31/01/11

Nuovo disco per Oh No Oh My



‘Voglio che questo album faccia piangere la gente’. Niente male come dichiarazione, soprattutto se preannuncia un lancio discografico. Esistono forse lacrime di giubilo? Prendiamo in considerazione l’ipotesi, per ora vi basti sapere che la battuta è di Daniel Hoxmeier uno dei quattro polistrumentisti che costituisce il nucleo di Oh No Oh My. Con un titolo che sembra una polaroid dei tempi moderni - ‘People Problems’ - il gruppo di Austin entra con naturalezza nell’Olimpo delle indie band più colte e sofisticate dei nostri giorni, assumendo spesso e volentieri fittizia nazionalità britannica. Proprio perché la musica d’oltremanica sembra costituire un grosso precedente storico per i nostri. Comunque discrete personalità in patria, tanto più che nel 2006 ebbero modo di partecipare al carrozzone del Lollapalooza, pur essendo alla quinta esibizione ufficiale dal vivo! Preludio ad una serie di tour non meno importanti, al fianco di personalità come Mew, Flaming Lips e Gnarls Barkley. C’è voluto poco a finire sotto i riflettori delle tv via cavo, figuriamoci poi se il portale alternative per antonomasia Pitchfork non si curasse di questi talentuosi uomini. Eppure le prime produzioni sono ancora all’insegna della più fedele indipendenza e autoproduzione. Cambiano però le priorità, qualora del proprio verbo si voglia fare anche una ragione di vita. Scampoli di economia domestica direte voi, tant’è che il gruppo che ascoltiamo in "People Problems" è davvero maturo e imprevedibile. Imprevedibile perché il modo di arrangiare i pezzi può essere virtualmente spiazzante. Sia che si tratti di un pop cameristico, di una psichedelica a lume di candela o di una ballata folk tappezzata di esoterismi. Arie beatlesiane, sberleffi à la Phil Spector, tavole da surf griffate Beach Boys, qualcosa del Barrett pre-camicia di forza. ‘Should Not Have Come To This’ è una bucolica sensazione folk, ‘There Will Be Bones’ un uptempo puntellato dagli archi, No Time For Talk una cosa che magari girava nella testa di Van Morrison e Steve Winwood fossero venuti fuori nell’amena rivoluzione brit-pop. C’è così tanta materia viva in questo disco da poter pubblicare un singolo al mese pur di arrivare al cuore dei consumatori illuminati. Per una volta l’hype era giustificato. Un debutto lungo vero e proprio per suggellare le aspettative del caso, precludendosi – forse – solo il cielo.


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