19/12/11

Esoterismo drone-folk


Un capolavoro minimalista - Winter Lady, secondo album in solo per Alicia Merz in arte Birds Of Passage – vede il ritorno alle atmosphere melanconiche e desolate dell’acclamato debutto Without The World. E’ un invito ad entrare in punta di piedi nel suo fragile mondo, un viaggio accattivante attraverso scenari di grande euforia ed agonia, un ulteriore spinta all’innovazione ed alla ricerca con una sigla destinata ad affermarsi nel circuito del drone-pop.

La tendenza a permeare strutture asciutte con figure ripetitive, consente alla nostra di armarsi unicamente di registrazioni sul campo e piccoli strumenti per definire un viaggio audio che fotografa l’inverno stesso. Non mancano certo riferimenti all’ala più colta del dark-pop come a certo classicismo folk da camera.

La capacità di catturare l’immaginazione di un amplio numero di ascoltatori è la chiave di volta in un disco che rappresenta la sua affermazione artistica. Capace di stabilirsi nella stessa categoria di Sigur Ros, Cocteau Twins e Zola Jesus, Winter Lady punta dritto al cuore dell’anima, con i suoi quadretti intimisti che lasciano intravedere una grazia solenne. Registrato da Nils Frahm, che molti conosceranno per i dischi su Erased Tapes, l’abbraccio della Merz è ottenebrante.

Angels Of Darkness/Demons Of Light II


La seconda parte di Angels of Darkness/Demons of Light vede finalmente la luce, a meno di un anno dal primo capitolo di questa emozionante saga che ha riportato prepotentemente in auge il suono country-doom dei mercanti del Northwest. Registrato nelle stesse due settimane del primo paragrafo da Stuart Hallerman e masterizzato da Mell Detmer, il disco espande se possibile la vena free folk del gruppo, prestando fede ad una chiave cameristica. Ancora una volta la presa diretta ha aiutato a sviluppare liberamente le idee, nella ricerca di una spontaneità mai messa a repentaglio.

Angels Of Darkness/Demons Of Light II è sorprendente per molti versi, non ultimo per il tenore improvvisativo del disco. Brani come 'Sigil Of Brass' e 'The Corascene Dog' enfatizzano perfettamente l’interplay del quartetto, ancor più sublime rispetto al capitolo precedente. Tutto questo mentre 'His Teeth Did Brightly Shine' punta ancora una volta verso il fok acido inglese, riscoprendo il dinamismo lisergico di un’intera generazione. Ed è come se una brezza di fiducia soffiasse sul disco, lasciando pensare ad una progressione meno oscura e mortifera. Un ritrovato Dylan Carlson dunque, che ha imparato a convivere con i suoi fantasmi ed ha ritrovato la luce nella sua stessa arte.

Assieme al leader ritroviamo Adrienne Davies (batteria e percussioni), Lori Goldston (Nirvana, David Byrne, Black Cat Orchestra, Laura Veirs) al violoncello e Karl Blau (K Records, Laura Veirs, Microphones) al basso. Folgorati nuovamente dall’artwork di Stacey Rozich, siamo certi che questo inverno dell’anima sarà meno rigido.

Il delitto pop perfetto, da Sunderland


Sul senso ultimo di indie-pop i Field Music (nome d’arte dietro al quale si celano i fratelli Peter e David Brewis da Sunderland, Inghilterra) hanno costruito un’intera carriera, mettendo a segno con il nuovo Plumb – pubblicato da Memphis Industries – la stoccata vincente. Lavorando al pari di una piccola orchestra i due utilizzano lo studio di registrazione a proprio piacimento, lanciandosi in questo quarto album nella costruzione di anthem spaziali, che sembrano divorare decenni di musiche d’autore dalla costa ovest degli Stati Uniti a Liverpool, passando per le stazioni FM rock americane più patinate. Ce n’è voluto di tempo per mettere insieme questa opera, nei suoi minimi particolari si scopre il gusto per arrangiamenti sofisticati, una scrittura di quelle raffinate che non lasciano spazio ad alcuna indecisione strategica.

