29/09/11

Rockman!


Tratto dal libro “Dai Carabi al Salento” di Tommaso Manfredi, Rockman è un docufilm prodotto da Davide Barletti (Fluid Video Crew) a quattro mani con lo stesso autore del romanzo, da oltre dieci coinvolto materialmente nella scena musicale del tacco. La regia di Mattia Epifani (anche lui parte integrante di Fluid Video Crew), ci introduce all’universo di uno dei protagonisti assoluti della scena raggamuffin italiana, uno dei movimenti sotterranei più identificativi di inizio ’90. Un fenomeno che progressivamente avrebbe conquistato le grandi ribalte, puntando ad una sensibile unificazione culturale, nel passaggio dai ritmi delle dance hall jamaicane alle più ardite contaminazioni con le sonorità e – soprattutto – i dialetti regionali. Rockman narra così le vicende di una generazione ribelle e di un sound esplosivo, che concepito nei centri di cultura antagonista arriva conquista progressivamente le platee dei grandi stadi.
E’ una leggenda tramandata a tempo di bassi potenti nella calura di una spiaggia d’agosto o magari tra le mura di una casa occupata. Nel particolare questa è la storia di una giungla e del suo re. Un documentario interamente dedicato alle origini del reggae in Puglia e alla storia di MilitantP: voce e chitarra dei baresi Struggle e fondatore del Sud Sound System, il trait d’union tra la primigenia scena reggae anni ’80 e l’esplosione del raggamuffin in dialetto salentino dei primi anni ‘90. Dai Different Stylee alla nascita del Sud Sound System, Struggle e Suoni Mudù: un sogno in pratica non ancora estinto e la lotta di un uomo contro un muro che fatica a venir giù. Vicende umane che più di ogni altra cosa rendono tangibile la parabola artistica dell’uomo, con un afflato emotivo affatto trascurabile.
Oltre all’interprete principale si alternano di fronte alla macchina da presa – con le loro testimonianze – i nomi di spicco di quella scena: Treble, Shanty Kranty, Dj War, Nico Mudù, Pippo D’Ambrosio, Gianluca Iodice e Papa Ricky. Tra i contenuti extra del dvd – disponibile in allegato con l’omonimo libro – tre brani esclusivi degli Struggle, a sancire anche un punto di raccordo con la scena locale di fine ’80.

Mike Patton e La Solitudine Dei Numeri Primi

Ispirato dal romanzo di Paolo Giordano – La solitudine dei Numeri Primi – e forte del contribuito all’omonima colonna sonora – Mike Patton ci regala con The Solitude of Prime Numbers un disco che trascende l’idea stessa di soundtrack.
I suoi pensieri sono spalmati in 16 tracce e gli esperimenti sonori che caratterizzano l’opera si spingono ben oltre la sua fama di ossessivo produttore e ricercatore. In tutta la sfaccettata carriera di Patton questo è il disco dai toni più contemplativi, tanto che nelle parole dello stesso autore si parla letteralmente di una ‘dipartita sonica’. E’ Ipecac ad immettere sul mercato a novembre il risultato di questo sforzo congiunto, perchè Mike ha colto unitamente spunto dal libro come dalla pellicola, trovando un compromesso di sorta tra le pennellate d’inchiostro di Giordano e le immagini di Saverio Costanzo (figlio d’arte)
Cinefilo per definizione, Patton ha già dimostrato in passato di gradire l’accostamento tra il mondo della celluloide e lo sfaccettato universo musicale. Non a caso la deliziosa raccolta dedicata a Morricone – Crimes & Dissonance – usciva per la sua label, ed il nome di uno dei suoi progetti – il recente Mondo Cane – prende spunto dall’omonimo documentario di Gualtiero Jacopetti.
Entrando nello specifico, siamo al cospetto di un disco strumentale, in cui la voce di Patton è usata di rado ed in termini di pura effettistica, l’enfasi è sugli ambienti, glaciali, sinistri, come del resto indicato dai temi ricorrenti nel libro. Che pubblicato in Italia nel 2008, sfondò il tetto del milione di copie vendute, arrivando ad essere tradotto in ben 30 lingue. Del 2010 è invece l’omonimo film, un vero e proprio colpo allo stomaco, una sorta di reinterpretazione gotica di quelle stesse pagine. Patton ha così trovato terreno fertile in cui muoversi, avvezzo da decenni a tematiche spigolose (si pensi a quello stralcio di ordinaria follia che era Violenza Domestica, nel secondo lp dei Mr.Bungle Disco Volante) e sonorità non meno di confine (i due celebrati album sulla Tzadik di John Zorn, bagni in un’avanguardia cameristca).
Il disco è classificato con i 16 numeri primi, proprio per rispettare gli intenti del progetto. Ennesima riprova dello spirito peregrino di uno tra i più illuminati artisti contemporanei.



