Assemblata da Fred Ventura - musicista, critico e memoria 'viva' di quella scena - New Wave Italiana è la raccolta definitiva sugli sviluppi della cosidfetta 'nuova onda' nel nostro paese. «Quel che facciamo è una nostra interpretazione della notte, della città, del sentirci vampiri e non ghettizzati...», confessavano nel marzo 1980 alla rivista “Popster Rock” (servizio sulle “Brigate Rock” nostrane firmato da un certo Red Ronnie...) degli ancora adolescenti Neon. Puro “Twilight” con alcune decadi d’anticipo, e in sottofondo Ian Curtis che canta: “...To the centre of the city where all roads meet/waiting for you”. Chi poteva riuscirci meglio, del resto? Cupi, übercool, slegati da qualunque lacciuolo storico o geografico nel loro essere interamente “elettronici” (forse i primi in Italia, addirittura), ma al tempo stesso muscolari, quasi metal, e per la naturale predisposizione metronomica della drum machine, di certo più riconducibili alla (odiata) disco che al rock comunemente condiviso.
Quattro anni esatti dopo – marzo 1984 – sarebbero finiti sulla copertina di “Rockerilla” come migliore rock band italiana del 1983” secondo il plebiscito dei lettori, dichiando con grande lucidità ad Alessandro Calovolo: «Non vogliamo fare musica commerciale, vogliamo provare a cambiare il gusto della gente per essere considerati commerciali».
Mentre Firenze si godeva il suo irripetibile momento di neo-Rinascimento, il resto della penisola – capitale e “capitale morale” incluse – non è però che ridesse. Quella che faceva da sfondo alla prima generazione post-punk e new wave era un’Italia rigida, intorpidita, vittima di una “postmodernità istantanea” che, al solito, provava a sradicare – ma troppo repentinamente, senza anestesia – le radici contadine, riverniciando l’antico casolare di colorini fluo, sostituendo al focolare col paiolo una videoinstallazione di Nam June Paik e alle scarpe grosse un paio di Dr. Martens. Un’Italia concentrata in un faticoso processo di adeguemento alla contempraneità – come capì per primo e raccontò meglio di chiunque altro Pier Vittorio Tondelli, le cui pagine sulla lieta intellighenzia fashionista e culturalista, e sulla malinconia che ti coglieva al bancone di certi videobar, rimangono ineguagliabili anche a distanza di decenni.
Non è un caso se le band ripescate dentro questa raccolta – molte provenienti da quell’inesauribile serbatoio di decantazione e riflessione che fu ed è tuttora la provincia italiana – se da un lato sicuramente incarnarono l’entusiasta adesione ai tempi nuovi e ai nuovi suoni di allora (quelli della prima tecnologia finalmente quasi alla portata di tutti), dall’altro ci raccontano una realtà un po’ meno sorridente rispetto alla favoletta “anniottanta” che andava per la maggiore in tivù e sui giornali. A differenza dell’Italia, che nei palinsesti delle prime Reti private così come nelle interviste ai manager cosmopoliti piaceva raccontarsi ottimista e iperattiva (24 ore su 24!), le oscure e melanconiche band della new wave italiana mettevano in scena qualcosa di irrisolto, di cristallizzato: probabilmente un trauma (gli anni ’70?) dal quale non ci si era mai completamente ripresi.
Rispetto ai loro cugini inglesi – Clash in primis, poi Pop Group, 23 Skidoo, e Cabaret Voltaire – le band della new wave italiana vivevano in un mondo in cui era assente qualsiasi esperienza diretta di “multiculturalità”. La loro fu quindi una faccenda tutta di testa, da cameretta – pre-internet, letteralmente – ma proprio per questo ancora più peculiare. Retrospettivamente, la new wave italiana fu davvero il suono dell’orgoglio dell’assenza di altre radici che non fossero quelle dei propri consumi culturali. Tanto quanto quella generazione di fratelli minori che stava venendo su svezzata a tonnellate di cartoni giapponesi e telefilm americani (che rappresenteranno infatti – anni dopo – l’unica vera “esperienza condivisa” generazionale, in assenza della politica e di veri momenti d’aggregazione sociale).
Eppure, proprio ascoltando le band contenute qui sopra, si intuisce come la scena italiana non sarà mai più così “aperta” e felicemente innovativa come lo fu allora. Si trattò di una rivoluzione per pochi, certo, sotterranea non solo per vezzo. Confinata a qualche pagina sui due o tre mensili musicali specializzati (tra i cui lettori vigeva comunque una ben radicata esterofilia) o a certi angoli di austera programmazione Rai radiofonica (“Rockvillage” su Radio Uno il sabato all’ora di pranzo, “I pensieri di King Kong” il giovedì alle 18 su Radio Tre) e televisiva (ovviamente l’epocale “Mister Fantasy” di Carlo Massarini, ma su YouTube cercate pure tutto ciò che riuscite a trovare di quel glorioso spazio pomeridiano di Rai Tre intitolato “L’orecchiocchio”: lo presentava – ooops! – un certo giovane trombone di nome Fabio Fazio...). Ma fu una vera rivoluzione. Democratica, persino, con quel sottotesto post-punk D.I.Y. di “tutti possono farlo”. Senza paura. Incontro a un futuro che, allora, riusciva ancora a essere immaginato.
