Una
copertina esclusiva sull’LA Weekly sottintende l’idea di un personaggio ormai
sdoganato anche negli ambienti ufficiali. La parabola di Chelsea Wolfe è
necessariamente in questa immagine, se vogliamo più formale, non di meno
affascinante. Con l’ausilio di Sargent House ‘Pain Is Beauty’ si presenta come
l’opera definitiva di questa chanteuse che ci aveva ammaliati con sintomatiche
riletture post-punk – il raro ep per Latitudes composto da fantasiose cover dei
Rudimentary Peni – e cenni sparsi all’iconografia black metal (anche una
rilettura del classico di Burzum del 1992 Black Spell of Destruction). E’ un pop scarnificato, che non rinuncia
nemmeno alle più morbose torch songs, una sensualità ultra-terrena, che vede
come protagonisti fantasmi più che uomini.
Potrebbe
essere il disco della consacrazione per questa esemplare dark lady,
capace di impreziosire le sue canzoni con leggiadri movimenti ancestrali,
riportando in auge le smanie gothic-rock pur guardando ad un format più
commestibile. Non un processo di normalizzazione, bensì una ricerca su più
fronti, che fa il paio con il rinnovato interesse da parte dell’universo
fashion Un disco pieno di spunti, rivelatore di
un nuovo misticismo e capace di trascendere la visione nero pece cui l’artista
è stata spesso associata. E’ una musica
indebitata tanto con il più funereo post-punk quanto con le più sagaci sortite
della musica downtempo, una delle più attese pubblicazioni
indipendenti di questo scorcio di stagione.
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