Registrato nel corso del 2011 presso il loro multifunzionale studio sulle rive del Wear a Sunderland, il disco si compone di 15 canzoni, succinte nella durata, a rispettare quel formato radiofonico che per anni è stato cruccio di tutte le imprese discografiche che si rispettino. In appena 35 minuti si raccoglie una filosofia di vita, tanto che le canzoni di Field Music assumono spesso i toni del diario giornaliero, con titoli come paragrafi speciali. ‘Start The Day Right’. ‘ A New Town’, ‘Who’ll Pay The Bills?’, ‘Ce Soir’, come a sfogliare pagine di un registro personale. Si torna all’essenzialità ed alla quotidianità della musica pop, con pagine quotidiane che ben si amalgamano a composizioni di grandissima presa.

Perfezionisti, possiamo fotografarli in questi termini inediti. I Brewis appartengono a quella stessa lega di fenomeni contemporanei come Eels o Beta Band. Ma le origini di questo suono sono forse da scorgersi nei passi post-pubertà dei fab-four, negli oceani infiniti dei Beach Boys e nel mare magnum dell’Electric Light Orchestra. Mai il classicismo è parso così moderno.

Una delle eroine dell'r&b di nuovo tra noi


Un talento straordinario della musica nera è di nuovo tra noi, una delle voci più distinte dell’epopea r&b, una delle protagoniste del soul funk dei ’70 ad un passo dalla rivoluzione disco. Betty Wright incrocia la strada del rinnovamento unendo le forze con una delle istituizioni della black contemporanea: i Roots, un biglietto da visita di per sè sensazionale, potendo solamente immaginare i ‘numeri’ di questa collaborazione.

"Betty Wright: The Movie" rispetta in toto le attese, servendo offrendo 14 primizie soul-funk che hanno il passo e le caratteristiche degli anthem moderni, rispettando le consegne della ‘storia’. I brani sono stati scritti e prodotti a sei mani dalla stessa Betty con il batterista Ahimir "Questlove" Thompson dei Roots ed Angelo Morris. Come se tali garanzie non fossero sufficienti anche gli ospiti hanno dei tratti ‘somatici’ importanti. Due stelle del firmamento hip-hop, due ragazzi terribili come Lil Wayne e Snoop Dogg mettono ulteriore pepe nell’album, mentre l’intervento della talentuosa Joss Stone è quasi un omaggio in termini ad una delle sue figure ispiratrici.

Della Wright si è parlato troppo poco negli annali della musica nera. Un talento naturale il suo, sembra addirittura che questa eroina del funk abbia iniziato a cantare in tenerissima età, praticamente appena iniziò a muovere i primi passi.

Il suo primo singolo arrivò all’età di 13 anni – quando la parabola degli anni sessanta volgeva al termine - mentre la prima hit si concretizzò a 19 con "Clean Up Woman" , che segno il passò con uno stile già deciso. L’inizio di una scalata decisa con qualcosa come 15 nominations ai Grammy. La Wright ha raccolto oltre trenta top hits, battendo un record personale con la sua personale etichetta Ms. B Records e l’album disco del 1988 Mother Wit, primo disco d’oro indipendente ‘autoprodotto’ al femminile.

Le canzoni di Betty sono state campionate a destra e manca: alcuni celebri break si ritrovano nelle produzioni di Afrika Bambaataa, Color Me Badd, Lauren Hill, Tupac Shakur e Snoop Dogg. La Wright ha suonato con tutti i mammasantissima dell ‘universo black, da James Brown a Bob Marley, ed ha prestato le sue doti canore a Stevie Wonder e Michael Jackson. E’ stata mentore e produttrice vocale per Gloria Estefan, Joss Stone e finanche Beyonce, fino ad approdare agli studi televisivi di MTV nel ruolo di vocal coach nella serie a tema condotta da P Diddy a titolo "Making The Band”. Questa è la sua prima registrazione da studio da 10 anni a questa parte ed è ancora un distillato di pura magia.