27/09/11

Wooden Wand - "Briarwood" (Fire Records)

Quando James Jackson Toth, altrimenti noto come Wooden Wand, è stato invitato a registrare un sette pollici split dal suo vecchio amico Duquette Johnston (originariamente nei Verbena, gruppo alternative-rock che sul finire dei ’90 ebbe anche una parentesi major) con la band Gum Creek Killers per l’etichetta Communicating Vessels, il suo primo impulso è stato quello di inviare un pezzo dal suo sterminato e leggendario archivio di inediti. Ma Duquette ha pregato Toth di farle visita a Birmingham, dove entrambi hanno registrato i due lati del singolo servendosi della stessa band. Il tutto accadeva all’ Ol Elegante Studios di Homewood, Alabama. Toth, entusiasta, disse che l’esperienza andava ripetuta ed immediatamente si organizzò per dare un seguito esteso all’episodio.
Nella forma di un album, ora prodotto dall’iper-attiva Fire Records. Di nuovo la Duquette mette a disposizone la stessa formazione con lo stesso studio per incidere Briarwood. C’è anche lo zampino di Les Nuby (Vulture Whale, ex-Verbena) nella veste di produttore. Toth chiama a sè anche i vecchi amici Brian Lowery e Jody Nelson dei Through The Sparks, per dar vita ad un’inedita formazione dal nome Briarwood Virgins.
Libero di muoversi in studio e senza costrizioni di sorta, Toth realizza forse l’album più 'rock and roll' della sua carriera. Abbandonata la chitarra acustica – presente in un solo brano – e le atmosfere folk meditabonde delle ultime pubblicazioni (pensiamo al disco Death Seat su Young God), il nostro abbraccia istintivamente il Bob Dylan elettrico come l’eroe canadese Neil Young.
Nelle parole del protagonista, il disco voleva recuperare lo spirito di Second Attention, l’album edito nel 2006 da Kill Rock Stars. Nei fatti si palesa un disco dai toni classici.

Orchestra Of Spheres - "Nonagonic Now" (Fire Records)

La scena underground neozelandese è indissolubilmente associata ad una label come Flying Nun e più in generale ai prodromi di quello che poi sarebbe comunemente inteso come lo-fi. Dopo aver suonato ad innumerevoli feste private, spettacoli di strada e concerti ovviamente autofinanziati, l’orchestra delle sfere, ci dice che in Oceania tira un altro vento.
Sin dai loro abiti – tagliati con grande vezzo estetico – cogliamo come l’attenzione sia precipitata sui colori e sulla spettacolarizzazione. Distanti dunque dal’intimismo dei connazionali che avevano trasbordato il post-punk in capsule avant, i quattro ragazzi che compongono la ciurma si sbracciano per dirvi che il loro party è davvero esclusivo.

In questo baillame convivono numerosi aspetti non solo della musica ritmica occidentale, ma anche di quella africana ed orientale. C’è la ripetizione dei congotronics, gli squarci poliritmici dei Boredoms, l’impronta rumorista del jazz libero. Non un momento di stanca in questo 'Nonagonic Now', in cui spiccano gli strumenti auto costruiti dalla stessa band. E’ un caos ordinato, in cui ogni piccolo frammento sembra tornare per incanto al suo posto. Registrato presso il Frederick Street Sound ed il Light Exploration Society, due dei club autogestiti che coinvolgono gli stessi membri del gruppo, il disco è la punta d’iceberg della vitale scena di Wellington, luogo destinato ad insinuarsi prepotentemente tra le mappe dei creativi di mezzo mondo.

Bagnatevi in questo pozzo d’idee, ora!

PRIMAL SCREAM & MC5 - Black To Comm: Live at The Royal Festival Hall London Meltdown

