30/09/13

Miracle, perfezione cosmic-pop




'E’ stato un periodo di grande instabilità. ‘Mercury’ ne è il barometro. Una rassegna di brani che parlano di innocenza ed esperienza, morte e rinascita. La materia grigia nel mezzo, il Natale,   la nostalgia, le macchine del tempo, le stimmate'.L’album di debutto dei Miracle esce per l’inglese Planet Mu ed è una collaborazione tra due artisti con una ricca storia musicale, un background stilistico che non assocereste immediatamente al risultato finale scaturito: Mercury. Daniel O'Sullivan ha suonato e cantato in bands come Ulver, Mothlite, Grumblin’ Fur e Guapo, mentre Steve Moore ha registrato con gli Zombi – pesantemente influenzati dall’immaginario delle colonne sonore italiane horror e dintorni - ed in altre vesti per la label techno di Colonia Kompakt e con lo pseudonimo L.I.E.S.


il primo incontro risale al tour  Guapo/Zombi consumatosi nel 2006. Concretamente i due inizieranno a lavorare al primo album solo nel 2010, rispettando l’idea comune di un progetto strumentale dai chiari rimandi dance. Il concept iniziale subisce però un’accelerazione quando Daniel inizia ad aggiungere delle parti vocali, veicolando dunque i Miracle in altra direzione, all’inseguimento di una forma canzone spaziale e soavemente pop.

Ci sono sicuramente dei tratti cosmici in questa impresa, ma l’influenza forse più subliminale è quella del classico film di Joel Schumacher del 1987 'The Lost Boys'. Ci sono power ballads di grande respiro che potrebbero addirittura far pensare alla musica FM americana (non scherziamo citando gente come Survivor, Toto o Styx) unitamente a vere e proprie cavalcate synth che raccontano tutto l’amore di Steve Moore non solo per I Goblin e Fabio Frizzi, ma anche per la primissima italo disco e le propaggini più elettroniche del cosiddetto kraut rock. E poi quei, testi, malinconici ed occulti allo stesso tempo,  un tributo esistenziale.
Un disco dalla lunga gestazione, quasi diviso in paragrafi dal mood unico. Il collage inizia con i toni devozionali di  'Good Love', un cantico attraverso il vetro. Il primo picco arriva con 'Automatic And Visible' davvero un’essenziale vision synth funk, mentre 'Falling Into The Night' è un singolo di energico pop anni ’80 con un riff di tastiere scippato direttamente all’estetica MTV. Paradossalmente il primo singolo estratto è la title-track 'Mercury', con i suoi accordi meravigliosi ed una serie di immagini fluorescenti che arrivano direttamente dalla voce di Daniel. Le radici – solide -  del gruppo sono poi evidenti nella lunga distesa quasi strumentale di ‘Organon’ un vero e proprio marchingegno kosmische, che dice di come l’assetto dei due rimanga piuttosto cervellotico. Una delle sorprese di questo autunno.







La meta-dance di Laurel Halo




Disco dell’anno per The Wire nel 2012, ‘Quarantine’ è stato uno dei debutti più dirompenti della nuova elettronica, un disco che ha in breve eletto la sua protagonista a paladina delle nuove tendenze ritmiche. Un affare di linguaggi inediti e nuove declinazioni, un percorso che ha permesso a Laurel Halo di divenire in breve un punto di riferimento per chi si muove oltre la frontiera del digitale. Originaria di Ann Arbor, Michigan, la nostra si sposta nel 2009 a New York,  terreno fertile per le sue indagini sonore. Alla cui base c’è una sorta di dualismo esteso. Una musica che si fa forte delle sue contraddizioni, la produttrice  ha cercato la spiritualità nell’ inorganico, lo spazio nella claustrofobia, la speranza nella disperazione. Circostanze che hanno permesso alla sua musica di plasmarsi in maniera autonoma, cercando traiettorie per l’appunto inusuali, soprattutto dal punto di vista tematico.

