovvi riferimenti al più elegiaco folk dei 60 e dei 70 e tracciando un’ipotetica linea di confine con pezzi da novanta della più sofisticata canzone pop rock contemporanea – prego verificare alla voce Ryan Adams, Jose Gonzales e Damien Rice – Allen ha già l’aria del veterano. Dopo aver aperto i concerti di personalità del mainstream come Mark Knopfler, Emmylou Harris e KT Tunstall, il nostro non poteva che sfoggiare una solida tenuta all’esordio sulla lunga distanza, mostrando inconsuete doti di arrangiatore e cucinando con spezie sempre diverse i singoli brani. Una penna benedetta ed i numeri di chi può guardare speranzoso al proprio futuro artistico, possiamo riassumere così, in due battute. Come anticipato "Dead Mans Suit" mostra un’eclettica gamma di influenze, mettendo assieme spunti riflessivi e performance più accorate. Spunti che arrivano dal primissimo Rod Stewart come da un maestro di spiritualità del calibro di John Martyn, al cui capolavoro "Solid Air" Allen guarda con la dovuta reverenza. Tra le righe è possibile scorgere però altre – solari – influenze, si faccia caso al taglio tipicamente californiano di "Take Me To The Heart", in cui l’eco di James Taylor e certo West Coast sound si manifestano con grande spontaneità. E poi quei numeri blues rock, con tanto di ammaliante groove che fanno di "Young Man Blues" e "Happy Now" ulteriori numeri da festa. Un predestinato? Con buone probabilità, pensate che Jon ha studiato presso il Liverpool Institute of Performing Arts fondato da Paul McCartney, il quale si è sempre espresso in termini più che positivi sull’autore, offrendosi anche nella scrittura di alcuni suoi brani. Amicizie prestigiose a parte è il musicista a rubare la scena, strappando applausi a più riprese con il suo "Dead Mans Suit", un atto primo davvero coi fiocchi, con il marchio di garanzia di One Little Indian.

29/09/09

Raveonettes


I Raveonettes continuano ad essere di base il duo composto da Sune Rose Wagner e dalla esile e fascinosa Sharin Foo, entrambi danesi, ma da tempo dediti alla mondanità d’oltreoceano, con un passaporto newyorkese per il primo e losangeleno per la seconda. ‘In And Out Of Control’ è l’album numero 4, esce per Fierce Panda ed è stato registrato nella natia Danimarca, con profusione di mezzi e spirito. Dietro al banco di regia un produttore con pedigree come Thomas Troelson già a lavoro con Junior Senior ed alcuni progetti dell’universo DFA. Lontane le luci delle ribalta ottenute ancora sotto l’ala protettrice della Columbia, i Raveonettes sono ora un fiero gruppo indipendente che ha riguadagnato prepotentemente terreno, mandando in orbita uno stile certo ammiccante ma non meno sensibile alla sorpresa e all’arrangiamento stiloso. Sharin, che nel frattempo ha conosciuto anche la gioia della maternità, sembra condurre in porto con nuovo piglio i brani, che recuperano sicuramente l’essenza pop/shoegaze del gruppo, traghettandola verso lidi più radiofonici, con anche discreti inserti dance e flashback che ci riportano alla miglior stagione del britpop dei primi 90. Se ‘Lust Lust Lust’ - registrato nell’appartamento newyorkese di Sune, è passato alla storia come uno dei lavori più scuri della formazione nord europea - In And Out Of Control è un disco ricco di speranza, solare, avvolto in ritmi mai ossessivi, suadente nelle melodie. Potremmo anche definirlo come un nuovo inizio, anche se i temi trattati all’interno del disco non sono necessariamente leggeri e spensierati: ‘Suicide’, ‘D.R.U.G.S.’ and Boys Who Rape (Should Be Destroyed), lasciano semmai intravedere una vena malinconica, che riflette comunque una quotidianità per nulla di plastica. Ed è forse questa la chiave di volta dei nuovi Raveonettes, che comunque riescono ad alleggerire liriche non propriamente frivole, attraverso un’esecuzione scattante, convincente. Ora che i cloni di Jesus & Mary Chain e del suono C-86 si stanno affacciando sul mercato con inquietante frequenza, è giusto riservare uno spazio d’onore a questi danesi, che in tempi non sospetti hanno saputo precorrere un suono ed una tendenza.

