Con l’aggiunta in pianta stabile dello straordinario percussionista Steven Hess (Locrian, Innode) Mark Nelson (già protagonista coi suoi Labradford della grande stagione rock isolazionista) torna a pubblicare a ben 4 anni di distanza dall’ultima fatica da studio ‘White Bird Release’. Col senno del poi la musica di Pan American, a partire dal debutto omonimo per Kranky, ha anticipato molte delle recenti evoluzioni in ambito indipendente, forgiando un suono algido ma dalle fattezze comunque cinematiche.
Un miracolo di astrazione, il
nuovo ‘Cloud Room, Glass Room’, conferma come la sensibilità di Nelson non sia
stata intaccata, rappresentando per molti versi un sinonimo di invidiabile
continuità. Composizioni come suoni dispersi nell’etere, un filo logico con le tecniche
del field recordings, la deriva post-industrial e le fisiologiche tecniche
cut’n’paste del dub. Scivolare a profondità siderali è questa la missione di un
lavoro che tra ambient e drone costruisce un ventaglio di ipotesi su ciò che
verrà. Perché il post-rock cui i Labradford - e conseguentemente Nelson - venivano
associati, è ora definitivamente trasfigurato.
Il disco è stato costruito
durante la sortita dei due nel sud dell’Europa – con una preziosa apparizione
anche nella nostra capitale - con date
selezionate a cavallo tra il 2011 ed il 2012. In pratica le nuove
composizioni sono state scritte e testate nella contestuale dimensione live.
Bobby Donne (Labradford, Cristal) ha suonato il basso in buona parte del disco,
contribuendo a rendere ancor più credibile la dimensione live del gruppo. La
capacità di lavorare dietro al banco di regia di Mark Nelson illumina il disco
in ogni singolo dettaglio, amplificando le numerose trovate di un
polistrumentista capace di confrontarsi ad armi pari con la tecnologia. La
prova di Hess è poi strepitosa, le sue tecniche estese ne fanno un vero e
proprio maestro delle percussioni.
Con ‘Cloud Room, Glass Room’
appare evidente come Pan American abbia toccato uno dei suoi insindacabili
picchi produttivi.
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