25/02/11

The Loves ...Love You



Indossate scarpe comode. Liberata la mente da ingombranti pensieri. E’ tempo di lanciarsi in danze sfrenate in onore della miglior pop venue. Qui si torna a bomba sugli anni d’oro del brit-pop, e questo "The Loves …Love You" pare davvero una remota chicca dalla stagione scolastica – ehm…- 95/96. Se è Fortuna Pop! a metterci la faccia, lasciatevelo dire, la qualità non può che essere ottima. Ed in appena 10 canzoni The Loves ci consegnano quella brillantezza che è merce rara di questi tempi, perché a fare canzoni ammiccanti bisogna esser portati. La giusta alchimia tra ritornelli appiccicosi e strutture fantasiose è alla base di un disco incredibile; connubio tra il dream pop di casa Sarah Records e Postcard, il gusto per le brumose ballate di deriva scozzese e l’impeto giovanilista dei primissimi Blur. L’alternanza tra voce maschile e femminile fornisce un ulteriore elemento distintivo. C’è un pizzico di malinconia in questi pezzi tutto sommato, pare che il gruppo abbia ufficialmente dato addio alle scene il giorno di San Valentino, scegliendo una data quanto meno simbolica. In eredità un album che ha del sensazionale, affrontando in scioltezza una ventina d’anni di quella musica britannica che mai invecchia, mantenendo una salda presa sui buoni sentimenti e su un recondito romanticismo dopo-adolescenziale. “December Boy”, che è il singolo predestinato, ha degli autentici violini, oltre alle voci di Emma Hall dei Pocketbooks e Liz Hunt dei The School. In un impasto che - provate ad indovinare – vuole anche dire Phil Spector e wall of sound. E poi, sinceramente, pensate di scrollarvi di dosso facilmente il refrain di "Bubblegum"? A meno che non abbiate scarsamente a cuore le questioni di casa british, questa è roba da mettere al tappeto anche il più scontroso dei collezionisti… Capitolo finale dicevamo, e tanta materia da registrare alla voce ‘canzone perfetta’: "That Boy Is Mine" e "King Kong Blues" dovrebbero essere nella playlist di ogni radio FM che si rispetti e al diavolo i luoghi comuni: ricordatevi, lassù c’è sempre qualcuno che vi ama…



Meat Puppets, il nuovo album è "Lollipop"


Se per alcuni il motto Corporate Rock Still Sucks ha ancora un valore mediatico importante. Almeno in casa SST dal tenore delle maglie stampate non devono pensarla diversamente - merito di quell’attitudine barricadera è anche dei fratelli Kirkwood, al secolo Meat Puppets, una delle più incredibili formazioni generate dall’underground americano dei primi anni ’80. Suonavano un hardcore supersonico agli esordi, ma già all’altezza di "Meat Puppets II", dopo aver giocato pericolosamente con l’acido lisergico, sceglievano la strada della jam stranita, a mezza via tra Creedence Clearwater Revival e Grateful Dead. Grosso modo. Sempre inarrivabili negli anni della SST, i nostri inanellarono una serie di dischi capaci di passare con disinvoltura dal country all’hard psichedelia, provando a rendicontare un’attitudine tra le più stravaganti in circolo. Ci sono stati gli anni major, che magari hanno indispettito qualcuno (non certo gli acquirenti con le 500mila copie di "Too High To Die" vendute), ma dopo il tifone grunge la popolarità dell’alternative rock è rientrata nei ranghi ed i benemeriti Kirkwood – superata qualche disavventura personale – hanno ricostituito la band madre. Il 2001 vede una ripartenza in grande sitle, con una label che peraltro ha fatto la storia del rock indipendente americano, quella Megaforce che segui addirittura i primi vagiti dei Metallica. Con a bordo il nuovo batterista Shandon Sahm (figlio dello storico Doug, quindi gioiello di famiglia) e dopo appena un paio d’anni dall’ultima fatica in studio, questi texani doc si riaffaccino sul mercato con "Lollipop". Magistrali musicisti – chi ha assistito ai loro concerti dal vivo sa di cosa parliamo – i benemeriti fratelli non si smentiscono, grazie ad un disco pieno zeppo di riferimenti. Fosse il roots americano, la psichedelia, un rock tinteggiato di aromi orientali o addirittura i ritmi in levare di "Shave It" (sorta di ska virato West Coast). Non c’è nulla che non rappresenti la storia dei Meat Puppets in questi solchi, c’è l’umanità di una grande band, l’estro, la prospettiva di un America fuori dalle rotte comuni, l’idea di una musica dagli orizzonti sconfinati. Tali sono quelli di ‘Lantern’ (con Curt che si lancia in armonie ispaniche degne del miglior Paco De Lucia) e ‘Town’, una ballad sabbiosa, che vale quanto una polaroid dal deserto. Senza troppi giri di parole di "Lollipop" apprezzerete i richiami a dischi leggendari quali Huevos e Mirage, un equilibrio antico tra elettricità e forme acustiche sospese, una musica che è puro compendio della storiologia a stelle e strisce. Monumentali in una sola parola.