28/09/09

Kultur Shock




Dopo tre album e due dischi dal vivo, i Kultur Shock tornano in studio. Il risultato finale è "Integration", destinato sin d’ora a definire nuove regole all’interno di un genere in realtà molto trafficato. Merito anche della collaborazione col produttore Jack Endino da Seattle, l’uomo che con poche centinaia di dollari compì il miracolo con Bleach dei Nirvana. Sarebbe limitativo definire come hardcore/punk la musica dei Kultur Shock o avvicinarla alle più esagitate delle musiche etniche. Attraverso un approccio che rimane molto tirato il gruppo ha infatti posto le fondamenta di una miscela originale, capace di metter insieme elementi provenienti dal rock come dal punk e dal folk balcanico. Agevolati in questo dall’’uso di strumenti atipici come il violino od una larga sezione fiati. Sotto la guida del veterano vocalist Gino Yevdjevich, il gruppo con "Integration" tocca il suo picco artistico, mantenendo invariata una certa propensione naturale alla baldoria e all’anarchia. La posizione politica radicale è del resto una delle loro risorse liriche, l’impatto sociale del gruppo continua infatti ad essere determinante, nell’accompagnare queste visionarie cavalcate tra tradizione etnica e rumore bianco. Il gruppo tornerà presto in tour, forse l’ambiente più confortevole per questa masnada multi etnica che si avvale di musicisti bulgari, bosniaci ed americani. Sono amatissimi da Jello Biafra e Serj dei System Of A Down ed il loro approccio baldanzoso certo può richiamare quello degli amici Gogol Bordello. Una delle più belle realtà dell’Europa orientale, aldilà di ogni barriera, aldilà di ogni genere.

Kultur Shock in tour
22 ottobre - Mezzago (MI) @Bloom
23 ottobre - Roma @XRoads
24 ottobre - Bologna @Estragon
info: Barley Arts


23/09/09

Crollo Nervoso, la nuova uscita Spittle



Torniamo a parlare di una delle stagioni più movimentate della recente storia d’Italia, dagli anni di piombo a tutto il movimento musicale che aggiornava le tecniche del punk al montante sentimento per la rinascita cultura della new wave, spazzando via in un solo colpo le canzonette, ma anche le barocche evoluzioni del progressive e quel filo di accademia che aveva abbracciato tanto rock nostrano fino a quel momento. Una nuova generazione mette a punto non solo un miracolo iconografico, ma anche un modo inedito di fare musica, ripartendo dai bassifondi – spesso con mezzi di fortuna – ma aprendo fragorosamente la vena della creatività. Tenendo a mente le rivoluzioni culturali che a cavallo tra i due decenni animavano la cultura underground inglese ed americana, anche la provincia italiana si organizza in micro-gruppi di ascolti. Spiccano per notorietà la scena di Bologna e quella di Firenze, la prima veramente smossa dal fomento per le avanguardia transoceaniche, la seconda già pronta a confrontarsi col mondo della moda alternativa, rispettando in questo il lascito di una città dalla grande tradizione artistica. "Crollo nervoso" è dunque un titolo appropriato per sintetizzare quegli anni fatti di antagonismo, dove la rivoluzione culturale non aveva unicamente eco nelle strade e attraverso i collettivi universitari, ma trovava ampio sfogo nella musica, nel fumetto (si pensi a tutta l’esperienza Frigidaire) ed in certe primitive forme di videoarte. Un documentario che è specchio dei tempi, un’impeccabile indagine tenuta da un altro personaggio simbolo come Pierpaolo De Iulis, che si affaccia con sguardo quasi maniacale suoi luoghi del delitto, per cogliere gli episodi salienti, i segreti e gli aneddoti dei protagonisti in causa. Impressionante la quantità e la qualità dei filmati inediti che farciscono l’intero progetto. Si parte ovviamente dall’Emilia Romagna (Gaznevada, Confusional Quartet, Stupid Set, Central Unit, Rats, Kerosene, i Kirlian Camera e i Pale), poi Firenze (Diaframma, Litfiba, Neon, Pankow), con Milano e Roma per una volta un po’ al margine e decine di situazioni isolate - gli Underground Life di Monza, gli Art Fleury di Brescia, i Ruins di Mestre, i Deafear di Torino o i Wax Heroes di Treviso, solo per citare alcune delle realtà sparse dalle Alpi alla Sicilia, senza peraltro dimenticare il collettivo/factory del Great Complotto di Pordenone. Da lì a pochissimo si sarebbe verificato il boom dell’hardcore e un po’ più tardi sarebbe toccato al recupero riveduto e corretto delle sonorità garage e psichedeliche dei sessanta, ma quella è un'altra storia. Nella prima metà degli anni Ottanta a dominare la scena era il post-punk nelle sue più disparate accezioni, dal new romantic ad un visione del tutto atipica del concetto di rock in opposition, dall’industrial alla ricerca che si confrontava con i modi e i luoghi delle avanguardie più storicizzate. Il progetto DVD è dunque una stanza assai rumorosa, dove con fare schizoide si affacciano tutti i protagonisti di un’epoca che seriamente rischiò di portare l’Italia su tutte le mappe internazionali. Si sarebbe potuto non andare oltre il DVD di Crollo nervoso, ma il desiderio e il piacere di confezionare un prodotto ancor più speciale hanno invece dato vita a "Tracce Magnetiche", compilazione su CD, curata da Federico Guglielmi, con sedici episodi opera di altrettanti gruppi del periodo 1982-1984: gruppi pressoché sconosciuti, ritiratisi senza aver pubblicato vinili a proprio nome e in due o tre casi rappresentati solo - cassette escluse - da un pezzo in una compilation. Ed è giusto sottolinearlo, se queste sedici formazioni fossero approdate a un album, un EP o un singolo non avrebbero di sicuro abbassato la media qualitativa della discografia del settore… nemmeno sotto il profilo della resa sonora, che qui è stata peraltro migliorata - rispetto ai nastri giacenti in archivio da almeno un quarto di secolo - con un accurato lavoro di restauro.