'Chance Of Rain' è il suo nuovo esperimento da studio, ancora sotto l’egida Hyperdub, l’etichetta inglese che dopo aver formato le coscienze a suon di dubstep, ha necessariamente iniziato a guardarsi intorno alla ricerca di nuovi stimoli. Nel rispetto della sua filosofia Laurel ci tiene a scandagliare nei meandri più astrusi della musica dance, liberando la sua vena avant e concedendosi ad avvolgenti mutazioni ambient. Una musica che arriva direttamente dal futuro, mai così prossimo. Una narrativa sonora che stupisce per la sua profonda comunicatività, tessiture ritmiche che si fondono con uno spirito minimalista, dando sovente sfogo ad una visione quasi lisergica.   Disco cerebrale che preferisce però la fisicità all’astrattismo, anche quando forme embrionali di musica techno sembrano emergere da profondità acquatica, ricordandoci magari eroi del Detroit Sound come i Drexciya.

Impressionante poi la grana dei suoni e le fonti cui attinge Laurel, ogni campione o field recordings è frutto di una sua primordiale elaborazione. Ecco perché anche gli episodi più ‘ballabili’ di 'Chance Of Rain' vi stupiranno nelle loro sorprendenti impennate o nella scelta di passaggi affatto tradizionali.La copertina dell’ album è opera dei suo padre, un rinomato artista visivo il cui obiettivo è stato spesso quello di rappresentare graficamente gli scenari industriali del Michigan e del Rust Belt. L’ artwork in questo caso va fatto risalire ai primi ’70 e riflette in pieno il tono psichedelico, storto ma comunque speranzoso del disco. Masterizzato tra l’altro al celebre Dubplates and Mastering (casa della Basic Channel) di Berlino dallo stimato ingegnere del suono Rashad Becker.





Tim Hecker - Virgins




‘Virgins’ è stato registrato durante tre diverse sessioni a cavallo del 2012, le location interessate  Reykjavik, Montreal e Seattle. L’utilizzo di un più largo ensemble è stato circoscritto alle uniche  esibizioni dal vivo. In termini di contenuti si tratta di un lavoro più contaminato e dalle tendenze  percussive. Nonostante l’astrazione di fondo, le composizioni assumono ora un carattere più definito, rispettando i criteri di un intimo lavoro da studio. Per le registrazioni sono stati impiegati fiati, piano e sintetizzatori, confermando il valore squisitamente analogico dell’opera.

Tim Hecker nel consolidare il suo sodalizio con Kranky, ci ricorda come la definizione di musicista elettronico sia in realtà distante  dalla sua filosofia. Il valore quasi ecumenico delle sue composizioni sposa semmai lo spirito della musica sacra e minimalista. Ma non c’è un predilezione alla 'fake church music', qui si lavora alla ricostruzione di idee al rallentatore, mantenendo l’aspetto ritualistico del suono e delle celebrazioni nella cripta. E’ una musica dal forte potenziale mistificatorio, una nuova sacralità che ci dice dello sviluppo verticale del  lavoro di Hecker. Vengono suggerite memorie illusorie di jam lisergiche consumate in qualche distante comune, nel rispetto della cerchia Amon Duul/Popol Vuh. Tim Hecker confida nel potere curativo della musica, un bonario narcotico, dalle estese funzioni terapeutiche. Mixato da Valgeir Sigurðsson e Tim Hecker e con l’ulteriore assistenza tecnica di Randall Dunn e Ben Frost, ‘Virgins’ si propone sin dora come le opere magne di questo 2013.





I fiordi nella poetica di Arve Henriksen





Con ‘Places Of Worship’ Arve Henriksen compie un definitivo balzo in avanti, assicurandosi un posto di tutto rispetto nella categoria dei pesi massimi dei musicisti contemporanei. La continuità con cui ha sostenuto le sue iniziative soliste – spesso foraggiate dallo storico e prestigioso marchio ECM -  ed il lavoro in gruppo con i Supersilent, ne hanno fatto un musicista incredibile nel circuito dell’avanguardia internazionale. Il trombettista norvegese continua ad abbracciare con questo lavoro una filosofia tipicamente nordica, una scrittura ed un approccio che non prescindono dalla territorialità, dando grande respiro e credibilità alla sua ricerca. Henriksen si muove con passo felpato tra gli affascinanti scenari domestici mai rinunciando all’idea di modernità che informa comunque la società del 21simo secolo. Fotografie di quartieri immobili, case abbandonate che con la loro sacralità rappresentano una contraddizione in termini allo sfrenato sviluppo tecnologico. Un confronto che nella musica del trombettista è vitale, dando corpo ad una mutazione elettronica che mai prescinde dall’aspetto umano.

