C’è aria di cambiamento nel nuovo disco di Dirty Beaches, al secolo Alex Zhang Hungtai, artista solista che nel 2005 ha dato i natali a questa oscura creatura in quel di Montreal. Nel suo carnet non mancano certo le collaborazioni più ardite, tanto che spesso la sua descrittiva miscela è finita con l’accompagnare cortometraggi e documentari di genere. Una passione viscerale per tutto quello che è l’immaginario old-fashioned americano ha contribuito a posizionarlo in una terra fantasma, dove si celebrano allo stesso tempo il mito della frontiera e le immagini che scorrono in sottofondo sono rigorosamente in bianco e nero.
Potremmo
dare un nome a questo suono polveroso, definendolo industrial-blues, ma
rischieremmo di non rendere giustizia all’uomo, che ha sempre in serbo una trovata
eclettica, un arrangiamento sopra le righe. Il nuovo disco, proprio per
raccogliere in maniera compiuta i suoi molteplici interessi, è un doppio,
concepito nell’inverno del 2012 tra il suo domicilio canadese ed una sempre più
evanescente Berlino. ‘Drifters / Love Is the Devil’, ancora per marchio Zoo
Music, è così un’ampia sintesi del suo modus operandi. Un lavoro contrassegnato
dal viaggio e dall’idea di vita on the road, considerate le numerose tappe dei
suoi tour europei. C’è il fascino labirintico per città capitali come Berlino,
Belgrado e Parigi, immagini che si riflettono in una musicalità sospesa, sempre
sul punto del collasso emotivo.
Un
blues dell’anima dicevamo od una sorta di pre-war folk sorretto da strutture
minimal-rumoriste se preferite, dove la drum machine sostituisce il battito del
piede e le chitarre sono necessariamente filtrate (assieme alla voce). E’ così
che si compie un’opera definitiva, sospesa tra il cinema di David Lynch e i
sottoscala di qualche club inglese dei primi anni ’80. Roba
da perdere la testa. Elvis a passeggio coi Cabaret Voltaire,
od anche un Robert Johnson intrappolato in una performance radioattiva dei
Throbbing Gristle. I riferimenti potrebbero essere molteplici, ma il miracolo
di Alex Zhang Hungtai è proprio nella potenza delle immagini che riesce ad
evocare. Grandi e piccole tragedie del quotidiano che si svuotano di ogni
significato prendendo la via del palcoscenico. La musica si insinua, definisce
i dettagli, proietta sentimenti. E mai l’abbandonarsi è risultato così lieve.
Nessun commento:
Posta un commento