La scaletta
Frenetics - The Madman Talk
Vox Rei - Le ombre dei soldati
The End - Tears In My Eyes
Les Blusons noirs - The Scream
Illogico - Africani gemiti
Blaue Reiter - My Inner Thought
Polaroid - Vita immaginaria
Atelier Du Mal - Back To Taiwan
Sex! - A Sickness Called Distress
Ship Of Fools - Metal Box
Ideal Standard - Another Loser
Nadja - Possession
The Age - U.E.R.
Dark Ride - Apocalypse
Mono - From Planets And Satellites
T.v. Dance - Schneller Leben

Dam-Funk "Toeachizown"

Iniziamo dal personaggio, un improbabile incrocio visivo tra Afrika Bambaata e Rick James. E’ il nuovo in casa Stones Throw, una figura ibrida tra produttore e dj, intrattenitore e mastermind. La musica dell’uomo è un bollente crogiuolo di hip-hop ed electro, un suono che mette in scena i balli sfrenati del rap, attraverso una cultura digitale stimolante. Potrebbero fioccare paragoni anche ingombranti, ma per instradarvi potremmo suggerire un approccio che sta tra Prince – quello di 1999 ad esempio – ed i Newcleus di Brooklyn, con il bene placido degli uomini-macchina di Dusseldorf. I contenuti dei brani di Dam-Funk - a detta dello stesso autore – si focalizzano sulle relazioni, buone e cattive, un sunto poi della vita che scorre quotidianamente.

La musica del nostro, ancora una volta secondo le sue stesse parole, è un funk di taglio melodico, rispettoso di mostri sacri che animavano il dancefloor tra il finire degli anni ’70 e l’inizio del decennio successivo. Si fanno i nomi di Loose Ends, Kashif, Mtume e degli Slave di Steve Arrington.

La solida cultura hip-hop di Dam-Funk, si basa infatti sulla conoscenza di classici latin funk e soul jazz. Palesando comunque un interesse scientifico per le nuove tecniche di registrazione, il taglio dei brani è addirittura chirurgico, l’assemblaggio spaventoso. Toeachizown – che in slang sta appunto per To Each Is Own (ad ognuno il suo) – è il disco definitivo dopo una serie di mix ad hoc per quello che è considerato a Los Angeles l’ambasciatore del boogie-funk.. The new jack is now!