24/02/11

Black Spiders: esce anche in Italia il primo album della band di Sheffield


Orfani dei Darkness unitevi, finalmente l’Inghilterra è pronta a regalarvi un’altra favolosa band di hard rock come da divina scrittura. Già acclamati dalla stampa locale – quasi un tappeto rosso quello steso per l’occasione da Kerrang! e Metal Hammer – i Black Spiders sono i classici predestinati, tipici rocker che oltre ad alcool e mescalina sembrano avere il riff giusto nel dna. Se un altro ‘stinco di santo’ come Duff McKagan (sì, quello spilungone che tra le altre cose ha suonato il basso con i miliardari Guns n Roses di Appetite For Destruction) sì è già espresso in sul gruppo di Sheffield, non abbiate paura, qui si fa sul serio. Il quintetto utilizza ben tre chitarre e al diavolo l’economia del gesto... Tre asce per il perfetto delitto, quasi il titolo di un thriller d’altri tempi. "Sons Of The North" è il debutto che mantiene tutte le aspettative del caso, vezzeggiando a più riprese il death rock dei vichinghi Turbonegro e le altalene bluesy dei canguri australiani AC/DC. Ci sono voluti ben due anni per raccogliere i 10 brani che danno vita a questo incendiario album, nel frattempo i Black Spiders hanno ingannato l’attesa con l’uscita di due EP (‘Cinco Hombres, Diez Cojones’ e ‘No Goats in the Omen’), che ben lasciavano presagire. Sono stati i loro concerti dal vivo però a far la differenza, soprattutto nel circuito dei festival continentali, fossero il Sonisphere, l’High Voltage, il Bloodstock od il sempre affascinante carrozzone dell’OzzFest. Nonostante le dimensioni i Black Spiders hanno sempre affrontato con estrema professionalità gli eventi, dimostrando carattere o meglio, attributi. Perché se l’hard è una disciplina antica lo spirito contemporaneo è ciò che può fare la differenza.

The Atomic Bitchwax, nuovo album su Tee Pee


Gli Atomic Bitchwax puntano direttamente al primato con il nuovo album "The Local Fuzz", pubblicato da Tee Pee. Il sapere enciclopedico del trio del New Jersey – al secolo Chris Kosnik, Finn Ryan e Bob Pantella – è sintetizzato in un’unica traccia di 42 minuti, che tende a sottolineare tutto il fascino della maratona in ambito hard, come del resto accadde a vecchi frequentatori del medesimo catalogo, gli Sleep di Dopesmoker. A differenza del macilento e minimalista volume post-doom della band di Al Cisneros, il trio della costa orientale preferisce inanellare una serie di riffs, che in un’escalation poco meno che clamorosa tengono in piedi "The Local Fuzz". Un Frankenstein sonoro ghiotto di citazioni, pur che siano di matrice rock: dall’hard-boogie allo stoner, dalla New Wave Of Birtish Heavy Metal alla più dura psichedelia. Parlano chiaro del resto le radici del trio, che in piena esplosione grunge si divideva in altrettante band major, capaci di reagire all’istituzionalizzato suono di Seattle. Sicuramente i Monster Magnet sono i parenti più prestigiosi, mentre Godspeed e Core (entrambi al servizio dell’Atlantic) hanno raccolto unicamente favori oltreoceano. In 15 anni di attività gli Atomic Bitchwax sono gradualmente giunti alla definizione di un sound, che sembra incorporare la visionarietà ed il gusto per l’analogico dei 60/70, assieme ad una capacità di sintesi moderna. Chiamatela pure alchimia. Questo è il loro quarto album da studio e segue un’omonima trilogia che già aveva spalancato loro le porte dell’universo hard & heavy. Con un tour mondiale già programmato per il mese di Aprile, visto che i palcoscenici di oltre 15 paesi hanno già ospitato le telluriche vibrazioni dei nostri, "The Local Fuzz" è pronto ad entrare con prepotenza sulla scena del più intransigente rock alternativo, mettendo da parte la forma canzone ed aspirando alle più alte vette dell’ispirazione artistica.

Sonic Youth "Simon Werner A Disparu - Original Enregisterment Sonore"

E’ sempre fonte di eccitamento una nuova uscita su etichetta SYR, proprio perché i padroni di casa ci hanno abituato a grandi esperimenti musicali, ben aldilà del rendiconto finanziario. Parallelamente alla loro parvenza di pecore nere del circuito mainstream (è anche vero che hanno risolto il contratto con Geffen pur di tornare indipendenti) queste 4 icone newyorkesi hanno messo mano alle ipotesi più stravaganti, andando anche a scomodare compositori e minimalisti classici nel doppio Goodbye 20th Century. Detto questo ‘Simon Werner A Disparu’ vede un ritorno al formato colonna sonora, dopo il bell’esperimento ‘Made In USA’ (e l’altrettanto ricercato ‘Demon Lover’) . Il disco rispecchia l’animo più sognante della band, le loro profezie strumentali sono avviluppate in un mantra psichedelico, sempre e comunque intellegibile, grazie alla batteria di Steve Shelley che offre le opportune garanzie in termini di apporto ritmico.
E’ un disco che torna anche sugli aspetti virtualmente meno pop dei Sonic Youth, che con l’ultima fatica da studio - The Eternal per Matador - avevano forse mostrato un pochino la corda. Nessuna paura, il fascino di questa opera – immortalata presso il personale Echo Canyon West studio di Hoboken, New Jersey – rispecchia in pieno l’ immagine del cineasta francofono Fabrice Gobert. Concepito scientificamente in un paio di settimane, lo score ha visto i Sonic Youth elaborare i brani sulla stessa lunghezza d’onda delle immagini, provando un collante credibile, gestito grazie ai miracoli del multitracking. La prima del film è stata data nel maggio del 2010 durante il festival del cinema di Cannes, premessa ad un successo ai botteghino maturato nel corso di questo autunno, nel paese d’origine. Nell’attesa che il film venga distribuito nel resto d’Europa, rimane questo biblico pezzo d’arte moderna, firmato in calce da Thurston Moore e soci.