16/12/11

Dalle Hawaii nuova sensazione in casa Easy Star



Quattro talenti straordinari, quattro ragazzi provenienti dalle Hawaii e già protagonisti di un album di debutto da antologia. Finiti nella reggae top ten di Billboard nel 2010, i nostri furono anche onorati con l’ iTunes’ Reggae Album of the Year. Con 20mila copie vendute The Green hanno stabilito un bel primato, pronti a ripetersi con l’opera prima per la newyorkese Easy Star: Ways & Means.

Partendo dall’assunto che la loro musica debba essere accessibile a tutte le età, il chitarrista/cantante Zion Thompson ci tiene a mantenere un approccio fluido, identificabile, senza mai prescindere dal groove e dalla melodia, che spesso si tinge anche di influssi pop naturalmente occidentali.


Il tratto saliente dei Green corrisponde all’utilizzo della voce, lo strumento che tutti e quattro i membri condividono, spesso anche all’unisono. Una gamma di possibilità maggiore quindi, per armonizzare una miscela di per sè solare. Caleb Keolanui e JP Kennedy sono cugini di primi grado che si sono fatti le ossa nella band Next Generation. La sensibilità pop/dancehall dei due contribuisce a canzoni tanto sofisticate quanto irresistibili come “Decisions” e “Love & Affection”, con un calore raro.

A chiudere il quadro il feeling soul e blues del chitarrista JP Kennedy, un musicista navigato che contribuisce a rifinire la consciousness dei Green con interventi magistrali. Pur spingendosi oltre gli steccati del genere, i ragazzi riescono comunque a rievocare le buone vibrazioni classiche di Third World e Steel Pulse in canzoni come “Jah Love” e “Travlah”.

Ad ampliare la formazione Ikaika Antone e Zion Thompson, direttamente dalla band Stir Crazy. Con la produzione assistita di Danny Kalb (Ben Harper), Michael Goldwasser (Easy Star All-Stars) e Jim Fox (Rebelution, SOJA, Israel Vibration) il messaggio dei Green sta per essere sdoganato ai fruitori di black music ad ogni latitudine.

15/12/11

Il soul-rock di Phenomenal Handclap Band

Ai Phenomenal Handclap Band piace da morire il Tullio De Piscopo di ‘Stop Bajon’ . Del resto l’italo disco ha sempre permeato profondamente la mappatura della club culture newyorkese. I conti tornano con ‘Form & Control’ loro secondo album, dopo un esordio che aveva lasciato molti a bocca aperta. Un disco apertamente più dedito al dancefloor, con un groove febbrile in grado di provocare forti giramenti di testa.

Salutati trionfalmente dal New Musical Express ai tempi del debutto omonimo – si facevano I nomi di Sly & The Family Stone e Tom Tom Club – i sei newyorkesi si iscrivono in quella school of fame che sin dai ’70 ha prodotto piccoli e grandi talenti.

Onnivori, questo è un dato di fatto. Tra i solchi di ‘Form & Control’ prende vita una musicalità fresca, gioviale, in cui il rock da radiolina si incastona nei labirinti del ritmo, per una nuova stagione del funk bianco. ‘The Right One’ e ‘The Unknown Faces At Father James Park’ sono gli indizi che portano alla soluzione del giallo. I Phenomenal Handclap Band sono oggi il corrispettivo dei gruppi soul-rock dei seventies, da Sly Stone ai Rotary Connection, passando magari per Creative Source ed Undisputed Truth.

Nel mezzo c’è stata ovviamente la disco ed il pop più sbarazzino, altri elementi che oggi sono parte di un disegno più ampio. Pronti ad aprire una serie di date per il signorile Bryan Ferry, Sean Marquand e Daniel Collas (produttori anche del nuovo disco per Tummy Touch), sono destinati a trasportare la squadra al trionfo, e se piove di quel che tuona ‘Form & Control’ è destinato ad allargar i l confine dei loro estimatori.

Anche l'ex-Red Hot Chili Peppers Frusciante nel disco della sensazione losangelena


Quello che era un sospetto presto diviene certezza, quando tra i credits dell’album scorriamo il nome di Viv Albertine delle Raincoats. Il balletto psycho-tropicale di Swahili Blonde ha come centro di gravità Los Angeles, ma la scena madre sembra svolgersi in un sobborgo inglese dei primi ’80, tanto evidenti i punti di comunione con le Slits della compianta Ari Up e le stesse Raincoats.

