29/01/09

Monastic Madness


Chiunque voglia affrontare l’argomento garage-rock, anche in un’amichevole conversazione da bar, non può certo prescindere da alcuni punti fermi. Passi per le compilation manifesto Pebbles e Back From The Grave, per il trattato globale Nuggets e per gli eroi di Seattle Sonics, ma c’è un gruppo che in assoluto – a distanza di oltre 40 anni - suona come uno dei più futuristi ed allo stesso tempo sgangherati ensemble dell’emisfero rock’n’roll. Sono i Monks, con il loro memorabile taglio di capelli (la cosiddetta chierica, quasi un accessorio nell’outlook di coloro immolati alla vita ecclesiastica), le loro divise all-black ed il loro psicotico organetto. Veri e propri antesignani di una stagione, assai lunga, trascorsa tra revival e ritorni di fiamma, tanto che il garage-rock continua ad essere un genere vitale a cui è dedicata una fetta non trascurabile del mercato indipendente. La storia è questa, ed è una delle più bizzarre a memoria d’uomo; i Monks nascono agli albori degli anni '60, dall’idea di un gruppo di militari di stanza nelle basi americane tedesche. Il gruppo originariamente si fa conoscere come The Torquays, adagiandosi però su standard beat. Dopo aver abbracciato la nuova ragione sociale, il gruppo cambia radicalmente attitudine. Detto dell’immagine indubbiamente sopra le righe, anche il sound assume altre immancabili caratteristiche, così dagli innocenti standard sixties pop si passa in fretta e furia ad una sorta di proto-punk , in cui l’elemento psych compare non in forma di jam allungate, ma nell’uso sferragliante degli strumenti e di quell’organo ex-chiesastico bonariamente slabbrato. Anche i testi si liberano dello scontato binomio peace & love, per affrontare le ovvie magagne del tempo: addio amori adolescenziali, benvenute proteste sintomatiche contro l’invasione del Vietnam e l’annichilimento culturale della società occidentale in genere. Il tutto proposto con una tale leggerezza da rimanere sbigottiti.

I Monks divengono ben presto un’istituzione in Germania e nell’Europa continentale, ma a causa dello strisciante perbenismo dell’epoca il loro disco non vedrà la luce negli States. Troppo contradditori i loro testi per essere comunemente accettati. Nel 1967 il gruppo si scioglie lasciando ai posteri un album – Black Monk Time – oggetto di vero e proprio culto, causa la sua cronica irreperibilità. Il mito si alimenta nel 1994 quando il bassista Eddie Shaw pubblica l’autobiografia Black Monk Time, che oltre a fare del gruppo un’icona del proprio tempo, accelererà il cosiddetto processo di ‘beatificazione’. Conosceranno così una nuova giovinezza i nostri, che arriveranno a riunirsi nel 1999 durante il festival americano Cavestomp! Inutile dire che se al tempo furono letteralmente osteggiati nel paese natio, oggi vengono accolti come autentici eroi. E’ solo la prima di altre fruttuose reunion, che avranno poi luogo in Spagna nel 2004 (The Wild Weekend, Benidorm) ed in occasione del tour in Germania ed Austria del 2007. E come suonano quei tremendi monaci oggi? Come ossessi verrebbe da dire, le immagini di certo non tradiscono…

Non siete convinti della loro influenza? Perché non provate a ricercare la compilation tributo Silver Monk Time? I nomi di Fall, Faust, Ptv3 (Psychic Tv) International Noise Conspiracy, Alexander Hacke (Einsturzende Neubauten), Alan Vega (Suicide), Silver Apples, Mouse On Mars, Raincoats, Gossip e Jon Spencer Blues Explosion, dovrebbero solleticare quanto meno la vostra fantasia.

Black Monk Time, spesso pubblicato in riedizioni carbonare, vede finalmente la luce attraverso la preziosa opera di restauro della Light In The Attic di Seattle, che - come suo solito - amplia la scaletta originale andando a pescare un rarissimo singolo. Riproducendo una veste grafica di assoluto splendore ed un esteso booklet con le testimonianze degli stessi protagonisti originali. Unitamente al loro unico album da studio, giungerà l’ancor più sfiziosa raccolta The Early Years 1964-65, sunto sull’attività primordiale dei nostri. Due piccioni con una fava!

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