Cornershop & The Double ‘o’ Groove featuring Bubbly Kaur


E giunse il tempo del bangla beat…E’ così che per il loro settimo album da studio i Cornershop cambiano rotta, non è più il brit-pop ad essere speziato di aromi hindustani ma è proprio la musica di quella porzione d’oriente a venire a patti con l’occidente, mantenendo però uno spirito auto-affermativo. Il sound che viene oggi impacchettato da filosofi del beat (ogni riferimento a Madlib ed Egon è puramente voluto) in compilation dal fascino glamour, trova nei solchi di questo "Cornershop & The Double ‘o’ Groove" un attendibile corrispettivo moderno. La sezione più logica in cui inserire questa deliziosa collaborazione con la vocalist Bubbly Kaur è nel world beat, a fianco dei cosiddetti rare grooves. Riportasse altra data di pubblicazione il disco poteva esser licenziato dall’etichetta britannica - specializzata in ristampe - Finders Keepers, giusto per darvi un’ulteriore pietra di paragone. Nel singolo apripista "United Provinces of India" sono messi in campo tutti gli elementi di questa strepitosa joint-venture, dalla strumentazione di nomenclatura sud-asiatica alle basi hip-hop, per sfiorare poi quell’innato gusto pop lisergico che è comunque nel tessuto genetico dei Cornershop, da sempre. Pensavano ad un disco del genere da 20 anni, ma poi le esigenze da studio ed il successo spartiacque di "Brimful Of Asha" hanno delineato altro percorso artistico. Fortuna che le tregue – ma anche le crepe – del mercato discografico odierno hanno concesso una via di fuga a Tjinder Singh e Ben Ayres, che senza ansia ci regalano il disco ritmico della stagione. Punjabi Folk Music goes downtempo, roba da far girare la testa anche a Gilles Peterson.



AGF & Craig Armstrong - Orlando

Field recordings unitamente al suono di un violoncello classico e a quello di una voce processata digitalmente sono al centro di questa produzione, che vuole fondere gli aspetti più consoni alla musica contemporanea con quelli dell’elettronica più votata alla ricerca. Del resto il dramma di Virginia Woolf è rivisto in chiave moderna da due spiriti affini che hanno contribuito non poco ad elevare le sorti della ricerca in ambito digitale.
Da una parte il compositore scozzese Craig Armstrong – già a lavoro su numerose colonne sonore, spesso interagendo con orchestre di stampo moderno – dall’altro l’ex voce dei tedeschi Laub Antye Greie, produttrice esecutiva e depositaria del marchio AGF Produktions
Lo stesso Armstrong aveva composto le musiche per una rendition del caposaldo di William Shakespeare - Romeo & Juliet – guadagnando riconoscimenti come il BAFTA for Achievement in Film Music ed un Ivor Novello. La sua composizione per il musical Moulin Rouge di Baz Luhrmann gli ha consentito nel 2001 di guadagnare addirittura un Golden Globe Award per miglior colonna sonora originale. L’arte di sposare musica ed immagini (sul grande schermo) gli ha permesso tra l’altro di lavorare agli score di Love Actually, World Trade Center (Oliver Stone) e The Incredible Hulk.
Al 2001 risale il primo incontro con la Greie, invitata a cantare nel secondo disco solista di Armstrong a titolo As If to Nothing. Successivamente gli artisti lavorano a Pianos (2004), The Dolls (2005 con Vladislav Delay) e Memory Take My Hand (2008).
In una produzione diretta nel 2010 da Cathie Boyd, AGF ed Armstrong provvedono a musicare l’opera in scena. Per questo cd i due compositori si affidano al tono fluente e narrativo del testo originale, in modo da ricreare tra gli ascoltatori il medesimo fluente effetto lirico esercitato sui numerosi lettori. Un viaggio che affonda nella memoria del protagonista stesso, perché Orlando era appunto uno scrittore!
Composizioni come The Tree, Betrayal e Sleep hanno spinto i due autori ad incorporare drone e processi digitali ai temi prefissati, in una ri-attualizzazione dell‘influente libro dato alle stampe dalla Woolf un secolo fa. Il risultato è una composizione del 21° secolo rispettosa delle sue profonde origini ‘letterarie’.



Bearsuit - The Phantom Forest (Fortuna Pop!)

Il ritorno dei Bearsuit – griffato Fortuna Pop! – è all’insegna di un solenne pop, impacchettato in un muro del suono che prevede l’inserimento di synth analogici, drum machine e chitarre nervosamente white-funk. Prodotto con mano esperta da Gareth Parton (The Go! Team, Breeders, Foals) il disco si snoda in 12 episodi, cui non manca verve e spirito di ricerca. L’altra sorpresa è infatti contrassegnata dall’uso di archi e strumenti a fiato che ben si intersecano con lo spirito più indie della rinnovata formazione.
Ammiccando alla disco sintetica in Please Don’t Take Him Back – suonata a ripetizione da BBC 6Music – i Bearsuit strizzano l’occhio al dancefloor con fare maniacale, preparando dei manicaretti su misura per i più esagitati viveur del fine settimana.
Scavando tra i solchi di questo album troverete però anche il romanticismo della via del ritorno, quella magari battuta all’alba della domenica mattina, dopo una serata vissuta al massimo. Ed è un imprinting tipicamente britannico questo, il classico effetto dopo-bomba, il rilassamento visivo dopo la sbornia strobo. Concordiamo dunque sul fatto che questo è il miglior parto in carriera dei Bearsuit, che nel frattempo hanno messo a libro paga una nuova sezione ritmica. La band di Norwich consta ora di Iain Ross (chitarra e tastiere), Lisa Horton (tastiere), Jan Robertson (chitarra e tastiere), Charlene Katuwawala (basso e tastiere) e Joe Naylor (batteria). Ovviamente tutti e cinque i musicisti in squadra si alternano alla voce, come in una collettiva fanfara pop. Pronti ad esibirsi per la seconda volta negli States al SXSW, non mancheranno di mettere solidi radici oltreoceano, prima di tornare a piantare le tende nel vecchio continente. Prendendo spunto dall’ultima stagione riot (in più di un’occasione sono Le Tigre di Kathleen Hanna ad affacciarsi alla memoria) e guardando tanto all’Inghilterra lo-fi pop di Comet Gain quanto al più scorbutico post-punk di scuola Factory, i Bearsuit hanno messo assieme una strabordante idea di pop mutante per l’imminente collezione primavera-estate.