Mai il prestigioso festival inglese Meltdown è parso più fedele alla propria linea come nel giugno del 2008, quando i Primal Scream hanno avuto l’opportunità di dividere il palco con uno dei loro miti dichiarati: gli MC5 di Detroit. Il 24 di giugno si consumava l’incontro storico, sotto l’egida dei Massive Attack, curatori della manifestazione in quell’occasione.
Bobby Gillespie non era nella pelle, e dopo essersi sperticato in lodi per la formazione di Bristol - capace di rendere un sogno realtà – poteva confrontarsi espressamente con uno dei suoi punti di riferimento post-adolescenziali.
‘Ero solito prendere funghi magici od acidi mentre ascoltavo gli MC5, immaginando di essere presente ai loro show al Grande Ballroom. Ora ci siamo, a 40 anni da quelle gesta, dividiamo lo stesso palco. Ho trovato un biglietto del concerto l’altro giorno, mentre facevo pulizia in casa. Ci ho ripensato, è stato pazzesco...’
Con grande sorpresa degli autori di Screamadelica, il mutuale rispetto era corrisposto. Tant’è vero che il bassista degli Mc5 Michael Davis non ha perso occasione per ribadire l’affetto nei confronti di Gillespie e soci.
Il set si apre con due micidiali versioni di ‘Accelerator’ e ‘Miss Lucifer’, per poi sfociare nella nuovissima ‘Suicide Bomb e nelle atmosfere mesmeriche di ‘Uptown’. Dopo aver fatto capitolare il pubblico ai loro piedi con una stellare versione di ‘Kowalski’ e la doppietta conclusive di ‘Shoot Speed Kill Light’ e ‘Swastika Eyes‘, la scena si apre sui campioni detroitiani Motorcity Five. Davis, il chitarrista fondatore Wayne Kramer ed il batterista Dennis ‘Machine Gun’ Thompson sono raggiunti dal secondo chitarrista Adam Pearson e dal cantante William DuVall (Alice In Chains). Si parte con ‘Ramblin‘ Rose‘. Manca davvero poco per intaccare le fondamenta del teatro stesso.
E un autentico sfoggio di cultura proto-punk, con l’inno ‘Kick Out The Jams‘, ‘Come Together‘, ‘Motor City Is Burning’ ed alcuni dei pezzi forti da Back In The USA come ‘Call Me Animal‘ ed ‘American Ruse’. Uno dei pezzi preferiti degli Scream - ‘Sister Anne’, dal terzo album High Time – segue a ruota, con l’armonica di Kramer a rimpiazzare l’originale sezione fiati. Duvall sembra assolutamente a suo agio nei panni di frontman.
E’ il preludio all’invasione di palco. Due cantanti, 4 chitarristi, due bassisti, due batteristi ed un pianista sono allineati quando Bobby – facendo il verso a Jim Morrison – urla: ’Is everybody in?’
La cerimonia sta per iniziare. ‘I Can Only Give You Everything‘ dei Five è seguita a ruota da ‘Skull X’ e ‘Movin’ On Up’ degli Scream. La platea è in delirio…
Non resta che riascoltare queste due band fondamentali e rivedere le immagini in questione nel doppio cd (con DVD allegato) che Easy Action ha ben pensato di regalarci in questo caldo autunno. Tanto per ribadire: Kick Out The Jams motherfucker!


26/09/11

Arabrot - Solar Anus (Fysisk Format)

Qui nessuno ha voglia di scherzare, men che meno gli Arabrot, norvegesi dai solidi principi, cui il rock piace nelle forme sicuramente più grasse e primitive. Il fatto stesso che per il loro quinto album si siano rivolti a Steve Albini è sinonimo di una comunione d’intenti precisa. Albini – che notoriamente ce l’ha a morte con gli hippies - ha accolto a braccia aperte questi neo-vichinghi presso il suo Electrical Audio di Chicago, fornendo un rinomato banco di regia ed attrezzature per lo più analogiche. Tanto basta per confezionare l’ennesima scorribanda nei meandri del più truculento noise-rock, che certo non perde occasione di calarsi nelle più oscure voragini del metal e del post-core.
Con un titolo assai gentile – Solar Anus – gli Arabrot ci tengono a far sapere che il rock’n’roll non è materia per educande. Il disco scorre così tra devastanti numeri sludge e scampoli di metal-core rallentato. Sono strappi nervosi che in comune hanno la malsana passione per tutte le musiche chitarristiche degli ultimi 30 anni. Da queste parti sembrano essersi dati appuntamento Melvins, Eyehategod e Buzz-o-ven, oltre a qualche dimenticato eroe di casa Amphetamine Reptile.
Rumor bianco. Sappiatelo. Il titolo dell’album – unitamente ad altri brani in scaletta – è ispirato al letterato francese Georges Bataille. Gli Arabrot condividono con l’autore la stessa passione per gli estremi, gli alti ed i bassi in natura. Il lato animalesco dell’uomo e la sua ispirazione divina, la purezza ed il sudiciume. All’ombra del sole, si consuma questo spaventoso rituale, che non ha alcuna intenzione di riportarsi alle troppe addomesticate variazioni sul rock contemporaneo.