Dam-Funk sarà presto in Italia per due show:

14/10/2009 - Roma - Circolo Degli Artisti

18/10/2009 - Torino - Flora

Lisa Germano - Magic Neighbor

Lisa Germano torna con un nuovo album per la Young God di Michael Gira dal titolo Magic Neighbor. Lisa era letteralmente scomparsa dalle scene, iniziando a far serpeggiare più di un dubbio sul suo stato. Ma sarà ancora la musica a ristabilire gli equilibri, un linguaggio universale di cui la Germano si fa nuovamente interprete, grazie al suo riconosciuto stile da sirena neo-romantica. Lo stesso Gira che sembrava impensierito dalla condizione di una delle sue più acclamate artiste, si è ricreduto al momento dell’ascolto in anteprima del disco, che definisce senza alcun indugio il suo migliore. Si parla di una profondità inedita, di una prova vocale al di sopra delle righe. C’è ovviamente un velo di tristezza nella sua musica, ma anche un tono speranzoso che sembra farsi largo, pur mantenendo una dimensione privata, intima.

Gira azzarda addirittura un paragone con i commenti sonori dei lungometraggi della Disney, per quella dimensione a cavallo tra il sogno e la confusione apparente.

Nessuno sconvolgimento per quello che riguarda la musica della Germano, spesso ed immancabilmente costruita sul dualismo voce/piano. Preziosi anche gli arrangiamenti d’archi, che donano un tocco di classicità a questo Magic Neighbor, disco per molti versi ammaliante. Tra le più genuine ed ispirate cantautrici contemporanee, Lisa compie un ulteriore balzo in avanti nella definizione di uno stile proprio, invidiabile. Verrebbe voglia di dire: da qui all’eternità.

The Notwist - Sturm

Sin dai tempi dei Villane Of Savoonga i fratelli Acher hanno coltivato parallelamente ai Notwist una serie di progetti più imperniati sulla ricerca, per non dire del fascino esercitato dalle sirene dell’improvvisazione. Dischi che ereditando in buona misura la visionarietà del kraut rock portavano l’essenziale approccio chtarristico degli esordi altrove. Raggiunto uno status ed un rispetto invidiabile nei quartieri alti del rock indipendente internazionale- dopo il vecchio continente anche l’America si è inchinata al loro suono – i Notwist, in un’inedita inversione di marcia, tornano sulla strada della ricerca. Lo fanno con un album esclusivo pubblicato da Alien Transistor – vinile, per la gioia dei più incalliti audiofili – commento sonoro all’omonima pellicola del cineasta tedesco Hans-Christian Schmid. Storm – questo il titolo inglese – parla di crimini di guerra nell’ex-Jugoslavia del conflitto civile. Per accompagnare le drammatiche immagini i Notwist si adoperano per un commento sonoro molto particolare, in cui le ambientazioni sono intimiste, come si conviene ad un sottile thriller politico. Uno stato di ipnosi quello indotto dalla musica, grazie a strumenti estranei alla cultura manieristica del rock: xilofono, glockenspiel, fisarmonica ed un uso per nulla invadente dell’elettronica contribuiscono a disegnare un solido impianto per le immagini.

Tutte le musiche originali sono scritte e composte dai Notwist con la sola eccezione del brano Villa Kosa Version, concepito con Daniel Glatzel ed eseguito in combutta l’Andromeda Mega Express Orchestra. Un’esperienza inedita che arricchisce ulteriormente il bagaglio artistico dei nostri, non solo ispirati protagonisti indie, ma musicisti a tutto tondo a loro agio anche nelle situazioni più inedite.

22/09/09

Vivian Girls - Everything Goes Wrong

Il fenomeno è esploso, come una bomba ad orologeria, le Vivian Girls da Brooklyn, New York, hanno fatto tabula rasa ed hanno preso – come si dice in gergo americano – the world by storm. Il loro omonimo debutto, ristampato da In The Red lo scorso anno, è stata una delle rivelazioni assolute del circuito indie (oltre 15.000 copie vendute), grazie ad un approccio fresco e a tratti sorprendente. Mettendo in unico frullatore la velocità dei Ramones, le armonie dei gruppi femminili vocali dei 60 (Shangri-La’s, The Ronettes, etc.) ed un’estetica che oltre al garage-rock contemplasse la più gentile wave inglese, le nostre hanno forse creato l’ibrido indie-pop perfetto, calandosi in uno spazio-temporale tutto loro.