E’ come se le ombre di questi luoghi si riflettessero all’interno del disco, trasferendo la geografia in note. Un viaggiatore Harve, che mette la sua esperienza al servizio della musica. Le immagini dei porti nord-africani in ‘Alhambra’ ed il soffio del vento di scirocco gallico in ‘Le Cimitière Marin’, non sono cartoline posticce, bensì riflessioni a tutto tondo di un artista animato da stimoli epidermici. Con la presenza di un virtuoso delle tecniche estese come Jan Bang – altro musicista norvegese dal curriculum invidiabile con collaborazioni di lusso con David Sylvian, Nils Petter Molvær e Bugge Wesseltoft  - ‘Places Of Worship’ è un disco compiuto ed inarrivabile allo stesso tempo. Una classicità che si bagna nel moderno, portando ai massimi vertici la ricerca stilistica di Henriksen, un musicista che si insinua nel solco del Miles Davis di ‘Aura’ e della Fourth World exotica di Jon Hassell. Jazz futuribile dall’impianto storico in altre parole.


Rovo and System 7, conenssione cosmica




L’incontro, la definizione di uno stile. Un’influenza che si materializza nell’abbraccio con un mito di gioventù. Due mondi a confronto: l’estremo oriente dei Rovo e la sorniona brillantezza inglese. Con i Boredoms che guardano insistentemente alla musica cosmica tedesca, un gruppo che decide invece di viaggiare alla volta del Regno Unito, alla ricerca di mistici festival ed happenings. Il confronto regge, perché i Rovo del chitarrista Seiichi Yamamoto nascono proprio da una costola dei Boredoms. Ed ovviante i System 7 sono lo pseudonimo con cui l’ex-Gong Steve Hillage  da anni porta avanti le sue investigazioni dance-spaziali. ‘Phoenix Rising’ che esce su G-Wave – la stessa etichetta che ci aveva riconsegnato l’ennesima line-up dei Gong con l’ottimo  ‘2032’ – è un vigoroso match musicale.

Una formazione che prevede due batterie, il prezioso contributo ai sintetizzatori di Miquette Giraudy ed un uso francamente fantasiosi del violino elettrico che rimanda ai giorni di fuoco della Mahavishnu Orchestra. Un sospetto ? Tutt’altro, ‘Meeting Of The Spirits’ di John McLaughlin in una versione opportunamente spacey è il terzo brano in scaletta. Un disco meraviglioso, una sincronizzazione che nemmeno il miglior esteta avrebbe potuto immaginare. La fenice che si innalza è un momento di pura passionalità, un’immagine pura che rompe con le rigide strutture del rock letargico, adoperandosi nei campi più spontanei dell’improvvisazione tematica. Un progetto che ha già avuto un suo corrispettivo live, dove tutti i sogni comuni divengono trampolino di lancio per un’esperienza totalizzante.




Lo spazio oltre dei God Is An Astronaut




‘Origins’ per Rocket Girl, è il settimo album per la formazione irlandese, considerata da molti la più logica antagonista a realtà fortunate ed affermate come Mogwai ed Explosions In The Sky. La formazione si e' recentemente allargata a quattro elementi, con l’ingresso decisivo di di Pat O'Donnell dei Fountainhead. Il suono cambia di conseguenza, con impercettibili aperture vocali che prevedono una nuova forma canzone. Continua a distinguersi il gruppo per gli innumerevoli cambi d' umore e per la capacità – questa una consuetudine - di attraversare fasi tempestose e momenti di quiete. Nei momenti di massima tensione elettrica il paragone più prossimo pare essere con gli Iisis, mentre nelle sezioni più distese fa capolino l' innata passione per il dream pop e l' elettro wave, come a dire un universo stilistico sterminato.  a farla da padrone. ancora una volta un trionfo.

Pronti a sbarcare in Italia – due date ad ottobre a Milano e Roma – con tutti gli onori della cronaca, i God Is An Astronaut sono l’archetipo del post-rock contemporaneo. In loro vive una notturna dolcezza, con chitarre che sanno essere liquide ed heavy allo stesso tempo, pianoforti e synth a creare tappeti cinematici ed un’atmosfera sempre e comunque avvolgente. Un’epica che si traduce in composizioni distese, versatili, dove gli arrangiamenti rasentano la perfezione. In attesa di imbattersi in quello spettacolo live che con giochi di luci, video e altri elementi multimediali dovrebbe lasciare estasiati.