Quattro anni esatti dopo – marzo 1984 – sarebbero finiti sulla copertina di “Rockerilla” come migliore rock band italiana del 1983” secondo il plebiscito dei lettori, dichiando con grande lucidità ad Alessandro Calovolo: «Non vogliamo fare musica commerciale, vogliamo provare a cambiare il gusto della gente per essere considerati commerciali».
Mentre Firenze si godeva il suo irripetibile momento di neo-Rinascimento, il resto della penisola – capitale e “capitale morale” incluse – non è però che ridesse. Quella che faceva da sfondo alla prima generazione post-punk e new wave era un’Italia rigida, intorpidita, vittima di una “postmodernità istantanea” che, al solito, provava a sradicare – ma troppo repentinamente, senza anestesia – le radici contadine, riverniciando l’antico casolare di colorini fluo, sostituendo al focolare col paiolo una videoinstallazione di Nam June Paik e alle scarpe grosse un paio di Dr. Martens. Un’Italia concentrata in un faticoso processo di adeguemento alla contempraneità – come capì per primo e raccontò meglio di chiunque altro Pier Vittorio Tondelli, le cui pagine sulla lieta intellighenzia fashionista e culturalista, e sulla malinconia che ti coglieva al bancone di certi videobar, rimangono ineguagliabili anche a distanza di decenni.
Non è un caso se le band ripescate dentro questa raccolta – molte provenienti da quell’inesauribile serbatoio di decantazione e riflessione che fu ed è tuttora la provincia italiana – se da un lato sicuramente incarnarono l’entusiasta adesione ai tempi nuovi e ai nuovi suoni di allora (quelli della prima tecnologia finalmente quasi alla portata di tutti), dall’altro ci raccontano una realtà un po’ meno sorridente rispetto alla favoletta “anniottanta” che andava per la maggiore in tivù e sui giornali. A differenza dell’Italia, che nei palinsesti delle prime Reti private così come nelle interviste ai manager cosmopoliti piaceva raccontarsi ottimista e iperattiva (24 ore su 24!), le oscure e melanconiche band della new wave italiana mettevano in scena qualcosa di irrisolto, di cristallizzato: probabilmente un trauma (gli anni ’70?) dal quale non ci si era mai completamente ripresi.
Rispetto ai loro cugini inglesi – Clash in primis, poi Pop Group, 23 Skidoo, e Cabaret Voltaire – le band della new wave italiana vivevano in un mondo in cui era assente qualsiasi esperienza diretta di “multiculturalità”. La loro fu quindi una faccenda tutta di testa, da cameretta – pre-internet, letteralmente – ma proprio per questo ancora più peculiare. Retrospettivamente, la new wave italiana fu davvero il suono dell’orgoglio dell’assenza di altre radici che non fossero quelle dei propri consumi culturali. Tanto quanto quella generazione di fratelli minori che stava venendo su svezzata a tonnellate di cartoni giapponesi e telefilm americani (che rappresenteranno infatti – anni dopo – l’unica vera “esperienza condivisa” generazionale, in assenza della politica e di veri momenti d’aggregazione sociale).
Eppure, proprio ascoltando le band contenute qui sopra, si intuisce come la scena italiana non sarà mai più così “aperta” e felicemente innovativa come lo fu allora. Si trattò di una rivoluzione per pochi, certo, sotterranea non solo per vezzo. Confinata a qualche pagina sui due o tre mensili musicali specializzati (tra i cui lettori vigeva comunque una ben radicata esterofilia) o a certi angoli di austera programmazione Rai radiofonica (“Rockvillage” su Radio Uno il sabato all’ora di pranzo, “I pensieri di King Kong” il giovedì alle 18 su Radio Tre) e televisiva (ovviamente l’epocale “Mister Fantasy” di Carlo Massarini, ma su YouTube cercate pure tutto ciò che riuscite a trovare di quel glorioso spazio pomeridiano di Rai Tre intitolato “L’orecchiocchio”: lo presentava – ooops! – un certo giovane trombone di nome Fabio Fazio...). Ma fu una vera rivoluzione. Democratica, persino, con quel sottotesto post-punk D.I.Y. di “tutti possono farlo”. Senza paura. Incontro a un futuro che, allora, riusciva ancora a essere immaginato.
1 commento:
Interessantissimo
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