28/02/13

Baba Sissoko ed il 'sentito' dialogo con la madre





Baba et sa maman rappresenta molto più che un disco di musica maliana tradizionale. Innanzituto è un omaggio alla storia e alle radici familiari: nella fattispecie, quelle di un grande griot, maestro della parola, figlio e nipote di coloro che per mezzo secolo sono stati a capo di una casta del tutto speciale in Mali, tanto temuta quanto venerata. Ma è soprattutto un omaggio alla madre, con tutte le accezioni allegoriche che questa figura porta con sé nella secolare tradizione mandingo: «La natura ha dato forza alle donne, che sono come un altro dio sulla terra per noi figli» cantava diversi anni fa in “Bimoko”. «La mamma è come la terra, come la foresta, come il sale; la mamma è come la luna piena nella notte.» 

Sono stati necessari diversi anni per mettere in piedi questa magia. Da un lato la distanza geografica (Baba si è trasferito quindici anni fa in Italia), dall’altro la mistica dei sentimenti, che nei grandi progetti, segue direttrici temporali senza regole né raziocinio. Scrive lo stesso Baba nelle note interne del disco: «Non avevo fretta, perché sono un tipo paziente, ed ho imparato a casa, attraverso la mia educazione, che quando ami e senti davvero qualcosa hai tutto il tempo per realizzarlo.» L’occasione ha preso forma durante l’ultimo soggiorno a Bamako. Lì, presso i mitici studi Bogolan, ha chiamato a raccolta il nipote Djime - come lui virtuoso del liuto tradizionale ngoni, da anni al servizio di personalità come Toumani Diabate e Afel Bocoum - e il meraviglioso Zoumana Tereta, il più grande suonatore vivente del violino monocorde soukou, già al fianco di altri giganti maliani come Oumou Sangare e Bassekou Kouyate.

Antiche melodie mandingo, solenni, tetragone, spirituali, le stesse che Baba sentiva cantare nei suoi ricordi di bambino, tornano finalmente a nuova vita attraverso arrangiamenti ridotti all’essenziale; pura magia acustica radicale, senza sovraincisioni o trick da studio. Solo la voce dolce e austera di Djeli Mah Damba Koroba, accompagnata dagli ancestrali cordofoni bambara e le percussioni tradizionali, il tutto sotto la direzione dell’unico e inimitabile maestro Baba Sissoko.

Un disco speciale che, attraverso i suoni della memoria, utilizza un linguaggio la cui percezione ci appare sin da subito comprensibile e familiare. A prescindere dalle differenze di luogo, ceto e cultura. «È grazie alla mia famiglia che ho imparato cosa significa rispetto. E quando si capisce cosa significhi davvero rispetto, si entra in possesso di una chiave che è in grado di aprire le porte del mondo.»   





22/02/13

I Wire rimodellano materiale d'archivio





Nella primavera del 2012 il piano dei  Wire è stato quello di revisionare alcune composizioni risalenti al 1979 ed al 1980. Materiali che se non fosse stato per alcune timide apparizioni dal vivo, sarebbero irrimediabilmente caduti nel dimenticatoio. E’ stata una stagione fantastica, la più creativa per il gruppo inglese, che di lì a poco avrebbe conosciuto però il primo split ufficiale. Una creatività roboante la loro, una stagione fatata quella. Il concetto per il nuovo album nasce proprio dalla necessità di recuperare quelle bozze, una dipartita dal concetto di nuova composizione.


Il gruppo si reca in studio ribadendo la formazione a quattro; ai membri originari Colin Newman, Graham Lewis e Robert Grey si unisce il nuovo chitarrista Matthew Simms, che già in diverse occasioni dal vivo non ha fatto rimpiangere il dimissionario Bruce Gilbert. Le idee sono ovviamente destinate ad esser rivoluzionate in corso d’opera, ecco perché quel materiale custodito gelosamente diviene ora qualcosa di completamente inedito.