23/02/11

Crystal Stilts - In Love With Oblivion (Fortuna Pop!)

E’ stato un colpo al cuore il loro album di debutto, una di quelle cose che – musicalmente parlando - rasenta la perfezione, pur non ambendo a tale primato. Da quel fitto intreccio logistico ed artistico che è la Brooklyn dei giorni nostri i Crystal Stilts hanno inviato cartoline di amore sonico a mezzo mondo, giocando con le tinte chiaroscurali di un garage psych che sembrava coniato a Manchester nei giorni del dopo-punk. Alight Of Night con il suo definitivo stomp chitarristico accese la miccia, in uno scenario da psichedelia anni ’90, con il sole al tramonto e l’eco distante della surf music.

Il nuovo album è licenziato in Europa da Fortuna Pop!, che seguendo le analoghe direttive di Pains Of Being Pure At Heart, prende alle sue dipendenze la band della East Coast, oggi capace di sfoggiare uno stile invidiabile, per via di un’applicazione scientifica al suono. Ancora una volta si incrociano strade e percorsi sotterranei, come è lecito per chi ha dedicato anima e corpo al suono indipendente. I fratelli Reid come il pop angolare del giro neozelandese Flying Nun/Xpressway rimangono ancora a parziale garanzia del suono dei Crystal Stilts, che comunque spingono verso un rinnovamento strutturale.

"Shake The Shackles", primo singolo estratto dall’album, aveva già lasciato intuire quale fosse il destino dei nostri. Puntuale l’album in Love With Oblivion rifugge ogni dubbio liberando un suono che danza sullo spoglio palcoscenico di un post-punk d’atmosfera, in cui mai viene smarrito il gusto per un pop allegorico e trasversale. Nel solco del migliore wave partorita a cavallo tra anni 80 e 90 i Crystal Stilts costruiscono il loro impero dei sensi.

22/02/11

Si intitola "Carcarà" il nuovo album dei Gentlemen's Agreement, nei negozi a fine marzo



A distanza un’orchestrina di mariachi sembra introdurre il tema portante del disco: è un esotismo di quelli nobili ed i Gentlemen’s Agreement sembrano essersi trasferiti in qualche periferia dell’emisfero occidentale per concepire il loro secondo album, “Carcarà”. Il solco lo segna un libro, un viaggio dell’anima, pur se comodamente seduti in veranda. “Verità tropicale” a firma Caetano Veloso, non è una semplice biografia ma l’immagine nitida di un movimento artistico ai più noto come tropicalismo. Storie di opposizione in musica, prima che i generali spazzassero via il sogno di quei valenti artisti. Rasserenato il clima oggi, maggiori possibilità di arrivare al nucleo della questione, grazie all’industria del disco che ha puntato parecchio sull’oggetto ristampa. Ed i Gentlemen’s Agreement proprio di quel suono si sono innamorati, lasciando in piedi altrettante ipotesi e frammenti di musica. Oltre il confine tra Stati Uniti e Messico, una cartolina da Cuba ed in generale un atteggiamento che accanto alla filosofia dei cantori del tempo, vede un sobrio utilizzo delle percussioni. In questo gioco di citazioni la formazione cresce, anche esponenzialmente. Sono oggi in cinque i ragazzi : Raffaele Giglio (Voce, Ukulele, Chitarra Acustica, Tres Cubano, Mandolino); Fabio Renzullo (Tromba, Toy piano, Armonica, Cori), che in questo disco ha scritto gran parte delle sezioni fiati ; Gomez (Contrabbasso, Cori) ; Andrea De Fazio (Batteria, Cori) e Gibbone (Surdo, Caixa, Quica, Agogo, Clave, Triangolo, Pandeiro, Repinique, Tamburim, Chocalho, Cori). “Carcarà” è anche un racconto, con un filo conduttore, una volta concepite le canzoni è stato il metodo di arrangiamento a portare alla creazione di un corpo unico. Che poi si parli d’amore non corrisposto o nostalgia (o saudade per dirla in portoghese) sarebbe il caso di chiederlo ai diretti protagonisti. Prodotto dall’etichetta partenopea Materia Principale, il disco è stato registrato da Alfonso La Verghetta presso lo studio Italy Sound Lab, rigorosamente in acustico, proprio per prestare fede ad un comandamento: quello di riprodurre fedelmente dal vivo i suoni di "Carcarà". Che sarà anche uno spettacolo suggestivo, un piccolo carnevale folklorico itinerante in cui il gruppo ricorrerà a scenografie, costumi e maschere, dando sfoggio ad una innata teatralità. L’artwork e il primo video del disco sono stati realizzati dal talentuoso Alessandro Rak, che ha contribuito, con il suo tratto a costruire un immaginario attorno a questa delicata storia. Tra gli ospiti del disco Alfredo Maddaluno (Atari), Lelo Natale Smith (Le Loup Garou) e Peppino e Peppone (Tromba e Sax dei Rudy&Crudi).