All’altezza del secondo album, incrociando wave, dub e finanche kraut rock, la batterista/cantante Nicole Turley ha trovato un equilibrio quasi scientifico tra l’attitudine possibilista del post-punk e la rivoluzione ritmica della musica jamaicana.

Gli Swahili Blonde sono presto divenuti un gruppo spettacolare, una reputazione guadagnata grazie alla dinamica dei loro concerti. Un ensemble che pur girando attorno alla figura di un’ eclettica leader, ha goduto dei servigi di quel celebre chitarrista uscito dal gruppo (John Frusciante) e membri assortiti di The Like, Dante Vs Zombies, Corridor, Weave! e finanche Devo. Psycho Tropical Ballet Pink è ricco di influenze caraibiche, armonie vocali scippate al doo-wop ed una cura strumentale che ha del prodigioso.

Il funk angolare di "Zelda Has It" ha tutta la classe delle più algide produzioni Factory, mentre la cover di "Scoundrel Days" degli A-Ha folgora con il suo fascino pop remoto. "Purple Ink" suggerisce un approccio alla Cpt. Beefheart, anche se più in generale le figure ritmiche evocate dai nostri odorano di dance underground. Roba stile 99 Records, con il minimalismo delle ESG quasi a contrastare il quadro dei riferimenti british. Le ospitate di Laena Geronimo (violino), Brad Caulkins (sax) ed ancora John Frusciante (chitarra), sono una garanzia sul risultato finale. Preparate gli occhiali da sole e la crema solare, si salpa alla volta di destinazioni esotiche.

Il collettivo Elephant 6 continua ad entusiasmare


Syd Barrett, Julian Cope, Jason Pierce e la supervisione psicotropa di John Sinclair. Non è un kolossal hollywoodiano, ma poco ci manca. Una rivoluzione americana, sottopelle, perchè le manifestazioni di massa ed il ’69 sono roba d’archivio. Robert Schneider – altrimenti noto per essere il frontman di Apples in Stereo e produttore occasionale per Neutral Milk Hotel – ha messo in piedi questo rumoroso tee pee, dove tra fumi lisergici e vecchi ritrovati di medicina indiana, va in scena uno di quei party fuorilegge che tanto piacevano ai giovani rivoluzionari della Motor City. "Buddha Electrostorm" è quello spazio dedicato tra sacro e profano, tra fuga metropolitana e sommari disegni sovversivi.

Originariamente pubblicato da Garden Gate Records/Elephant 6 Recording Co. nel 2009, il disco ha talmente folgorato i tizi di Fire da improntare una ristampa e distribuzione europea sul finire di questo anno. Schneider, figlio proprio dello stesso collettivo che ha dato i natali ad Olivia Tremor Control, Neutral Milk Hotel e Magnetic Fields, si insinua nel solco di una nuova tradizione psichedelica, oggi nuovamente protagonista delle cronache indipendenti. Non a caso Jeff Magnum di Neutral Milk Hotel sarà il curatore del prossimo ATP inglese, nel Somerset, occasione in cui andrà in scena il circo di Thee American Revolution. Con il puntuale supporto del cognato Craig Morris (Ideal Free Distribution), di Bill Doss (Olivia Tremor Control) e la direzione spontanea del misterioso musicista inglese dei sixties Wm. Shears, i nostri dipingono la loro rivoluzione fatta di chitarre fuzz e ritornelli stranianti, per un trip capace di far trasalire ogni buon cultore della triade Velvet/MC5/Spacemen 3.

Con titoli piuttosto espliciti come ‘Blow My Mind’, ‘Saturn Daze’ e ‘Sleepwalker’ non mancano davvero i momenti chiave in questo disco, forse il miglior acid rock ascoltato da diversi mesi a questa parte. Turn On, Tune In, Drop Out!