"Underground Album of the Month" Mojo
"It's a fucking triumph" 9/10 Drownedinsound
"As unsettling as a thunderstorm approaching a medieval battle" 8/10 NME
"One of Europe's best heavy rock bands" 5/5 Stool Pigeon

Årabrot - Madonna Was A Whore by TigerFysiskFormat

Milagres - Glowing Mouth (Memphis Industries)

‘Glowing Mouth’ è l’album di debutto del quintetto newyorkese Milagres (miracoli in portoghese), ed è ancora una scelta che premia la politica d’espansione dell’inglese Memphis Industries, sempre pronta a manifestare il suo gusto oculato nell’universo indie.
C’è tanta grazia nella musica dei ragazzi di Brooklyn, un suono languido, che vive di luce propria, sorretto dalla performance vocale di Kyle Wilson. Una storia quanto meno drammatica la sua, che nel 2009 durante un’escursione sulle montagne della British Columbia cade da uno dei picchi più alti rischiando serie conseguenze fisiche. Pregiudicato da una lunga riabilitazione ospedaliera, Kyle pensa seriamente di abbandonare la musica, ma è proprio durante questi lunghi mesi di recupero che il nostro – ispirato da un nuovo senso di vulnerabilità – torna con rinnovata passione a scrivere.
Una volta ristabilitosi a New York, con un pugno di brani su cui lavorare, Kyle si ricongiunge ai sodali Fraser McCulloch (basso, voce, tastiere), Eric Schwortz (chitarra, voce, percussioni), Chris Brazee (piano, tasiere) e Steven Leventhal (batteria, percussioni) per punteggiare quello che diverrà Glowing Mouth.
Così dall’epica traccia che titola l’album passando per la bucolica euforia di ‘Here To Stay’e l’ipnotica bellezza di ‘Moon On The Sea’s Gate’ è tutto un fiorire di idee ed ispirazioni alte, con un rispetto per la natura che si riflette in descrizioni puntuali di montagne isolate e spiagge vuote. Come se la fuga dall’urbanizzazione fosse una precisa dottrina seguita dal cantante Kyle. Tappeti elettronici e squarci di pop psichedelia sono il cuore di questo progetto, tappa fondamentale al crocevia tra bedroom pop ed elettronica gentile.

Sandro Perri - Impossible Spaces (Constellation Records)

Nelle vesti di produttore, ingegnere del suono e re-mixer il canadese Sandro Perri ha lavorato con e per Owen Pallett, Grizzly Bear, Stephen Malkmus e Devon Sproule. Le sue spiccate doti di songwriter nonché di organizzatore di suoni lo hanno così portato a sviluppare numerosi alter-ego. Dalle prime gestazioni minimal-dub di Polmo Polpo alla passione recondita per Arthur Russell, sfociata nel progetto avant disco Glissandro ’70. Ma è con il suo vero nome che ci regala forse le emozioni più epidermiche, con produzioni sotto l’egida Constellation ed un savoir faire che ha del miracoloso.

Il nuovo Impossible Spaces non è da meno, tanto che a 4 anni dal suo predecessore l’artista ha avuto tutto il tempo necessario a focalizzare nuove strutture, facendo convivere il gusto per il ritmo con soavi arrangiamenti acustici. In un solo termine si potrebbe parlare di lavoro avventuroso: c’è voglia di stupire, tentando accostamenti solo apparentemente azzardati. La logica è quella di trovare la fluidità nella complessità, con una moltitudine di suoni affastellati che puntano in direzione di una forma canzone moderna. Su tutto la voce angelica di Perri, un faro nelle notte buie invernali, un usignolo che indica la strada maestra.

La sensazione forte è che Perri cerchi una nuova verginità di album in album, riprova ne sono i sette brani in scaletta, che puntellano una carriera costellata da intrepidi esperimenti. Accompagnato – tra gli altri – da un polistrumentista come Ryan Driver (qui al flauto, ma noto per i suoi spettacolari dischi in solo per Fire) – il nostro sceglie la via di un indie-rock decisamente progressivo, non fosse altro per il numero degli strumenti utilizzati ed il ricorso propedeutico a fiati ed archi. Tant’è vero che questo Impossible Spaces può davvero aspirare ad una risposta alternativa ai fasti degli Steely Dan. Certi che Perri non si risenta per l’accostamento

Love And Light - SANDRO PERRI by Constellation Records


A volte tornano: Misfits - "The Devil's Rain"

