"Dead Man’s Suit" è l’album di debutto di un nuovo ed affascinante cantautore proveniente dal sud di Devon che risponde al nome di Jon Allen. Incorporando nella sua musica ovvi riferimenti al più elegiaco folk dei 60 e dei 70 e tracciando un’ipotetica linea di confine con pezzi da novanta della più sofisticata canzone pop rock contemporanea – prego verificare alla voce Ryan Adams, Jose Gonzales e Damien Rice – Allen ha già l’aria del veterano. Dopo aver aperto i concerti di personalità del mainstream come Mark Knopfler, Emmylou Harris e KT Tunstall, il nostro non poteva che sfoggiare una solida tenuta all’esordio sulla lunga distanza, mostrando inconsuete doti di arrangiatore e cucinando con spezie sempre diverse i singoli brani. Una penna benedetta ed i numeri di chi può guardare speranzoso al proprio futuro artistico, possiamo riassumere così, in due battute. Come anticipato "Dead Mans Suit" mostra un’eclettica gamma di influenze, mettendo assieme spunti riflessivi e performance più accorate. Spunti che arrivano dal primissimo Rod Stewart come da un maestro di spiritualità del calibro di John Martyn, al cui capolavoro "Solid Air" Allen guarda con la dovuta reverenza. Tra le righe è possibile scorgere però altre – solari – influenze, si faccia caso al taglio tipicamente californiano di "Take Me To The Heart", in cui l’eco di James Taylor e certo West Coast sound si manifestano con grande spontaneità. E poi quei numeri blues rock, con tanto di ammaliante groove che fanno di "Young Man Blues" e "Happy Now" ulteriori numeri da festa. Un predestinato? Con buone probabilità, pensate che Jon ha studiato presso il Liverpool Institute of Performing Arts fondato da Paul McCartney, il quale si è sempre espresso in termini più che positivi sull’autore, offrendosi anche nella scrittura di alcuni suoi brani. Amicizie prestigiose a parte è il musicista a rubare la scena, strappando applausi a più riprese con il suo "Dead Mans Suit", un atto primo davvero coi fiocchi, con il marchio di garanzia di One Little Indian.
30/09/09
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