Un miracolo che ha conosciuto molti estimatori, dagli esteti inglesi del New Musical Express alla bibbia Pitchfork Media (che quest’anno ha anche curato un palco al festival catalano Primavera Sound, inserendo le Vivian Girls proprio tra gli headliners) passando per il prestigioso Spin. Le sorprese dell’esordio trovano conferma in un secondo album ancora più colorato, le cui tinte vagamente dark sembrano aprire ad interessanti scenari post-punk. Un disco più ragionato, dove cambia anche la durata dei brani in alcuni casi, segno di una scrittura più matura e di una perfezione strutturale guadagnata attraverso costanti tour. Il live è stata forse la piattaforma che ha lanciato definitivamente le ragazze, sistematicamente on the road – non sarà diverso questo 2009 come l’anno venturo – le Vivian Girls hanno consegnato le loro canzoni all’immortalità del momento, spiccando il volo tra le più originali proposte provenienti dall’underground americano. Il titolo Everything Goes Wrong è a questo punto solo un eufemismo.

Nuove ristampe per Betty Davis

Light in The Attic completa il programma di ristampe dedicato a Betty Davis. Ancora edizioni extra-lusso con booklet eccezionali, che attraverso curiosità e foto esclusive descrivono il percorso di una delle più grandi eroine nere dei seventies. Entrambi i dischi sono stati masterizzati dai nastri originali, mentre l’originale artwork è stato preservato grazie ad una stampa in digipack. Le note sono di due luminari della musica black, giornalisti e studiosi del settore come Oliver Wang (Soul Sides, che si occupa dell’inserto di Is It Love Or Desire) e John Ballon (una delle penne più note del magazine Wax Poetics ). Nasty Gal è il terzo album di Betty Davis. Uscito in origine nel 1975, rappresentò la prima uscita lunga per l’etichetta Island, dopo un promettente sette pollici. Il tiro è ancora eccezionale, distillato di iconoclasta furia rock e rovente soul music. Betty Mabry che sposò il trombettista Miles Davis nel 1968, per poi separarsene l’anno successivo dopo una burrascosa relazione, è stata a lungo una musa, capace di ispirare non solo uno dei più celebri jazzisti contemporanei, ma anche in grado di urlare al mondo intero il ruolo di indipendent woman, ben prima delle eroine punk e delle nipotine riot.

Un carriera fulminea la sua, con una manciata di album pubblicati a cavallo tra prima e seconda metà degli anni ’70. Betty – a cui viene anche accreditato un celebre flirt con il chitarrista di Seattle Jimi Hendrix – prendeva a piene mani dal funk-rock di scuola Sly & The Family Stone, per proiettare le sue piccanti liriche oltre la dimensione del puro intrattenimento.

Chanteuse e modella – frequento spesso le passerelle dopo lo split con Miles – Betty realizzò con Nasty Gal forse uno dei suoi album più aggressivi, una sorta di hard funk, che a ben vedere poteva rappresentare la risposta nera e femminea ai Black Oak Arkansas di Jim Dandy

Is It Love Or Desire del 1976 è in realtà un titolo meno celebrato nella discografia della nostra, non per questo un disco meno cruciale. L’album è stato inciso presso gli In The Country studios della Louisiana, distante da occhi indiscreti. Quello che sin dalle prime note si presentava come il lavoro più personale della Davis, per via di una rinnovata cifra stilistica che metteva da parte gli ardori del debutto per focalizzarsi su una forma canzone comunque ineccepibile, diverrà ben presto un disco fantasma. A causa di insanabili divergenze con la propria etichetta discografica – la Island – il quarto album di Betty rimarrà per sempre nei polverosi archivi della label. Ma spesso anche le chimere trovano la via più luminosa per riemergere. Ad oltre 30 anni dal suo concepimento il disco è finalmente disponibile per il grande pubblico.