Howe Gelb & A Band Of Gypsies


Tra i pochi gentiluomini a frequentare gli spesso aridi palcoscenici rock – è lui a regalare i fiori alle sue sostenitrici e non viceversa – Gelb ha sempre celato un'anima più soulful dietro l'implacabile immagine di cantore e reporter delle vicende del sud, in quel contesto così immaginifico e desertico. Nel 2006 la passione sboccia definitivamente quando Howe s'imbarca in un viaggio artistico con un coro gospel, evento che porterà alla pubblicazione dell'unanimemente acclamato "Sno' Angel Like You". Per questo nuovo capitolo Gelb si affianca ad una truppa di suonatori flamenco di origini tzigane, chiamando a sé il virtuoso della sei corde Raimundo Amador, in passato già collaboratore di Bjork e BB King. A dare maggiore profondità al lavoro l'impeccabile contributo in cabina di regia di John Parish. Registrato in un accogliente terrazzo multi-attrezzato a Cordoba con la sua Band Of Gypsies sotto l'implacabile sole andaluso, ''Alegrias" è un lavoro che scomoda aggettivi importanti. Pubblicato originariamente per il solo mercato spagnolo, il disco è ora licenziato da Fire nel resto del mondo, a margine di un rilancio di tutta la discografia del leader di Giant Sand, uno degli uomini che più ha innovato l'universo dell'americana. Nonostante i numerosi tentativi di unire il flamenco con il proprio stile 'nativo', sono stati pochi che gli artisti a portare a casa l'intera posta. Ragion per cui "Alegrias" più che rappresentare un esperimento di successo, può essere considerato un evento, un momento di gioia foraggiato dall'unicità degli elementi in campo: l'originale penna di Howe e l'incredibile varietà ritmica del flamenco stesso. Pur mantenendo il familiare volto della natia Arizona, tradotto squisitamente in musica in 25 anni di onorata carriera, Howe abbraccia con naturalezza il suono del flamenco, pur mantenendo una spiccata personalità forgiata grazie alle memorie del deserto di Tucson ed agli ascolti formativi di Tom Waits, Miles Davis e Tomatito. Dopo il viaggio a Cordoba e l'incontro poco più che accidentale con Fernando Vacas, il progetto ha progressivamente preso forma organica, grazie all'intervento dei musicisti locali, che hanno portato alla creazione di questa miracolosa miniatura. In cui il roots rock americano, l'idea nobile di musica di confine e lo stile flamenco occupano lo stesso spazio temporale.

21/02/11

Danielson, un nuovo disco ricco di ospiti



Cinque anni, per alcuni un'era geologica - considerata la routine del music business, anche quello indipendente. Eppure, come nella tradizione dei grandi album pop orchestrali, tanto tempo è occorso a Daniel Christopher Smith, a.k.a. Brother Danielson, a.k.a. Danielson per completare la sua nuova fatica, che si preannuncia anche come la sua opera più eclettica e mozzafiato. E' come se in "Best of Gloucester County" il bambino fosse divenuto adulto, come se il guscio si fosse finalmente schiuso e la sostanza dei sogni adolescenziali avesse assunto forma concreta. Tirando sempre in ballo i membri della famiglia - i fratelli Andrew e David – i percussionisti ed amici d'infanzia Chris e Ted, Smith assolda nuovi elementi dell'area di Gloucester County, New Jersey, luogo dove si è trasferito per lavoro e ha messo in piedi il suo studio personale. Nel particolare Patrick Berkery – batteria - Evan Mazunik- piano, organo - Joshua Stamper - basso - Sufjan Stevens - banjo, voce - Andrew Wilson – chitarra elettrica rappresentano l'ossatura della studio band. Sembra insondabile la distanza dalle prime timide pubblicazioni per Sounds Familyre e questo nuovo parto discografico, che con il benestare dell'inglese Fire appare come un'altisonante dichiarazione d'intenti. Un vero e proprio caso discografico, non fosse altro per il tempo preposto all'assemblaggio e per i risultati ottenuti. Un'opera rock ma anche un'ulteriore arricchimento del songbook americano dal Pet Sounds fino alle prove spartiacque di Neutral Milk Hotel e Magnetic Fields, giù fino al sodale Sufjan Stevens. Lussureggianti arrangiamenti di fiati ed una sezione ritmica che per la prima volta è grassa e ben presente nei solchi del disco. Una produzione complessa, che affonda in scenari drammatici e cinematici, proponendo paralleli colti, multidimensionali. Contando anche su ospiti extra come Jens Lekman (voce su "Lil Norge"), Emil Nikolaisen dei Serena-Maneesh (chitarra su "Olympic Portions" ed "Hovering Above That Hill"), Glen Galaxy dei Soul-Junk, Mark Shippy di US Maple e Chris Cohen dei Cryptacize (chitarre sull'autoironica "But I Don't WannaSing About Guitars"), il disco manifesto di Smith è sin d'ora uno dei più attendibili pretendenti al podio indie per l'anno domini 2011.

