01/10/12

Matthew E. White, il volto nuovo dell'adult pop?





Come molti di noi, Matthew E. White è nato e cresciuto in un universo strutturato. Tra le sabbie di Virginia Beach e la giungla di Manila, Matthew è stato così esposto a scenari completamente diversi, tra oriente estremo e le luci sfavillanti di una delle località turistiche per eccellenza degli Stati Uniti.

Uno dei passi decisi verso l’universo musicale coincide con il prematuro abbandono del gioco del basket. Scegliendo una chitarra come amico, Matthew si diletta in ascolti sagaci, sfiorando le polveri del Delta blues, rimandando a memoria le incisioni primordiali di Alan Lomax e concentrandosi sulle tecniche di registrazione di Lee Perry all’interno del suo Black Ark. Una gioventù scandita peraltro dalle storie del menestrello di New Orleans Dr. John, dalle altre invenzioni jamaicane di King Tubby e dai cicli minimalisti di Terry Riley.

Una curiosità che accende il giovane musicista alla ricerca di una via originale al pop, in cui le orchestrazioni, per quanto realizzate in economia, potessero comunicare un senso di grandeur più unica che rara. Ogni piccola particella musicale è finalizzata al raggiungimento di un risultato consistente, come un’opera capace di resistere all’urto del tempo. C’è un occhio cinematico ed un senso tangibile di eternità. Anche i testi ricoprono un ruolo importante, sfiorando condizioni comuni di amore, morte e ricerca. Anche in questo caso le liriche tradiscono tributi espliciti ad eroi personali come Washington Phillips, Allen Toussaint, Jorge Ben, Jimmy Cliff e Randy Newman.

Laddove non c’è una sezione fiati a puntellare il tono quasi carnascialesco dell’album, c’è una sezione d’archi (il brano sotto la lente d’ingrandimento è Big Love) condotta da Trey Pollard assieme alle frenetiche tastiere di Phil Cook dei Magafaun. Chitarrista eccezionale con un importante training jazz alle spalle, White è solitamente accompagnato dal bassista Cameron Ralston (il saggio) e dal batterista Pinson Chanselle (il mitico), in quel trio che prende il nome di Spacebomb House Band. Fiati, archi e cori sigillano poi Big Inner, uno sforzo ancora encomiabile per Hometapes, che ci regala il più logico successore al capolavoro dissepolto Pacific Ocean Beach di Dennis Wilson.




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