‘Love Bends’ affonda in quegli anni ’80 in maniera rauca, rispettando però la modernità della canzone pop. Brani che si trasformano in avvincenti numeri inediti come ‘& Much Besides’, che diviene un brano da sei minuti dalle melodie oniriche. La scrittura di Colin Newman è così votata ad uno sconvolgimento dall’interno, dove i temi passati divengono terreno fertile per nuove avventurose sortite. Ricorrono tutti gli aspetti cari al loro approccio: gli stop & go, i balzi umorali ed i cambi drastici di volume. Un’attitudine confortata anche da episodi come ‘Adore Your Island’ che affina l’esperienza post-punk attraverso una scrittura quasi progressive. Gioco dei contrasti che da sempre è stato il fulcro dei Wire, uno dei gruppi più intelligenti mai partoriti dalla terra d’Albione.




L'approccio multiforme al sax di Colin Stetson





Dopo l’acclamata pubblicazione di New History Warfare Vol. 2: Judges – sempre per etichetta Constellation – il nome di Colin Stetson ha iniziato a girare più insistentemente non solo nei circoli avant, ma anche in quell’universo indie popolato da musicisti comunque coraggiosi e pronti al confronto. Da sempre coi piedi in due staffe, Colin si è dimostrato tra i più autentici eredi della filosofia musicale di Anthony Braxton, utilizzando il suo sax baritono in maniera creativa, ricorrendo spesso all’utilizzo della polifonia, in modo da trasformare una prova in solo in un’orchestrazione molto più grintosa ed esaustiva.

Avendo associato il suo nome a quello di Laurie Anderson, Arcade Fire e Bon Iver, Colin si è ricavato uno spazio vitale anche nell’area del pop d’autore, portando a termine fruttuose collaborazioni anche nell’ottica delle sue produzioni soliste. Se nell’album precedente erano la stessa Laurie Anderson e My Brightest Diamond ad affacciarsi con personalità, in questo New History Warfare Vol. 3: To See More Light l’unico ospite è Justin Vernon/Bon Iver, presente in 4 tracce del disco. Registrato dal vivo in presa diretta utilizzando numerosi microfoni posizionati in maniera strategica, l’album gode ancora della prodigiosa produzione di una affermato ‘tecnico’ come Ben Frost.

Il brano centrale attorno a cui si snoda l’intera opera è la composizione di 15 minuti a titolo "To See More Light". Si tratta in assoluto del brano più lungo e possibilmente più heavy registrato da Stetson: un tour de force in cui le tecniche estese prendono il sopravvento, dagli arpeggio ostinati alla respirazione circolare, attraverso vocalizzi accentuati attraverso la stessa ancia. Tradotto in altri termini, questo sembra il tributo del musicista canadese ad una forma di metal estremo. Un aspetto determinante a quanto pare nel completamento del disco, se è vero che la furia quasi hardcore di "Brute" (con le spaventose urla di Justin Vernon in sottofondo) e l’impossibile grindcore ambientale di  "Hunted" vanno ad incidere proprio in quella direzione. Altrove torna lo spirito minimale dell’artista, con aperture quasi soulful, come nell’opener "And In Truth" (dove le armonie vocali di Vernon sono immediatamente riconoscibili), nella cover di un gospel a firma Washington Phillips "What Are They Doing In Heaven Today" e in quella  "Who The Waves Are Roaring For" che per assurdo sarebbe potuta entrare nel repertorio proprio di Bon Iver.

Una di quelle conferme attese, lo specchio di un musicista che messo da parte ogni virtuosismo spinge ad un rinnovamento generazionale, che sicuramente investirà con grande forza anche la critica jazz più abbottonata.



The Men, new day rising!





Con il loro quarto album a titolo ‘New Moon’, The Men sono orgogliosi di presentare il lavoro più intenso e personale in carriera. Mai contenti rispetto ai metodi di registrazione, i ragazzi abbandonano la grande città ad inizio 2012 per recarsi a Big Indian, stato di New York, al fine di trasformare un remoto casolare in un attrezzato studio casalingo. Potendo contare su un invidiabile scenario naturale – che ogni mattina gli consentiva di osservare le vicine catene montuose – il gruppo si faceva assorbire totalmente dall’ambiente circostante, per scrivere in maniera libera e dedicata.

