Qualche giorno i fa gli Endless Boogie hanno presentato il loro nuovo album ‘Long Island’ – il terzo per la cronaca, ancora fuori per No Quarter - alla popolazione newyorkese, dividendo lo stesso palco di Arbouretum ed Hans Chew. In Inghilterra – dove la critica sa essere spesso morigerata – c’è da segnalare invece lo slancio della piccola bibbia Mojo, che oltre ad intervistare la band ha gridato al piccolo miracolo, dando al disco 8 punti su 10. Uno score affatto trascurabile, se si pensa ad una formazione che in tutto e per tutto impersona l’estetica del rocker americano! Detto ciò bisogna entrare nel vortice di questo ‘Long Island’ , a quanto pare un cocktail davvero stordente. Gli Endless Boogie piuttosto che puntare all’impatto frontale, tendono a lavorare gli ascoltatori ai fianchi.
La loro è una sorta di gentile metal machine musik per avvezzi ragazzi di provincia, la sintesi di quanto di meglio prodotto in ambito hard, blues e southern. L’approccio dei cinque non conosce mezzi termini, scatti nervosi diluiti sulla lunga distanza ed una concezione del rock duro che in qualche misura sembra imparentata con il minimalismo, seppur distante da qualsivoglia tirata intellettuale. Anti-eroi per destinazione, gli Endless Boogie potrebbero rappresentare la versione più proletaria (e ricca di anabolizzanti aggiungerei) degli Oneida, non fosse altro per il fascino indotto della ripetizione. Dagli Ac/Dc agli Zz Top, dagli Allman Brothers ai Groundhogs, i riferimenti dei nostri sono solidi, ma spesso sfuggono ad ogni più ovvia catalogazione. ‘Long Island’ è il luogo in cui perdersi, in cui tornare a venerare il dio riff, una profezia su come sarà il rock nel futuro. Impietoso e straziante allo stesso tempo.
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