Con a bordo il tenutario unico della sigla – il gigantesco bassista Jerry Only – ed un’altra leggenda del punk californiano come Dez Cadena dei Black Flag, i nuovi Misfits non temono certo ingombranti paragoni con il passato, portando avanti un marchio di fabbrica istantaneo, che dal lontano 1977 ha praticamente affascinato più di una moltitudine di fans. Riprova del rinnovato interesse nel gruppo ne è la pletora di ristampe – più o meno ufficiali – che a cadenza regolare si affacciano sul mercato. Ricostituitisi già in occasione dell’ album Famous Monsters su Roadrunner – con cui avevano salutato il nuovo millennio – i Misfits sono di nuovo in carreggiata grazie al supporto della leggendaria indie label Megaforce. Guarda caso proprio l’etichetta che lanciò i Metallica, da sempre loro grandi estimatori.
Influenza di proporzioni epiche su tutta la genia di formazioni horror e gothic punk, i Misfits con il loro immaginario da b-movie, sono ben presto divenute icone ed il calore dimostrato da sostenitori più giovani nelle recenti apparizioni europee è lì a dimostrarlo.
“The Devil’s Rain” con i suoi 16 titoli a tema si appresta ad entrare nel novero dei loro classici, facendo fede ad uno stile che predilige stralci melodici e cori sing-along. “Twilight of the Dead”, “Dark Shadows”, “Curse of the Mummy’s Hand” si apprestano a divenire classici immediati. Prodotto da Ed Stasium (che in carriera ha lavorato coi Ramones di “Road to Ruin” e “Too Tough to Die”, nonchè coi ricostituiti Misfits di “Famous Monsters” nel 1999), il disco ha un ritmo incalzante ed un suono tagliente, che valorizza in pieno le folate dark a cui i nostri ci hanno da sempre abituati.
Rivive anche la loro mascot “Fiend” disegnata per l’occasiona dal fumettista Arthur Suydam (disegnatore per la popolare serie Marvel Zombies). I nuovi ritratti dei membri della band sono stati curati dal leggendario fotografo Mick Rock, un uomo che ha provveduto a valorizzare l’immagine di gente come Bowie, Iggy, Queen, Debbie Harry e Ramones
Tornano le leggende viventi del più macabro rock’n’roll e tutto il mondo alternativo è entusiasta di riscoprirli in questa rinnovata veste.

Active Child - You Are All I see (Vagrant Records)

Active Child è ben lieto di condurci per mano tra le pieghe del suo album di debutto per Vagrant, a titolo You Are All I See. Dopo l’Ep Curtis Lane, che aveva adeguatamente scosso i più attenti media americani (nonché britannici, con un puntuale articolo del NME), è tempo di crescere con un disco che ha tutti i numeri per candidarsi a sublime manifesto di soul elettronico.

Nel brano “Playing House” non a caso troviamo nelle vesti di collaboratore il cantante r&b di estrazione lo-fi How To Dress Well. Tanto è bastato a Pitchfork per gettarsi a capofitto sulla faccenda, con uno streaming esclusivo del brano sul proprio gettonatissimo sito.

Pat Grossi, che è poi il depositario unico della sigla, è stato immerso nell’universo musicale sin dalla più tenera età, vantando anche trascorsi nel coro della chiesa locale. Ben presto è stato l’indie-rock a rapire le sue attenzioni, portando a nuove interessanti ibridazioni. Un’anima black si è poi insediata nel suo corpo, portandolo così a ricercare combinazioni ritmiche che prendessero tanto dall’hip-hop quanto dal breakbeat e dal soul.

Per creare un’adeguata tensione emotiva, Pat ha fatto ricorso a macchine sufficientemente antiquate, con sintetizzatori che replicano il suono electro degli anni ’80 ed i puntuali inserti di drum machine ed handclaps. E’ il tappeto ideale su cui si insinua la voce cristallina di Grossi, le cui qualità lasciano davvero intravedere un legame con le sue primordiali esperienze liturgiche.
Il disco è stato prodotto da Ariel Rechtshaid (We Are Scientists, Cass McCombs, Glasser) con sorprendente puntualità. Grossi è stato già in tour con nomi di grande spessore come James Blake, School Of Seven Bells, White Lies e White Rabbits.

A new star is born?