Lo studio diventa un’incubatrice per pezzi scheletrici, che prendono progressivamente forma. Ci sono le due chitarre di Nick Chiericozzi e Mark Perro e la batteria di Rich Samis a saldare i ranghi. Il ruolo di bassista è invece coperto dall’amico e produttore Ben Greenberg (Pygmy Shrews, Hubble, Zs), che in realtà avrà un ruolo affatto trascurabile in fase compositiva.
 
Non esiste il frontman di riferimento per The Men, situazione unica che consente una certa fluidità nei rispettivi ruoli. L’intercambiabilità musicale è l’altra freccia al loro arco, tanto che spesso e volentieri si esce dalla logica del dissonante post-punk, non fosse altro per la presenza di un pianoforte, di un mandolino, di un’ armonica o di una vocalità molto soulful che coinvolge tutti gli elementi del gruppo. Con ‘New Moon’ si celebra un abbandono quasi spirituale, dove non c’è però spazio per la nostalgia, tanto che la finalità di The Men è quella di proiettarsi nello spazi-tempo, guardando sempre fiduciosi al futuro. Nelle pieghe del loro suono si scorgono riferimenti a tradizioni emblematiche della scena underground americana, dal suono aggressivo della motor city Detroit al rock’n’roll di Nashville, passando per le numerose profezie del dopo hardcore, dalla costa orientale a quella occidentale. Connubio di idee e muscoli, senza però la sensazione onirica del deja vu.



Endless Boogie, del rock infinito





Qualche giorno i fa gli Endless Boogie hanno presentato il loro nuovo album ‘Long Island’ – il terzo per la cronaca, ancora fuori per No Quarter - alla popolazione newyorkese, dividendo lo stesso palco di Arbouretum ed Hans Chew. In Inghilterra – dove la critica sa essere spesso morigerata – c’è da segnalare invece lo slancio della piccola bibbia Mojo, che oltre ad intervistare la band ha gridato al piccolo miracolo, dando al disco 8 punti su 10. Uno score affatto trascurabile, se si pensa ad una formazione che in tutto e per tutto impersona l’estetica del rocker americano! Detto ciò bisogna entrare nel vortice di questo ‘Long Island’ , a quanto pare un cocktail davvero stordente. Gli Endless Boogie piuttosto che puntare all’impatto frontale, tendono a lavorare gli ascoltatori ai fianchi.

La loro è una sorta di gentile metal machine musik per avvezzi ragazzi di provincia, la sintesi di quanto di meglio prodotto in ambito hard, blues e southern. L’approccio dei cinque non conosce mezzi termini, scatti nervosi diluiti sulla lunga distanza ed una concezione del rock duro che in qualche misura sembra imparentata con il minimalismo, seppur distante da qualsivoglia tirata intellettuale. Anti-eroi per destinazione, gli Endless Boogie potrebbero rappresentare la versione più proletaria (e ricca di anabolizzanti aggiungerei) degli Oneida, non fosse altro per il fascino indotto della ripetizione. Dagli Ac/Dc agli Zz Top, dagli Allman Brothers ai Groundhogs, i riferimenti dei nostri sono solidi, ma spesso sfuggono ad ogni più ovvia catalogazione. ‘Long Island’ è il luogo in cui perdersi, in cui tornare a venerare il dio riff, una profezia su come sarà il rock nel futuro. Impietoso e straziante allo stesso tempo.   





Nel vortice della (nuova) psichedelia inglese





Da diverso tempo a questa parte il quintetto di Leeds meglio noto come Hookworms ha terrorizzato club e piccole venue nell’Inghilterra del nord, non certo attraverso l’istrionismo o qualche banale gioco di prestigio, bensì grazie alle proprie invenzioni soniche e ad una spiccata emotività.
 
Aprendo i concerti di spiriti affini quali Wooden Shjips, Sun Araw e Peaking Lights nel corso delle loro visite in terra d’Albione, il gruppo ha dato dimostrazione di un abbandono quasi totale, reso in maniera credibile da una musica sferzante, per definizione ripetitiva. Lisergica nei contenuti, ma distante dal bieco escapismo del flower-power. La psichedelia per gli Hookworms è una forma mentis, come attestato dai loro catartici concerti. Un’altra caratteristica confortante è l’utilizzo di sigle per i loro nomi e cognomi, nessun esibizionismo questo è lo slogan. Un anonimato che focalizza tutte le attenzioni su questo magma sonoro che fa di ‘Pearl Mystic’, un’ iniezione di fiducia per tutti i seguaci del drone rock e delle musica ad alto contenuto stupefacente.