Africa Head Charge - Voodoo Of The Godsent (On-U Sound)

Esce il 28 di marzo il nuovo album di African Head Charge, giusto in tempo con le celebrazioni del trentennale On-U Sound, uno dei marchi più affermati del circuito dub continentale.
Per antonomasia uno dei nomi e dei progetti più longevi dell’intero casato, con Voodoo Of The Godsent i nostri si presentano al cospetto del loro pubblico con un surrogato di ritmi arcaici, esaltati da una produzione ed una visione pur sempre futurista. Le 12 tracce che rilanciano African Head Charge anche al cospetto di un platea di stretta osservanza elettronica, sono state prodotte come di consueto dal re Mida Adrian Sherwood presso il suo ‘Care Home’ studio a Ramsgate. Si tratta del primo album dopo il bel viaggio afro-futurista del 2005 a titolo Visions Of A Psychedelic Africa.
Messi in piedi agli albori degli anni ’80 dallo stesso Sherwood e dal percussionista Bonjo Iyabinghi Noah, gli African Head Charge hanno forse rappresentato l’ideale della in-house band, entità attorno alla quale si sono alternati molteplici collaboratori in un forsennato work in progress, in cui l’elemento umano prendeva sempre e comunque il sopravvento. Con a bordo affiliati storici quali Skip McDonald e Crocodile, in Voodoo Of The Godsent si registrano gli ingressi della leggendaria sezione fiati Crispy Horns, del funambolo Adamski, al synth analogico, del leggendario bassista George Oban e di un pioniere della dancehall quale Jazzwad. Per giunta ascolterete un disco dall’istinto variabile, in cui i ritmi in levare pur rappresentando la costante non ne costituiscono l’elemento formativo. Quello che scorre in superficie è un fiume limaccioso, tradotto in musica un breakbeat mutante, in cui elementi di musica trance e suoni da una giungla retro-futurista si alternano in spirali catartiche.

E' possibiole pre-ascoltare tre tracce dal nuovo album da questo link

I 30 anni della On-U Sound

E’ tempo di celebrazioni in casa On-U Sound, la label britannica è stata tra le realtà continentali più decise nel riprendere la tradizione dub jamaicana riportandola ad una dimensione contemporanea. Il lavoro di squadra è la fonte inesauribile di tanti capolavori che hanno plasmato la musica ritmica degli ultimi 30 anni, tanto è lungo il percorso in cui il marchio inglese ha esercitato la sua nitida influenza.
Una serie di ristampe e la pubblicazione di un disco inedito faranno da corollario all’evento, che verrà idealmente spalmato nelle settimane a cavallo tra fine marzo ed inizio aprile. I tre classici ripubblicati sono rispettivamente il debutto omonimo dei New Age Steppers, la pietra miliare dei Creation Rebel (Starship Africa) e l’ormai rarissimo Off The Beaten Track degli African Head Charge. Tutti i lavori sono stati puntualmente remasterizzati e aldilà degli evidenti contenuti innovativi d’epoca, abbiamo la certezza di assaporare una vera e propria alchimia da studio, in cui la scienza della post-produzione sembra materia addirittura marziana.

Off The Beaten Track del 1986 rimane un capolavoro, non fosse altro per la presenza di due mostri sacri quail Skip McDonald (chitarra) e Jah Wobble (basso). Un disco così fluido da rappresentare uno standard qualitativo unico nel genere.

Altra pietra d’angolo è l’omonimo New Age Steppers del 1981. Un cast spettacolare a tenere le fila di questo ambizioso progetto, che flirtava con cultura post-punk ed eredità jamaicana. La compianta Ari Up delle Slits, Mark Stewart, Style Scott dei Roots Radics ed una giovanissima figlia d’arte come Neneh Cherry, ne costituivano il fluttuante organico. La ripresa del classico Fade Away di Junior Byles, rappresentò un vero e proprio exploit commerciale per On U Sound stessa, un singolo che fece breccia nelle classifiche indipendenti del tempo.

Starship Africa dei Creation Rebel è il disco più vecchio del lotto, concepito addirittura nel 1978 da Sherwood in combutta con Charlie ‘Eskimo’ Fox, ‘Crucial’ Tony e Dr Pablo, in pratica la prima sezione ritmica ufficiale del marchio di casa. Tornare sui solchi – digitali – di questi dischi è atto dovuto. La coscienza di molti artisti e dj contemporanei – non fosse ultima l’esperienza del dubstep – deve moltissimo al ruolo spartiacque di questa gloriosa etichetta.

Disturb the Comfortable - Comfort the Disturbed

17/02/11

Il ritorno di Easy Star All Stars "First Light"

Dopo aver peregrinato in lungo e in largo nei meandri della pop music più elevata, firmando le personali interpretazioni di album di Beatles, Pink Floyd e Radiohead, per il collettivo con base a New York è tempo di un consuntivo. Sotto forma musicale s'intende. Per primo raggio (di luce) si intende proprio il primo esteso vagito discografico completamente iendito, giostrato su composizioni proprie, senza alcuna tentazione di affiancare alla sigla sociale quella di ulteriori attori protagonisti. In una discografia che prevede numeri bollenti e successi commerciali a tiotolo DUB SIDE OF THE MOON (2003), RADIODREAD (2006), EASY STAR’S LONELY HEARTS DUB BAND (2009) ed il recentissimo DUBBER SIDE OF THE MOON (2010), la nuova prova degli Esas è un album all'insegna di un reggae certamente futuribile, pur se immolato alla tradizione roots. Nel corso degli anni la formazione - spesso intercambiabile - si è costruita un invidiabile seguito di fedelissimi, sfondando il tetto dei 350,000 dischi venduti, cifre che hanno il loro buon peso internazionale. In particolare nel nostro paese la band gode di uno zoccolo duro di appassionati, foraggiato peraltro dall'apparizione al festival di Sanremo nel 2009 in veste di ospiti speciali internazionali.

