Dopo oltre due anni spesi in giro per il mondo in supporto al loro album d'esordio, i Land Of Talk fanno ritorno nella loro città natale di Montreal, Canada, per riordinare le idee (nel frattempo si sono avvicendati nuovi volti all'interno del gruppo) e dare un seguito all'iridata opera prima. Il primo obiettivo della leader Elizabeth Powell è stato rispettato in pieno: realizzare un manipolo di canzoni, poggiando su mezzi volutamente economici, tanto per allontanare la poco sobria tendenza dell'indie-chic, che vuole produzioni magistrali, laccate e pompose. Con la complicità del bassista Chris McCarron e del batterista Andrew Barr (altrove attivo con i tradizionalisti The Slip), la band si ritira in un vecchio edificio convertito a chiesa, proprio fuori Montreal, per registare quelle nove canzoni che costituiranno il nucleo del nuovo album. Per raggiungere l'obiettivo è indispensabile l'intervento dell'amico e produttore Justin Vernon (Bon Iver). La decima ed ultima composizione – "Troubled" – è stata invece registrata ad Eau Claire, Wisconsin, presso l'abitazione dei genitori dello stesso Vernon.
Questo secondo disco è inteso come un'ideale continuazione della 'conversazione interna' che la Powell ha abbracciato sin dalla più tenera età, quando a soli 14 anni, ancora con una voce ben poco educata, provava a lanciare le sue piccole invettive nei confronti dle mondo esterno. Cosa attendersi da questo nuovo album dunque? Ancora furtive puntate nel mondo dell'indie-pop meno ecumenizzato, con strappi e dissonanze che spesso tradiscono la nobile arte del rumore cui i nostri sono segretamente immolati. Canzoni esposte comunque con una sincerità d'intenti impeccabile, canzoni definitivamente oneste. Come ombre ondivaghe di soul music che spesso si incuneano tra le righe, quasi a fornire un'altra versione dei fatti. Perchè è forse questa la più grossa novità. L'apertura. Come quei palesi rimandi all'alternative-country (di cui Jeff Tweedy dei Wilco può considerarsi in buona parte responsabile) che puntellano il disco. "Some Are Lakes", che esce anche questo per One Little Indian, è un disco nudo, disarmante, la Powell è una nuova discreta ma affascinante eroina dell'indie-rock nordamericano, celata dietro a storie che hanno più di una movenza personale. C'è l'ispirazione dei grandi momenti e questo dialogo non sarà mai isolato.
Questo secondo disco è inteso come un'ideale continuazione della 'conversazione interna' che la Powell ha abbracciato sin dalla più tenera età, quando a soli 14 anni, ancora con una voce ben poco educata, provava a lanciare le sue piccole invettive nei confronti dle mondo esterno. Cosa attendersi da questo nuovo album dunque? Ancora furtive puntate nel mondo dell'indie-pop meno ecumenizzato, con strappi e dissonanze che spesso tradiscono la nobile arte del rumore cui i nostri sono segretamente immolati. Canzoni esposte comunque con una sincerità d'intenti impeccabile, canzoni definitivamente oneste. Come ombre ondivaghe di soul music che spesso si incuneano tra le righe, quasi a fornire un'altra versione dei fatti. Perchè è forse questa la più grossa novità. L'apertura. Come quei palesi rimandi all'alternative-country (di cui Jeff Tweedy dei Wilco può considerarsi in buona parte responsabile) che puntellano il disco. "Some Are Lakes", che esce anche questo per One Little Indian, è un disco nudo, disarmante, la Powell è una nuova discreta ma affascinante eroina dell'indie-rock nordamericano, celata dietro a storie che hanno più di una movenza personale. C'è l'ispirazione dei grandi momenti e questo dialogo non sarà mai isolato.
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