Ad osservare l’artwork che accompagna ‘Pearl Mystic’ si può assaporare un certo misticismo, che si ripercuote in maniera sublime su di una musica che rifiuta il suo aspetto più bucolico, andando invece a puntare il dito su alcune informazioni sistematiche che invadono i nostri pensieri. Musica per menti espanse qualcuno scriverebbe, del resto siamo nel regno del remoto viaggiare. Pensiamo così agli Hookworms come a discendenti di quella lunga dinastia che parte dagli Hawkwind di ‘Space Ritual’ si affaccia dalle parti dell’etichetta Woronzow (la label di Bevis Frond) e tocca infine le propaggine più voluttuose di Loop e Spacemen 3.

Ecco, quasi dei figli d’arte i cinque di Leeds, consci della propria eredità stilistica e vogliosi di dare un seguito ad un sentire decano che ha attraversato i circuiti indipendenti e festivalieri inglesi. Il disco è stato registrato presso il personale Suburban Studios di uno dei componenti – tale MJ -  luogo che peraltro ha ospitato di recente Mazes (Fat Cat), Eagulls e Spectrals. Occhio e croce Julian Cope se ne dovrebbe innamorare.



21/02/13

Sensuale poesia dalla norvegese Jenny Hval





C’è sempre un riferimento deciso alla sfera sessuale nella musica e – più in generale – nell’opera di Jenny Hval. Se con il precedente lavoro per la norvegese Rune Grammofon erano letteralmente le viscere al centro della sua disanima lirico/concettuale, con ‘Innocence Is Kinky’ si parla di una innocenza per l’appunto depravata, bizzarra. Gioco degli eccessi che ben si confà alla storia di questa artista nordica, nata ad Oslo l’11 di luglio del 1980. Entrata in punta di piedi nell’universo del music biz con la formazione Rockettothesky , si è poi conquistata una credibilità in veste di autrice solista, integrando alle sue esperienze nell’universo della musica indipendente un lavoro parallelo nel mondo dell’arte contemporanea.

Con la produzione e la direzione artistica di John Parish –  figura spesso associata all’impareggiabile Pj Harvey – ‘Innocence Is Kinky’ pone al centro del suo corpo musicale la vocalità estesa della Hval, moderna sirena che abbraccia tutte le possibili ipotesi del cantautorato avant. Registrato a Bristol, il disco conta peraltro su descrittivi arrangiamenti d’archi – Ole-Henrik Moe (violino, viola, sega musicale) e Kari Ronnekleiv (violino) – che amplificano i toni epici di un lavoro ammaliante, stuzzicante oltre misura. Musica da camera e sensibilità elettro-acustica comportano una sospensione virtuale, sulla quale si innesta la voce della Hval, strumento virtuoso che segna il passo di un lavoro complesso, smarcato dalle logiche di mercato e figlio di una continuità artistica impressionante. ‘Mephisto In The Water’, ‘Oslo Oedipus’ o ‘Death Of The Author’ sono virtuali attentati alla forma canzone, seducenti numeri che imprimono nuovi valori al termine di sensualità nella musica contemporanea.



Pop-life: They Might Be Giants





Non sono molte formazioni che possono permettersi il lusso di inaugurare un album con la linea: "Hi, Your head is on fire". Continuando peraltro ad essere credibili e mettendo in fila – nel corso di detto album – dichiarazioni ancor più ostentate. Con ‘Nanobots’ i They Might Be Giants tagliano la soglia del sedicesimo disco da studio, facendo appello ad un immaginario tra il serio ed il faceto, come buona norma. Un universo pullulato da operazioni oscure, microscopici robots, ospedali che pullulano d’insetti e colpi di karate, funambolismo lirico insomma. They Might Be Giants hanno sempre rappresentato l’eccezione nell’emisfero alternative pop, consegnando alla storia alcune delle più memorabili canzoni degli ultimi 30 anni. Questione di eclettismo, tanto che la loro peregrinazione artistica ricomincia proprio da un’indipendente – la Lojinx – che lancia le perfette alchimie pop di Nanobots con il giusto tripudio mediatico.