Wild Angels - Nuova raccolta curata da Mary Anne Hobbs per Planet Mu


Terzo volume nell’acclamata serie curata da Mary Anne Hobbs per Radio 1. Wild Angels – questo il titolo della nuova raccolta a tema – è la piattaforma ideale per i talenti emergenti della musica ritmica d’oltre manica. Artisti che non intendono unicamente aggraziarsi i frequentatori del dancefloor, ma vogliono innovare profondamente il genere, seguendo linee irregolari che mettono in stretta comunione la musica black dei primordi con le moderne tecniche di assemblaggio tipiche del grime o del dubstep, preservando anche l’attitudine rivoluzionaria della musica hip-hop. Sono ibridi musicali esotici ma assolutamente futuristi quelli che ascolterete in questo generoso manifesto. La raccolta mette insieme una serie di hit underground con un numero importante di brani inediti ed esclusivi, facendo di quest’oggetto un acquisto immancabile non solo per gli iniziati, ma anche per i novizi. Dai talentuosi scozzesi Hudson Mohawke e Rustie agli Starkey, direttamente dalle strade di Philadelphia. Poi le devastanti combinazioni ritmiche di Mark Pritchard insieme ai fenomeni di prossima generazione come Teebs e Gemmy. Il titolo Wild Angels arriva direttamente da una battuta consumata dalla stessa Mary Anne Hobbs all’interno del suo show per BBC Radio1, in riferimento all’opera influente di Alice Coltrane all’apice della sua carriera. Una descrizione che di pari passo potrebbe essere applicata alla musica contenuta in questo volume, tanto che Mike Paradinas ed il cland della Planet Mu hanno così amato l’espressione da suggerirla come incipit della compilation


TRACKLISTING:
1. ?-Mark Pritchard
2. Spotted-Hudson Mohawke
3. Knock Knock-Mike Slott
4. Lhc-Brackles
5. Rainbow Rd-Gemmy
6. Discipline-Untold
7. Payroll-Tranqill [Paul White's Clean Dub]
8. Sleeping Bear Lament-Architeq [Take Remix]
9. Zig-Zag-Rustie
10. Red And Yellow Toys-Mono/Poly
11. We Should Light A Fire-Hyetal
12. Gutter Music V.I.P.-Starkey
13. Videotape-Darkstar
14. Esthian III-Floating Points
15. Of Low Count And Light Pocket-Sunken Foal
16. Wlta-Teebs
17. Ioio-Nosaj Thing
18. And Now We Wait-Legion Of Two

18/09/09

Beak


Può essere un beat motoriko, una ripresa prepotente delle fondamenta shoegaze (magari in un crescendo chitarristico che possa richiamare eroi moderni come i Mogwai) od anche un viaggio di sola andata nei funesti meandri del doom rock più sulfureo, quello dei tanto stimati Sunn O))). Non è una raccolta di musicisti emergenti che amano farsi le ossa con le musiche più estreme del pianeta rock. Parliamo dei Beak, gruppo con residenza a Bristol. Si presentano in trio e debuttano per Invada. Nascono nel gennaio del 2009 per volontà di tre noti polistrumentisti locali come Billy Fuller, Matt Williams e Geoff Barrow. Quest’ultimo è sicuramente la figura di spicco dell’intera faccenda, essendo il batterista e al tempo stesso uno dei principali compositori all’interno dei Portishead, oltre che colui che dirige artisticamente - con risultati mai scontati - la stessa etichetta Invada. Non male il ruolino di marcia del bassista Billy Fuller, che è stato a libro paga per grandi come Massive Attack e Robert Plant, come del resto quello di Matt Williams – alias Team Brick, prestate attenzione al suo poliedrico debutto sempre per Invada – abituato a fare tutto da solo, abile com’è nella programmazione sintetica e nell’approccio più propriamente elettrico. Di questo progetto Barrow dice: “è estremamente positivo creare musica in diverse condizioni, rispetto a quelle solite in cui si è usi lavorare”. E se cercavate una via trasversale al rock moderno, certo non potevate trovare di meglio, tanta è la carne messa al fuoco dai tre, che animano questo esordio con staffilate rumoriste e momenti di calma apparente, giocando il tutto sugli incastri strumentali e ricorrendo molto raramente ad una voce leader. Un disco che mette sul piatto tutte le sue attrattive, senza alcun timore reverenziale, il prodotto di menti che oseremo definire supreme, quanto meno nei rispettivi ambiti artistici.

Beak> Iron Acton - Recording Session from Mintonfilm on Vimeo.