14/12/11

Dalla Finlandia con amore


Inafferrabili, con una sola parola possiamo fotografare i Pepe Deluxe, al secolo la creatura del finlandese Jari Salo – in arte James Spectrum – e del sodale Paul Malmström, prodigioso polistrumentista con residenza a Manhattan, New York. Coppia chimicamente vincente.

A quattro anni dal precedente 'Spare Time Machine', sempre edito da Catskills (in America esce per la prestigiosa Asthmatic Kitty), Pepe Deluxe realizzano il loro titolo più ambizioso, con quello che sin dalle note di copertina si presenta come un’esoterica opera pop in 3 parti. La regina delle onde in questo caso è una pin up d’altri tempi che si fa largo tra i flutti con aria sbarazzina, quasi ad evocare l’immaginario tropicale dell’album.

Una cosa va detta di questo Queen Of The Wave, sembra che il duo abbia reciso nettamente i ponti con la club culture incamerando solo piccoli elementi di musica da ballo su un tessuto decisamente più rock, lisergico. L’apertura con la title track è il preludio a questo cambio deciso, l’ingresso in una macchina del tempo che dice di bucoliche tenute britanniche e di qualche fiore raccolto sulla costa Ovest degli Stati Uniti. Un’atmosfera pacata su una struttura comunque progressiva.

Più decise A Night And A Day, che sembra un funk mutante con vezzo hard, mentre Go Supersonic è forse l’episodio più vicino al recente passato, un big beat di quelli da antologia, che non avrebbe affatto sfigurato su un disco di Fatboy Slim o addirittura di Pizzicato 5.

Ma non c’è sosta, chiusa la prima parte dell’opera i nostri entrano con la successiva cinquina in un emisfero della mente ancor più sfuggevole. Fatto di ballate liquide ed arrangiamenti magistrali, dall’operetta rock alla big band miniaturizzata di Hesperus Garden, che non so perché, ma fa molto John Barry.

E – a dirvela tutta- anche Tarantino potrebbe perdere la testa per l’ultima sezione del disco, un poker di brani anche qui luminescente. Su tutto gli arrangiamenti fiatistici di The Storm, storia della cinematografia in musica ed una dose di epicità a cui certo non si può resistere.

Una visione ambiziosa realizzata anche con l’apporto decisivo di musicisti prestigiosi come Samuli Kosminen dei Múm, un batterista metal di tutto rispetto - Kai Hahto (Rotten Sound ed altro) - ArcAttack con il loro sintetizzatore Tesla, la Czech Film Orchestra ed una pletora di voci dal background diversissimo. Il gruppo vocale Club For Five, la cantante d’opera Kirsi Thum, l’attrice Sara Welling (che ha lavorato ad una revisione dell’animè giapponese Moomins, tratta dall’omonimo racconto del finlandese Tove Jansson), il rocker australiano Boi Crompton ed il bostoniano Chris Cote della band The Upper Crust (risposta d’oltreoceano ai Darkness).

Gli autori ci rivelano che il disco è ispirato al romanzo fantascientifico del 19simo secolo “ A Dweller Of Two Planets”, mentre ai patiti etno-musicologi, farà piacere ascoltare l’enorme Stalacpipe Organ, strumento di culto che dice di un attaccamento alla cultura vintage benevolmente radicale.

13/12/11

I pionieri del pop orchestrale di nuovo insieme


Northern Soul potrebbe essere un indizio. In realtà il pop dei Cardinal è stato sempre declinato spulciando tra le pieghe dell’anima e gli inni in punta di piedi che hanno preparato per questo 2012 hanno tutto l’aspetto di delicati manicaretti concepiti nottetempo. Considerati come l’epitome del pop cameristico, Richard Davies ed Eric Matthews hanno deciso di rispolverare la sigla per creare l’ennesimo ponte immaginifico tra Beatles e Belle & Sebastian, passando dalle parti dei Bee Gees flower-pop degli esordi. Nel momento del loro esordio risalente al 1994 - e successivamente ristampato da Gern Blandsten negli anni zero – i nostri anticiparono letteralmente i tempi grazie ad intuizioni orchestrali che avrebbero fatto insospettabili proseliti negli anni a venire.