Nato nel 1982 nella fervida scena newyorkese dell’ East Village, il duo composto da John Flansburgh e John Linnell avrebbe fatto cassa con le vendite di ‘Flood’, che nel 1990 ottenne il disco di platino. Negli anni successivi oltre alle conferme da studio, arrivano produzioni televisive e colonne sonore, che spostano l’attenzione sul trasformismo del gruppo, dote innata sin dai primi passi discografici.

Come affrontare dunque una nuova sfida artistica? I 25 episodi di ‘Nanobots’ sono all’insegna della continuità, tanto da non tradire le aspettative. They Might Be Giants del resto primeggiano nell’arte dello scrivere canzoni, brevi e memorabili. Flash sullo stato dell’arte del pop, pillole di sapere cosmico, iniezioni di buonumore. Circondati nuovamente dagli amici di New York che contano – il produttore Pat Dillett (David Byrne, Mary J. Blige, Tegan and Sara) e collaboratori abituali come Stan Harrison, Jon Graboff, Jedediah Parish e Chris Thompson – riproducono la loro musica con superba maestria, presi da quella fervida ispirazione che ne ha fatto degli autori ineguagliabili. Se la musica è anche intrattenimento fine e delizioso, parte del merito va a questa premiata ditta che dalla Big Apple ha sempre trascritto in note la gioia di vivere.



New York is the place: the Virgins!





La Cult Records di Julian Casablancas (The Strokes) è orgogliosa di presentare il secondo album dei newyorkesi The Virgins, ‘Strike Gently’, in uscita il 12 marzo. Registrato presso l’ East Village Recording Center e prodotto dal team The Unicorn Parade (Johnny T. Yerington e Gus Oberg) il disco è un viaggio vivido negli anni ‘80 della musica wave e dell’art-pop, quando la video arte entrava prepotentemente nell’immaginario comune grazie ai numerosi canali satellitari, ma soprattutto con il lancio di MTV. Folgorato dalla presenza scenica oltre che dai numeri del gruppo, Julian non ci ha pensato due volte, aggiudicandosi in esclusiva le prestazioni del gruppo. Che per rimanere fedele alla sua fama ha inciso un disco attraversato da tutti i crismi della classicità. Brani snelli e  privi di orpelli, incalzanti, tra proto-punk e power pop. Musica che mantiene sempre un grande appeal radiofonico a prescindere dall’incedere dei ritmi.

Il debutto omonimo del  2008 impressionò soprattutto oltremanica, tanto da stuzzicare una testata come il New Musical Express. Spin dal canto suo fu più dettagliata nella descrizione, riconoscendo certo il potenziale pop dei brani, ma azzardando anche paralleli coi primissimi INXS e con i Rolling Stones del periodo ’Emotional Rescue’.


Il gruppo nasce per volontà del frontman Donald Cumming nel 2006 e comprende Max Kamins (basso), Xan Aird (chitarra) e John Eatherly (batteria). Negli anni The Virgins hanno diviso il palco con Iggy Pop and the Stooges, Lou Reed, Sonic Youth e Patti Smith, oltre ad aver fatto le loro buone comparsate a “The Late Show with David Letterman,” “Late Night with Conan O’Brien,” “Late Night with Jimmy Fallon” e “Last Call with Carson Daly.” Il singolo “Rich Girls” dall’esordio del 2008 è stato incluso nella lista delle migliori 100 canzoni dell’anno da Rolling Stone. Il miracolo si compie nuovamente con ‘Strike Gently’ che dopo aver presentato i convenevoli con l’apertura affabile di ‘Prima Materia’ si affida all’algido white funk del singolo apripista ‘Flashback, Memories And Dreams’  – che fa molto Talking Heads – per poi inanellare una serie di numeri spaventosi sempre fedeli alla forma canzone ed inclini al dancefloor. Se son rose fioriranno.