Nelle 13 canzoni che compongono il nuovo album, trovano spazio 12 originali ed una dub version, mentre tra gli ospiti si segnalano le presenze di The Meditations, Cas Haley (di cui abbiamo recentemente apprezzato il debutto solista), Junior Jazz, Lady Ann e Tony Tuff. Si tratta di un'ennesima ripartenza e della dimostrazione palese di come EasyStar All Stars non si ponga limiti di sorta, nel proseguire la sua campagna 'mediatica'. Le sorprese sono sempre e comuqnue dietro l'angolo, nel frattempo godiamo di questa nuova offerta, concepita con tutti i crismi della spiritualità di deriva jamaicana.

First Light esce il 5 Aprile


15/02/11

Tape The Radio



La band viene alla luce nel marzo del 2008, quando il bassista Ben Caruso lascia la natia San Francisco pr mettersi in squadra col batterista canadese Bryan Mclellan ed il londinese Malcolm Carson, che ricopre il duplice ruolo di cantante/chitarrista. Non ci sono mezzi termini all’inizio: l’importante è arrivare, pur di vivere trincerati in studio. A Deptford si svolgono le operazioni, in un quartier generale che ha tutto meno che il comfort dei luoghi sacrali dediti al marketing più rampante. Tape The Radio si guadagnano presto la nomea di hardest working band in town, non solo per le giornate spese a costruire un’ideale scaletta, ma anche per i numerosi live che per tutto il 2010 saranno non solo motivo di grande orgoglio, ma concreto lasciapassare per gli ambienti commerciali che contano. Aprire per Band Of Skulls, Plan B, The Noisettes, Athlete e Stereophonics, sarà la strada più breve al grande pubblico. ‘Our Love Is A Broken Heart’ è il terzo singolo pubblicato dalla band, prodotto da Jim Lowe e mixato da Alan Moulder (The Killers, Depeche Mode, My Bloody Valentine) ) ed inaugura un periodo particolarmente felice per la band, che dopo aver raccolto numerosi spot sul magazine NME e su BBC 6 Music, sembra pronta al cosiddetto salto di qualità. Confermato lo stesso team di produttori dell’ultimo fortunato singolo, la band sta apponendo gli ultimi tocchi al debutto lungo, programmato per la primavera del 2011, nel frattempo una serie di apparizioni in terra italiana previste per Aprile vi aiuteranno a prendere confidenza con il brillante ed astuto pop romantico del trio, immerso negli anni ’80 ma dotato di una visione quanto mai contemporanea.

09/02/11

Il nuovo disco di Marco Parente in uscita a Marzo


A sei anni di distanza dal suo ultimo lavoro di studio, “Neve Ridens” esce a marzo “La Riproduzione Dei Fiori”, il nuovo album di inediti di Marco Parente, che torna a pubblicare in modo classico, un classico (di se stesso), che vive respira e cammina a prescindere dal supporto che lo ospita. “La Riproduzione Dei Fiori” è stato registrato e mixato al Perpetuum Mobile di Nave a Brescia ed è stato prodotto da Marco Parente con la collaborazione di Marco Tagliola. “Dopo 5 anni passati a salvaguardare il mio istinto e ad attendere le giuste condizioni per lavorare, finalmente ci siamo.” afferma Marco Parente “Da una parte l'istinto si è sfogato, dall'altra l'incontro con Pierluigi Fontana ha portato la montagna a Maometto, ovvero ha creato una struttura, chiamata Woland, che, davvero svincolata da ogni dipendenza, si propone di produrre, organizzare e promuovere ogni sorta di progetto che mi riguardi, direttamente o indirettamente. L'aveva già fatto con lo spettacolo "Il Diavolaccio" e ora lo conferma ufficialmente con una vera e propria pubblicazione: Il disco! Disco che tramavo da più di 4 anni e che ho iniziato a registrare solo dal giugno scorso, nel luogo ideale con le persone ideali.” Le persone ideali, il miglior gruppo, con cui Marco Parente ha affrontato i lavori di “La Riproduzione Dei Fiori” sono: Andrea Allulli al pianoforte, Andrea Angelucci al basso, Emanuele Maniscalco alla batteria e Asso Stefana alle chitarre. Ospiti, nel disco, anche Robert Kirby (arrangiatore di Nick Drake) che ha curato l'arrangiamento degli archi nel brano "Sempre", Vincenzo Vasi (theremin /vibrafono) e Jeppe Catalano (batteria) in "Dj J".

I brani di “La Riproduzione Dei Fiori” sono tutti scritti da Marco Parente.

Questa la track- list del disco:
“IL DIAVOLACCIO”
“LA RIPRODUZIONE DEI FIORI”
“C'ERA UNA STESSA VOLTA”
“SEMPRE”
"LA GRANDE VACANZA”
“BAD MAN”
“L'OMINO PATOLOGICO”
“Dj J”
“IL DIAVOLO AL MERCATO”
“SHAKERA BEI
“DARE AVERE”

07/02/11

Kode9 And The Spaceape - Black Sun (Hyperdub Records)

Sempre più rutilante l’universo del dubstep, termine di paragone sempre più fittizio se solo si pensa alle molteplici diramazioni di un genere che nasce sotto la stella della più radicale sperimentazione ritmica. Nulla accade per caso ed anche quella di Kode9 & The Space Ape, uno degli uomini dietro al marchio Hyperdub, è un’esperienza che parte da lontano, liofilizzando in pratica le più forsennate stagioni della dance made in Uk. La jungle che si perde nelle maglie del drum’n’bass, l’influenza mediatica della rave culture, la cultura nera e tutti gli interstizi per cui è passata la scena dei club e delle radio pirata, grime, 2-step e via discorrendo. Black Sun – la cui data di pubblicazione è prevista in aprile – è così quel bignami inaspettato che ogni cultore delle sub-frequenze vorrebbe adottare. Tra r&b futurista e frustate cosmic house – sentite a proposito gli oltre 5 minuti su cui si dipana la saga spaziale della title track, un pezzo che un Ricardo Villalobos farebbe affatto fatica ad inserire nei suoi set – il nuovo Kode 9 è metafisica della dance moderna, forma superiore, prodotto da intelligenza artificiale. Ed il gioco citazionista non si ferma certo alla superficie, tanto che con Otherman sembra di ascoltare un John Carpenter programmato per qualche diffamata sala da ballo marziana.
E lo spazio siderale sembra ancor più vicino nelle effusioni sintetiche di Kryon che vedono la presenza del mago Flying Lotus. Un commiato che rinsalda la seconda prova sulla lunga distanza di Kode 9, vera giostra del ritmo robotico.