23/09/11

Vintage Trouble - The Bomb Shelter Sessions

Direttamente da quella fucina di talenti artistici che è Los Angeles, giunge a spron battuto un bastimento carico di sensazioni forti. In altre parole quella che potrebbe rivelarsi un’autentica next big thing. Loro si chiamano Vintage Trouble e - benchè al debutto lungo con questa sigla – sono un gruppo di veterani che da anni distribuisce scosse d’adrenalina in lungo ed in largo per la costa occidentale. Il loro suono elettrico prende in prestito elementi dal soul, dall’ r&b e dal più adrenalinico rock’n’roll, ridefinendo un’attitudine vintage comunque contemporanea. Ty Taylor (voce), Nalle Colt (chitarra), Rick Barrio Dill (basso) e Richard Danielson (batteria) sono i Quattro alfieri di questa piccola rivoluzione artistica.
Vocalist nero già a fronte dei Dakota Moon – che incisero sul finire dei ’90 per Elektra, dopo una serie di apparizioni come opening act di Tina Turner - Taylor definisce la musica dei Vintage Trouble soul primitivo, sgombrando già il campo da ogni equivoco: in altre parole la poesia della musica nera al servizio di arrangiamenti ruspanti. La passione per il soul/rhythm & blues dei tardi ’50 unitamente alla pulsione del rock ‘n’ roll anni ‘60. Il nome stesso della band si ricollega ad una tradizione secolare come quella del blues, tanto che il padre di Taylor proprio a quella ‘religione’ aderiva. Usi e costumi che avrebbero in qualche misura ‘corrotto’ l’attitudine dello stesso figlio. Formatisi appena un anno fa i Vintage Trouble hanno presto dato fuoco alle polveri, forti proprio di esperienze cruciali nel circuito di L.A. Influenzati nella stessa misura da Otis Redding e Led Zeppelin, i ragazzi sono presto confluiti sotto l’la protettrice del manager Doc McGhee (Bon Jovi, Motley Crue, KISS, Guns N’ Roses e James Brown) e dell’agenzia di tour internazionale ITB (Aerosmith, Lenny Kravitz, Jamiroquai).

I Vintage Trouble sono una band che esplode letteralmente sul palco, ed il loro atteggiamento è quello di rendere costantemente partecipe il pubblico. Più che una performance, la loro è intesa come una festa multicolore. Il fine ultimo della band è quello di far calare il sudore dalle mura della sala ed osservare la gente vestita di tutto punto abbandonare il club con i vestiti quanto meno stropicciati.

Dal singolo apripista “Nancy Lee” all’impertinente ritmo di “Blues Hand Me Down” fino alle provocazioni di “Not Alright By Me” ed al soul di “Nobody Told Me”, ci sono tutti i numeri per compiere il delitto perfetto, grazie a melodie prepotenti, chitarre ruvide e testi che sembrano davvero senza tempo. Il gruppo sarà presto in tour in Europa come spalla agli fm rockers Bon Jovi, un’ulteriore occasione per sconvolgere nuove ed eclatanti platee.

Per farvi un'idea della band date un'occhiata ai loro videoclip...





Sharon Jones & the Dap-Kings - Soul Time!

Numeri uno incontrastati della contemporanea scena soul, Sharon Jones & the Dap-Kings hanno sviluppato un timbro riconoscibilissmo, confermato anche dalla raccolta Soul Time! che fa ordine tra le loro numerose b-side e partecipazioni a compilation, attingendo così da un repertorio parallelo non meno prezioso. I dodici brani selezionati personalmente dalla Daptone sono tutti esclusivi a loro modo.

Le due parti dell’apertura Genuine Pts. 1 & 2 rimandano al Godfather of soul ed ai suoi JB’s per via degli arrangiamenti sferzanti ed i ritmi sincopati cui i Dap-Kings ci hanno abituato da tempo. Proprio queste performance hanno consentito alla Jones di guadagnarsi l’appellativo di “the female James Brown.” Nonostante questo singolo sia stato campione di vendite, fa qui l’ersordio sulla lunga distanza. Longer and Stronger, scritta per il suo 50simo compleanno, è un sostenuto mid-tempo, celebrazione dello spirito temerario della Jones, che sempre con grande determinazione ha costruito la sua piccola scalata al successo. Lo ascolterete per la prima volta in questa raccolta. Il tema del potenziamento è affrontato in “He Said I Can”, un energico numero che ci ricorda le sortite degli Isley Brothers nei primi settanta, mentre “I’m Not Gonna Cry” ci porta indietro al raw funk dei brani d’apertura, grazie ad un intenso solo di sax tenore e ad una feroce interpretazione vocale. Anche “When I Come Home”, da tempo un loro standard dal vivo, è presente per la prima volta su disco.

“What If We All Stopped Paying Taxes?” è un’eccezionale brano di denuncia, costruito su un groove pazzesco, accentuato dal lavoro alle congas del leggendario Johnny Griggs (del giro JB’s) mentre Settling In è un micidiale blues. “Ain’t No Chimneys in the Projects” è il loro contributo ‘natalizio’ che non stona affatto al fianco di “New Shoes”, pezzo killer che recupera tutta l’intensità del suono Motown, disegnando addirittura traiettorie vicine a quella ‘generazionale’ These Boots Are Made For Walking di Nancy Sinatra. Con Without A Trace ci si sposta a Memphis, mentre la chiusura spetta ad una rilettura da brivido di Inspiration Information – a firma Shuggie Otis – già ascoltata nella compila a tema Dark Was The Night . Un’istituzione senza mezzi termini Sharon Jones & The Dap-Kings con Soul Time! tornano a stringere con forza lo scettro del soul funk, ora e per sempre!