Elettrizzante il funk della ritrovata Nicole Willis





La stella della soul music contemporanea Nicole Willis torna con i suoi The Soul Investigators, per regalarci una delle più credibili pubblicazioni in ambito black per questo scoppiettante inizio d’anno. Con Tortured Soul” (su etichetta Timmion Records) il gruppo si riaffaccia sul mercato con un suono ancor più personale, dando seguito al fortunato debutto “Keep Reachin’ Up”, che nel 2005 ebbe riscontri entusiasmanti in tutta Europa.
Nata a Brooklyn ma finlandese d’adozione, Nicole sbancò letteralmente con “If This Ain’t Love” un successo nei circuiti dancefloor newyorkesi, conquistando poi i club inglesi specializzati in northern soul. Il secondo estratto da quell’album - “Feeling Free” – fu selezionato come Track Of The Year  dal re mida Gilles Peterson nei suoi Worldwide Awards del 2006. “Keep Reachin’ Up” spiccava anche nelle classifiche di fine anno specializzate di Mojo.

Naturalmente questo secondo album ha tutte le qualità del suo predecessore: la produzione squisitamente ‘cruda’ di Didier Selin, il songwriting e la caparbietà musicale dei singoli elementi oltre agli ardenti arrangiamenti d’archi  di Pekka Kuusisto. In diversi episodi potrete ascoltare anche interessanti arrangiamenti di fiati, con gli interventi esclusivi del talentuoso ed omniscente Jimi Tenor. La svolta è nella scelta dei temi, se con il primo album Nicole guidava i suoi musicisti alla riscoperta della soul music di casa Motown, ora l’avventura sembra concretizzarsi attorno agli episodi più spiccatamente elettrici di quello stesso catalogo. Tanto per intenderci il momento in cui i Temptations, con una backing band al loro servizio, licenziavano capolavori come ‘Psychedelic Shack’ o ‘All Directions’.
Ecco, il soul torturato è proprio in quell’immagine, in quel momento di svolta storica. Un cambio di direzione progressivo, che porterà linfa vitale alla rinnovata immagine di Nicole Willis e dei suoi sodali.



Charles Bradley torna con Victim Of Love





Dalla pubblicazione del suo album di debutto nel 2011 – quel No Time For Dreaming che sarebbe anche entrato nella top 50 del magazine Rolling Stone - Charles Bradley è passato in breve tempo dall’anonimato allo stardom. Da perfetto sconosciuto a stella dal profilo internazionale, spinto nella galassia del nuovo soul dal lavoro certosino di produzione e promozione del team Daptone. Oggi riconosciuto a livello planetario con il soprannome piuttosto calzante di "Screaming Eagle of Soul", Charles è la dimostrazione vivente della riscossa.

Un percorso invero accidentato il suo, una passione che culmina nella pubblicazione di un esordio alla veneranda età di 63 anni dopo aver battuto i più infimi locali del sottobosco americano e soprattutto dopo aver sbarcato il lunario nelle maniere più inverosimili. Un sopravvissuto, la nomenclatura gli si addice. Nella primavera del  2012  il documentario ‘Soul of America’ del regista Poull Brien, è stato presentato in anteprima al SXSW Film Festival di Austin, Texas. Poull Brien incontrò Charles in occasione delle riprese del video "The World (Is Going Up In Flames)". Da quel momento in poi un fitto dialogo ha portato al completamento della pellicola, che parte dalla sua adolescenza in Florida, passando attraverso gli umili giorni da senzatetto e quell’infarto che ne avrebbe compromesso seriamente il quadro clinico. Poi le esibizioni al Black Velvet ed il lancio artistico – con relativo tour mondiale a seguire – da parte di Daptone.

Con ‘Victim Of Love’ la magia si rinnova questo aprile. Assistito dal produttore/compositore e polistrumentista Thomas “TNT” Brenneck, Charles ritorna presso gli studi della Dunham per dar vita al successore del fortunato esordio. Una delle esperienze più eccitanti registrate dalla label newyorkese. Il nuovo capitolo nella saga di Bradley mantiene la consistenza delle migliori pubblicazioni di genere, ribadendo quell’autentica folgorazione che lo avrebbe reso un uomo diverso, a partire da quel lontano 1962 in cui la sorella lo accompagnò a vedere per la prima volta James Brown al leggendario Apollo Theater.