Panda Bear - Tomboy (Paw Tracks)

Registrato nel suo studio personale di Lisbona – non a caso l’ultima traccia del disco è titolata Benfica, in onore del grande team lusitano - Tomboy rappresenta una nuova epifania per Noah Lennox, al secolo Panda Bear. Allontanandosi progressivamente dal concetto di musica ‘campionata’ che aveva cementato il favoloso Person Pitch, il nostro decide di dare forma organica ai suoi desideri, puntando maggiormente su elementi fondanti come la sei corde ed il sempre fido sintetizzatore. Prevalente rimane l’interesse per le strutture, dense, mai involute. E’ un percorso che materialmente ha interessato gli altri cospiratori all’interno di Animal Collective, che nelle rispettive fughe soliste mai hanno lesinato doti e costumi sperimentali. Limitato dunque parlare di universo indie, tanto che già col precedente parto solista Noah si era decisamente affrancato dai luoghi comuni della musica alternativa. Tanto che il nuovo album è diretta emanazione di un suo film mentale, in cui la musica assume di volta in volta un ruolo determinante. Nella narrazione, in cui si impone anche lo stile vocale di Panda Bear, incentrato su complesse armonizzazioni, si assiste ad un fluttuare tematico senza precedenti. E’ infatti un florilegio di parti strumentali cesellate con cura chirurgica questo Tomboy, lavoro in cui Noha gioca a fare l’ingegnere del suono di sè stesso.

Dopo una manciata di singoli pubblicati da etichette ‘speciali’ come Kompakt, Fat Cat, Paw Tracks e Domino, il terreno era fertile per il ritorno maggiore. Pensando paradossalmente alla produzione grassa di tripudi alternative-rock come Nirvana e White Stripes, Noha sceglie un focus diverso, optando per una grana sonora più robusta. E’ come parcheggiare in mansarda le tentazioni lo-fi per aprire i canali radiofonici e farsi cullare dalle onde FM. Ecco perché l’R&B è l’altra soluzione, per un disco propriamente stratificato. E sapete quanta musica ha ascoltato il ragazzo in vita sua? Esatto, a metterli insieme tutti quei nomi si rischierebbe di redigere un’enciclopedia indipendente. La buona notizia è che lo spirito di sintesi è ancora l’arma in più, un lasciapassare per le terre del sapere audiovisivo.

Tomboy verrà pubblicato dalla Paw Tracks l'11 Aprile 2011

Tracklisting:
1. You Can Count On Me 2. Tomboy 3. Slow Motion 4. Surfer's Hymn 5. Last Night At The Jetty 6. Drone 7.Alsatian Darn 8. Scheherazade 9.Friendship Bracelet 10. Afterburner 11. Benfica

01/02/11

Wild Palms, a Marzo l'album di debutto su One Little Indian



L’attesa è terminata, finalmente una delle più carismatiche formazioni indie inglesi arriva all’debutto. Già depositari di un immaginario esotico, i Wild Palms mettono in discussione le regole della wave britannica, liberando solari melodie post-punk che danno profondità e colori diversi a quella che è stata la grande stagione Factory. Con la produzione di Gareth Jones (Grizzly Bear/ Depeche Mode/ These New Puritans), ora stabilmente in formazione anche nel ruolo di bassista, i quattro sigillano l’uscita sulla lunga distanza con un programma di canzoni sublimi, pop-chiaroscurale, forsennato o ingentilito a seconda dell’umore del momento. Il carismatico vocalist Lou Hill è stato un enfant prodige del circuito garage londinese, mentre il chitarrista originario di Chatham Darrel Hawkins è un adoratore di Billy Childish. Chiudono la formazione l’indemoniato batterista James Parish e l’elegante Gareth Jones. Lo scenario di questa comunione stilistica è a Southgate, North London, anno del signore del 2007. Sono le passioni comuni a muovere in primis il gruppo, desideri e tentazioni artistiche da ricondurre ad un unico comun denominatore, puntando ad una progressiva evoluzione. Ed è proprio la scrittura a fare la differenza rispetto al sottobosco delle numerose indie band d’oltremanica. Un senso di drammaticità ed un dinamismo che sembra avere le movenze di un documentario autorale, sono alla base delle manifatture del gruppo. Quelle dei Wild Palms sono creazioni da indossare, vestiti per l’anima, delizie neo-romantiche. "Until Spring" diviene così una serena escursione di carattere wave, abbellita da una penna che non preclude tocchi di classe e sottili divagazioni sul tema. Per nulla intenzionati ad adagiarsi sugli allori i Wild Palms, proprio per rendere ancora più lussureggiante il loro suono hanno aggiunto una seconda chitarra nella figura di Bobby Krilic, elemento di spicco in vista dell’imminente tour europeo. Coglietene i frutti ora, prima dell’esplosione planetaria.