17/09/09

Ascolta 'A Pox on the Pioneers' di Andrew Weatherall

da oggi per una settimana sul sito di Rolling Stone troverete in streaming integrale ed esclusivo il nuovo album di Andrew Weatherall "A Pox On The Pioneers"

“genio. incontrastato. genio dalle cui orme nella sabbia nascono fiori, e al cui passaggio si spandono profumi come d’incenso” (Rolling Stone, 3 stelle)

“in dieci canzoni “A Pox On The Pioneers” compendia tutto e sposta, alleggerendone la cupezza, la new wave di From The Double Gone Chapel dei Two Lone Swordsmen verso il rock. Benché non a quei livelli, questo disco è un classico” (Rumore, voto 8)

“è il lascito di un genio (incredibile: è il primo disco che firma con nome e cognome suoi) che trova volgare essere geniali e che ha sempre parteggiato per i somari piuttosto che per i primi della classe” (Mucchio, 3 stelle)

“…si può godere senz’altro della genuinità dell’insieme, si possono iniziare a perlustrare i chiaroscuri, lasciando scorrere senza pregiudizi il disco emergono dal lavoro artigianale i dettagli riusciti, le piccole qualità. senz’altro obbligatorio per i fan, per gli adepti della chiesa weatheralliana…” (Blow Up, voto 7)

“indietronica postmoderna nel debutto solista di AW, che mette insieme vent’anni di esperienza tra le piste da ballo e un secolo di rock’nroll con focus sulla new wave. All The Little Things” sintetizza quello che dovrebbero imparare le nuove generazioni” (PIG)

Pelican



Tornano i fuoriclasse del metallo moderno, guerrieri futuristi che brandiscono le loro chitarre come asce, trovando nuova accoglienza sotto il tetto di Southern Lord, dopo che la stessa ne aveva accolto l'ingresso in scuderia con un tonante Ep. "What We All Come To Need" è un'apocalittica colonna sonora di un domani non troppo distante, quasi in uno scenario desertico i Pelican rastrellano le ultime risorse del genere umano, per un quadro che vuol dire anche resistenza (in musica). Hard rock moderno che assume le forme di una solenne liturgia doom, per poi ripiegarsi tra le distese maglie di un post-rock mai timido. La forza del gruppo - al traguardo del quarto album - è tutta in epici brani strumentali, che sembrano offrire una lettura psichedelica e trasognata del più solido heavy metal. Con l'intervento del direttore artistico Greg Anderson - Sunn O))) - del sempre amico Aaron Turner degli Isis e di vecchie conoscenze di area post-core come Allen Epley (Shiner) e Ben Verellen (Helms Alee), i nostri realizzano un album portentoso ma sempre composto, ordinato nella sua eccelsa furia. Piacerà nella stessa misura agli assidui frequentatori del catalogo Hydra Head come ai supporters di Mogwai ed Explosions In The SKy. Heavy mental!

15/09/09

Le Loup



Le vie alla musica tradizionale Americana sono infinite, ce ne convinciamo ancora di più all’ascolto di "Family" di Le Loup, formazione che arriva da Baltimore, stato di Washington, e con il suo secondo disco fa già gridare al miracolo. Registrato quasi in pieno isolamento in un vecchio casale del Maryland l’album è un felice connubio di rock tribale, freak folk e ricerca timbrica. Un piede nella tradizione dunque ed un altro nella sperimentazione. In origine quasi un progetto solista per Sam Simkoff, Le Loup cresce a dismisura sino ad accogliere ben 5 membri nella band, capaci di apportare contributi in sede di scrittura e di confrontarsi anche con il quasi operistico aspetto vocale, una polifonia armonica, sostenuta anche da un bel tappeto percussivo. Appartati per meglio cogliere l’essenza e lo spirito delle proprie composizioni, prestando così fede ad un’estetica che oltre a tradursi in una musica dal sapore ancestrale contempla anche una forte etica indipendente, Le Loup abbracciano con "Family" tanto il pre-war folk quanto la musica degli Appalachi, aggiornando in maniera graduale l’idea di folk & roots, traghettandolo su note gentili, utilizzando anche in questo strumenti antichi e ricorrendo solo parzialmente ai vantaggi del moderno editing. Eppure – chi lo avrebbe mai detto – c’è anche un computer a recitare una parte importante nel processo, dato che Sam e Christian – i due maggiori songwriter – hanno in primis registrato dei suoni organici – raccolti appunto da strumenti spesso autocostruiti - per poi trattarli attraverso le macchine. In questo modo si ha l’opportunità di ascoltare dei brani fondati su complesse soluzioni, dove gli strumenti si sovrappongono in un caleidoscopio di sensazioni inedite. Questo è più di un indizio per cogliere la natura davvero orchestrale del disco, che sin dal titolo – Family – sembra decantare il ritorno ad un’esistenza bucolica ed alla condivisione di spazi comuni. Del resto la band è proprio un’estensione di questa filosofia. Una delle sorprese di questo scorcio di stagione Le Loup sanno esattamente quali corde toccare, mettendo su disco un tributo alla miglior tradizione roots, facendo peraltro salire in cattedra una magica vena psych-folk. Tra sperimentazione e rispetto delle proprie radici, questo è l’album pop ultraterreno che molti volevano ascoltare e mai avrebbero osato chiedere….