Il circo funk di Har Mar Superstar





‘Bye Bye 17’ è l’atteso nuovo album di Har Mar Superstar (all’anagrafe Sean Tillmann) e sarà pubblicato a metà aprile da Cult Records, l’etichetta gestita da Juliana Casablancas degli Strokes. Si tratta del quinto album in studio per questo esagitato performer che nel 2009 aveva sbancato con la pubblicazione di ‘Dark Touches’ salutato trionfalmente anche dalla BBC. Impossibile del resto resistere al suo humor ed alla sua verve, intrattenimento di quello esplosivo, elettrizzante.

Di lui dice Casablancas : la prima volta che l’ho visto è stato anni fa al Mercury Lounge e sono stato letteralmente spazzato via dalla sua voce, dal suo carisma e dal suo essere uomo di spettacolo. Quando mi ha fatto ascoltare il suo nuovo disco ho subito pensato che sarebbe potuta nascere un’interessante collaborazione. E’ l’uomo dalla voce d’oro e siamo davvero eccitati di poterlo presentare ad un grande pubblico … è un disco duro, triste, ilare ed assolutamente grandioso, in pratica un identikit dell’uomo.

Scritto a New York City,  il disco si compone di 10 brani ed è stato registrato e co-prodotto da Jim Eno (Spoon) presso il suo studio di Austin con una band dal vivo al completo. Il focus questa volta è sulla voce, Tillmann afferma di aver ascoltato assiduamente tanto Otis Redding quanto Sam Cooke, figure che in realtà lo hanno ossessionato sin dalla più tenera età Tillmann ha scelto il nome del suo alter-ego riferendosi al grande magazzino Har Mar nella contea suburbana di St. Paul, MN dove ha speso parte della sua gioventù a guardare film e a scrivere canzoni sui passanti nell’area destinata alla ristorazione. Tillman spiega: Har Mar Superstar era una persona diversa. E’ stata la mia scusa per concedermi qualche volo pindarico, per fantasticare …è stato facile salire sul palco nelle vesti di un’altra persona, essere oltraggioso e per di più essere glorificato. Credo che la confidenza ricevuta dall’essere Har Mar Superstar si è tradotta nella mia vita reale tanto che ora siamo un tutt’uno. Avvicinatevi con estrema confidenza a ‘Bye Bye 17’, per saggiare quest’esplosione raw soul condita da fiati e clavinet, un party album di rara bellezza.



04/02/13

Bonnot/Tracanna/Cecchetto: Drops





Un progetto, un disco, tre artisti; due vengono dal jazz che ama la sperimentazione e l’allargamento dei confini, uno è dj producer che dell'elettronica e dell’hip-hop ha fatto i suoi campi da ‘battaglia’:  Bonnot, al secolo Walter Buonanno (stabilmente con Assalti Frontali e collaborazioni di prestigio con Sud Sound System e Caparezza)  .

"Drops è basato sull’incontro tra sostanze musicali completamente diverse. i musicisti, mettendo in discussione il proprio background, fanno incontrare tra loro sonorità e linguaggi, apparentemente inconciliabili, attraverso un dialogo intorno al problematico, babelico ed insieme entusiasmante caos del mondo di oggi. Così voci, frammenti d’Africa, ectoplasmi classici, monumentali hip hop, morbide melodie, spasimi elettronici si intrecciano in un ipotetico viaggio rasoterra, intorno al mondo, alla velocità del pensiero. L’improvvisazione tra i musicisti tende poi i fili di un senso musicale non certo preordinato ma sorprendentemente concreto."

Questo è il trio Bonnot/Tracanna/Cecchetto; questa loro nuova produzione “Drops”, la prima con questo organico. Nel disco anche degli ospiti prestigiosi come il trombettista Paolo Fresu (ospite anche nel singolo che da il titolo al disco), il rapper M1 dei Dead Prez, il cantante reggae General Levy, Dj Gruff ed altri ancora.