Tornano i Rocket From The Tombs! La reunion dell'anno?

Dei numerosi incontri epocali nella storia del rock sono per l’appunto piene antologie e sussidiari, spesso è una scintilla a generare le comunioni più folli, spesso bisogna retrocedere di qualche passo per cogliere la reale fisionomia di un progetto. Prima che il punk divenisse fenomenologia di massa, a Cleveland, Ohio, c’era un quintetto che nel grigiore urbano avrebbe costituito un vero e proprio movimento contro-culturale. Il nome dei Rocket From The Tombs varca la soglia stessa della leggenda. Questa sdrucciolevole superficie d’appoggio avrebbe anticipato le gesta di due formazioni a dir poco seminali. Da una parte i Pere Ubu di David Thomas, luogo di partenza ideale per quello che comunemente viene definito rock d’avanguardia, dall’altra i ben più temibili Dead Boys dell’eterno bad boy Cheetah Chrome, istituzione del più anfetaminico punk.
Il paradosso, semmai, è che la carriera dei Rocket From The Tombs non è mai stata documentata dettagliatamente e spesso si è dovuto ricorrere a lavori ed assemblaggi postumi pur di cogliere la portata (quasi) epocale della loro musica. Ancora una volta è l’inglese Fire Records a correre ai ripari. E – udite, udite – questo Barfly (chiaro il riferimento al vate Chuck Bukowski?) è in pratica il primo album da studio dei nostri. Ad appena 37 anni dal loro battesimo.
Unitamente a questa fatica da studio, giungerà la ristampa della collezione di incisioni dal vivo (risalente al 2002 ed in principio licenziata da Glitterhouse) 'The Day The Earth Met the Rocket From the Tombs'.
Rimettendoci alla storia scritta, i cinque di Cleveland chiusero i battenti nel 1975, anche se la loro ombra si estese direttamente sulle incarnazioni successive. “Ain’t It Fun” sarebbe divenuto un cavallo di battaglia dei Dead Boys, mentre “Final Solution” entrerà definitivamente nell’immaginario di ogni fan dei Pere Ubu.
Le parole di un sorprendentemente asciutto David Thomas a questo punto: “sono certo che se avessimo registrato un disco da studio negli anni ’70, non sarebbe stato affatto dissimile da Barfly. Dovete semplicemente focalizzare le idee aldilà del grunge e degli espedienti lo-fi’”.
Trentasette anni di attesa che ci restituiscono una formazione integra, anche nella line-up originale, se si fa eccezione per gli innesti del più recente batterista dei Pere Ubu (Steve Mehlam, anche all’organo) e dell’ex-Television Richard Lloyd (alla seconda chitarra). From here to eternity?

Da questo link è possibile scaricare il brano I Sell Soul in mp3

Dirty Beaches - Badlands (Zoo Music)

Badlands è l’album di debutto di Dirty Beaches, in verità una one-man band con ultimo domicilio noto a Montreal, pur se con dna genetico che parla di Hawaii, China, Taiwan e chissà quale altra località esotica. Figlio della rinnovata cultura per le musicassette – unitamente a quella del file sharing aggiungiamo – passionale emulo di Elvis Presley ed Alan Vega, il nostro sta facendo per il rockabilly quanto Ariel Pink ha fatto per il rock più radiofonico. E questo Badlands sin dai colori grigio seppia della copertina parla di un uomo misterioso, posseduto dall’ideologia ‘on the road’. Alex Zhang Hungtai è stato da sempre affascinato dalle storie di fantasmi. Per lui il diavolo può materializzarsi in diverse forme, giusto per spaventarti a morte. Fatalista, non c’è che dire. Dalle murder ballads che in maniera poco fedele abitano la seconda parte del disco, ai più paludosi scenari rock’n’roll della prima facciata, è tutto un rifarsi ad un immaginario d’epoca. Pellicole di serie b, thriller in slo-motion, sicari spiritati e canzoni d’amore sussurrate al chiaro di luna.
Anche Badlands è frutto di un recupero retro-maniacale. In cui scenari passatisti vengono rivisti con l’ottica imperturbabile di questo inizio decennio. Una decadenza che appare come qualcosa di esoterico, in queste combinazioni impreziosite da magici giochi di specchi.
E non c’è forse musica dal piglio più cinematico in circolazione, tanto che da David Lynch a Jim Jarmusch, passando per Quentin Tarantino e Wong Kar Wai, sono diversi i cineasti che hanno definito lo schema mentale di Alex, di per sè personaggio dall’immagine pazzesca e magnetica.
Sono i fifties della generazione internet e se in sottofondo vi pare di scorgere un riff dei Cramps od una battuta marziale dei Suicide, sappiate pur sempre che questo è il 2011, e lo sconvolgimento telematico può aver davvero alterato il corso della storia.