09/09/09

Brother Ali - Us


A conquistare è in primis la sua immagine da albino dall’aspetto marziano Brother Ali è uno dei migliori rapper americani in circolazione. Dopo aver creato una piccola sommossa con l’album del 2007 The Undisputed Truth, ritorna con Us, un disco ancor più ambizioso, sia a livello lirico che per gli sfarzosi arrangiamenti, che ancora una volta contemplano una bella fetta della cultura nera americana dei seventies. Disco molto intenso anche e soprattutto a livello umano, con Ali sempre in prima fila a raccontare le sue avventure, più o meno felici. Episodi in cui possiamo immedesimarci, pur abitando all’altro capo del mondo. Musicalmente questo è un disco coraggioso, in cui l’MC recita ovviamente la parte del leone, supportato in maniera straordinaria dal lavoro del beatmaker Ant, una delle teste pensanti di Atmosphere, formazione con cui Ali condivide più di un pensiero. Si fa ricorso con una certa insistenza a campioni blues e soul, riservando una certa importanza alla natura dell’originale, già messa in scena col disco precedente. La novità è semmai nelle parti suonate, laddove lo strumento reale va a sposarsi col beat meccanico di una drum machine, per un effetto vintage che conquista. Con l’apparizione speciale di un mostro sacro quale Chuck D ed i featuring di Freeway, Joell Ortiz e Stokley Williams, Us può ambire con una certa serenità alla palma di uno dei migliori album hip-hop dell’anno. L’intrattenimento ed il messaggio – viene voglia di citare l’edutainment di sua maestà KRS-One – vanno a braccetto, col fine unico di elevare la cultura di strada a qualcosa di realmente immortale e fruibile anche ad un pubblico meno specializzato.


Il Ritorno di Jello Biafra


Fa una certa impressione rivederlo in giro. Almeno con quel piglio, dopo le mille battaglie legali e l’orologio biologico che – solennemente – continua a scandirne le tappe. Vi diciamo subito che il nuovo parto di Jello Biafra è uno dei suoi migliori dai tempi di Last Scream Of The Misisng Neighbors, disco realizzato con i punk canadesi D.O.A. Con la sigla Jello Biafra And The Guantanamo School Of Medicine – sempre corrosiva la sua ironia – l’ex voce dei Dead Kennedys mette in piedi uno dei suoi progetti più ambiziosi, chiamando a sè vecchie e nuove conoscenze della scena della Bay Area, vecchi compagni di etichetta (il disco è prodotto dalla sua Alternative Tentacles) ed alcune star del rock alternativo degli anni ’90. In realtà questa è una band a tutti gli effetti, un’idea che non si esaurisce alla sola esperienza da studio, ma presto si estenderà nella più pratica e dinamica dimensione live. La squadra è sensazionale: c’è il bassista dei Faith No More Billy Gould, il chitarrista dei Victims Family Ralph Spight ed il batterista John Weiss, noto picchiatore di pelli sempre con domicilio a San Francisco. Il gruppo si amplia con l’ingresso del secondo chitarrista Kimo Ball, dando un piglio ancora più solido ed aggressivo alla propria musica. C’è infatti un abisso dal pur meritevole connubio con i grandi del grunge di Seattle (Krist Novoselic dei Nirvana e Kim Thayl dei Soundgarden) che convenivano per la realizzazione di The No WTO Combo. Guantanamo School Of Medicine riprendono il suono dei Dead Kennedys di Frankenchrist e Bedtime For Democracy, unendo ad esso forti dosi di primordiale Detroit punk, surf music e percussioni metalliche. Il risultato stende al tappeto! Il gruppo dal vivo vede l’ingresso di un altro gigante al basso: Andrew Weiss (che sostituisce Gould impegnato nel tour reunion coi Faith No More) già produttore artistico dei Ween, nonché membro fondatore della Rollins Band. The myth is real…let’s eat!
Il Disco esce in Europa a fine Ottobre