Da Elliott Smith a The Last Shadow Puppets la loro sottile influenza è un dato di fatto per le legioni degli indie-rockers 2.0. Nonostante la brillantezza e l’impianto così sofisticato non fu certo un roboante successo di vendite ad investire il gruppo. Matthews fece i bagagli alla volta della costa occidentale (i suoi primi album in solo per Sub Pop sono sicuramente da rivalutare), mentre Davies rimase piantato ad oriente.

Sembrava non aver seguito la loro unica avventura discografica, eppure dopo un intenso scambio telematico i due iniziano a valutare l’idea di una collaborazione a distanza, che si concretizza nel 2011 con una serie di brani che vanno a completare il nuovo album.

12 pezzi che tengono a battesimo una risurrezione, officiata dalla solerte Fire Records. Da piccoli capolavori di gentilezza come ‘Kal’ a grezzi diamanti come’Carbolic Smoke Ball’ è tutto un rifiorire di antichi sentimenti. Il gusto ornamentale dei due non è mai prolisso ed anzi tradisce una maestria nel songwriting che è cosa rara di questi tempi. Non solo voci e chitarre, ma anche percussioni sottili, fiati ed archi a perorare una visione giustamente old-fashioned. Se erano dei marziani del pop nel 1994 oggi sembrano i dominatori di un universo parallelo fatto di mille accortezze sonore. Ben ritrovati!

A febbraio il nuovo album di Of Montreal


L’uscita di Paralytic Stalks è prevista per il 7 di febbraio ed al solito il lancio promozionale degli Of Montreal assomiglia sempre più ad una sfilata sul red carpet, tanta l’enfasi con cui viene notificata ogni loro sortita ufficiale. Un gruppo che ha fatto del glamour una ragione di vita, uscendo dal grigiore indie americano grazie ad un immagine prepotente e ad una comunicazione decisa.

Una propaganda che assume i toni della pianificazione mondiale, ora che il nuovo disco verrà pubblicato da Contrarede Records in Giappone e Baram Records in Korea. Prodotto da Kevin Barnes presso il personale Sunlandic Studios di Athens, Georgia e mixato al Chase Park Transduction dall’ingegnere del suono Drew Vandenberg (Deerhunter, Toro y Moi) il disco prende le forme di un viaggio lisergico nelle terre del pop d’autore, senza mai tralasciare una vena piuttosto eclettica e quelle polaroid da FM, che spesso hanno fatto capolini negli album dei nostri.

Barnes, che è anche il principale songwriter del gruppo, è tipo ambizioso ed il suo modo di intendere la musica è simile a quello di un architetto, rispecchiando in questo il desiderio per concept affatto formali. Paralytic Stalks è così denso di idee da sfiorare la completezza delle opere chiave dei seventies. O dei sessanta se preferite. E permetteteci di fare dei nomi altisonanti, dai Beatles di Sgt. Pepper ai Pink Floyd di Animals passando per i Beach Boys di Smile. Mai un disco degli Of Montreal è stato in precedenza capace di mettere insieme i tanti pezzi del mosaico, sublimando un’idea di completezza e fluidità cara solo alle menti illuminate del nostro tempo.

Dopo l’addizione della violinista classica Kishi Bashi, Barnes ha abbracciato l’idea di lavorare con un manipolo di sessionmen (introdotti dalla stessa Bashi) per la prima volta in carriera. Particolare il rapporto con Zachary Cowell responsabile per gli arrangiamenti di fiati ed ottoni del disco. Esperienza che oltre a coinvolgerlo a tempo pieno nel gruppo ha schiuso anche nuovi orizzonti musicali al leader Barnes

Il risultato è qualcosa di fenomenale. Un album spartiacque che non lascia adito a dubbi sulla genuinità e genialità del gruppo, che celebra un’estasi sonora fuori dal tempo, macinando elementi progressive in salsa alternative country ed orchestral-pop. Un rifugio degli Dei Paralytic Stalks, la dimensione definitiva per le aspirazioni supreme di Barnes.