Non perdetevelo nelle prossime date italiane:
17/10/2011 - Milano - Rocket
18/10/2011 - Torino - El Barrio
19/10/2011 - Roma - Animal Social Club
20/10/2011 - Ravenna - Bronson
21/10/2011 - Cavriago (Re) - Calamita





Kuedo - Severant (Planet Mu)

Al suo debutto sulla lunga distanza Jamie Teasdale – in arte Kuedo – ha realizzato un album che riprende certo le istanze della intelligent dance music, virando anche le asperità dubstep (esposte in maniera esemplare col suo precedente duo Vex’d) verso atmosfere più sospese ed eteree. Scrollatosi di dosso molti dei luoghi comuni della moderna tecnologia, ad un esteso banco di regia Jamie ha preferito un’espressione più pura e sincera.

‘Severant’ guarda così coscienziosamente al passato, ristabilendo linee di confine tanto con i corrieri cosmici quanto con l’avanguardia elettronica europea. I primi nomi a balzare alla mente sono quelli di Tangerine Dream e Vangelis, musicisti che di un’attitudine futuribile avevano già fatto un manifesto negli anni ’70. Ma c’è dell’altro, perché l’attitudine urban non sembra affatto sopita, e qualche beat ‘grasso’ subentra nella gestazione del disco, a rinverdire un amore adolescenziale per il più creativo hip hop.

E’ così che Severant supera a destra anche le estensioni più celestiali del pop hypnagogico, inseguendo il sogno dei compositori d’avanguardia seventies e le punte più lisergiche della dance di fine anni ’80. Il denominatore comune appare il viaggio, non più interstellare, ma confinato ad una dimensione quotidiana. Una liberazione che avviene quasi ad occhi aperti.

Sentimenti melanconici costituiscono la spina dorsale emotiva del disco e Teasdale per riprodurre fedelmente quel feeling ha fatto ricorso ad una strumentazione per lo più analogica, seppur filtrata attraverso plug-in moderni.
Sono scene da film quelle di Severant e se proprio pensavate ad un nuovo Blade Runner in musica, questa potrebbe rivelarsi una palpabile alternativa.

Ritorna il progetto Evangelista con un nuovo album su Constellation Records

Se mai fosse possibile parlare di un’eroina musicale contemporanea, Carla Bozulich ambirebbe di diritto allo scomodo trono. Operativa nell’ultimo decennio con la sigla Evangelista – dopo una carriera spesa a fronte dei temibili industrial-rockers di Los Angeles Ethyl Meatplow e dei ben più noti alternative-country rockers Geraldine Fibbers (con quel fenomeno di Nels Cline alla chitarra) – la nostra ha rifinito i confini tra canzone d’autore, poesia urbana e musica d’avanguardia. Il suo quarto album come Evangelista conferma una sfida artistica, supportata in maniera perentoria dalla canadese Constellation. Questo nuovo disco amplia se possibile i confini del suo spettro sonoro, dove il lirismo e le sue distinte doti vocali sono ancora al centro del progetto. In Animal Tongue è anche una storia di vita, làddove la Bozulich abbandona la città degli angeli, in vista di un’esistenza nomade, frutto delle sue numerose collaborazioni nei diversi angoli del mondo occidentale. Tanto che la nostra è divenuta presenza fissa sia nei circuiti rock meno tradizionali che negli appuntamenti di stampo avant. Il disco è stato registrato in diverse località, a testimonianza dello spirito errante della nostra, trascinata dalla forza degli eventi ed in preda ad un flusso creativo di rare proporzioni. E’ un disco dai tratti più intimisti, riflessivo, sospeso in una dimensione onirica. Perché la realtà della Bozulich è davvero sfuggente e gli elementi contingenti quanto meno minimali. La fida Tara Barnes è al basso, mentre gli arrangiamenti di un musicista stagionato come Dominic Cramp – piano ed organo – virano su tese atmosfere classiche. Il trio di base è supportato da Sam Mickens (The Dead Science), Shahzad Ismaily (Laurie Anderson, Secret Chiefs III, Sam Amidon) e John Eichenseer (jhno), presenti in diverse trace del disco. E’ forse questo l’album più sperimentale della Bozulich, forte delle sue innumerevoli frequentazioni nei circuiti di confine e pronta a rilanciarsi oltre ogni asfissiante steccato indie.

Da questo link è possibile scaricare la traccia "Artificial Lamb" in mp3

Ascolta l'album in streaming:
In Animal Tongue - EVANGELISTA by Constellation Records