23/01/12

Per ATP il nuovo Tennis


Il loro debutto per Fat Possum - Cape Dory - fece gridare al miracolo più di una testata ufficiale, ritornando con decisione agli anni novanta dell’alternative pop, puntando tutto sulla freschezza dei brani e sull’immediatezza dei temi. Il chitarrista Patrick Riley, la cantante Aliana Moore ed il nuovo entrato alla batteria James Barone si sono spostati in occasione di questo secondo album a Nashville, per lavorare in studio con Patrick Carney dei Black Keys.

Dopo aver portato la loro musica in giro per il mondo – fino a toccare le fredde lande moscovite – i tre intensificano i propri sforzi, al fine di dare un degno successore all’esordio. ‘Young & Old’ – licenziato in Europa da ATP - è così la conferma di un songwriting fatato, capace di rivedere in forma snella le istanze dell’indie-rock. Se Riley descrive la nuova direzione come una ‘Stevie Nicks in fase Motown’ è giusto anche valutare l’influenza del british-pop unitamente a quella dei nordici Cardigans, che con i loro motivetti jingle-jangle fecero perdere la testa a più di una persona. In 3 settimane il nuovo disco è completato, merito anche del mentore Carney, capace di esercitare un’influenza non trascurabile sulle sorti dell’album.

I Tennis continuano a stupire per le loro scelte artistiche, tanto che una serie di cover in download gratuito ha illuminato ulteriormente la loro giovane stella. ‘Is It True’ di Brenda Lee, ‘Tell Her No’ degli Zombies e più recentemente ‘Tears In The Typing Pool’ dei Broadcast hanno ampliato non solo lo spettro delle loro conoscenze, ma indicato quanto fosse eclettica la loro musa ispiratrice.

Su Exile On Mainstream la nuova fatica del gruppo di Minneapolis


Influenzati da un numero di artisti così diversi – dal poeta urbano Bob Dylan al Roger Waters solista passando per campioni del minimalismo e della classica contemporanea come Philip Glass ed Arvo Pärt – il gruppo di Minneapolis ha trovato un linguaggio con il quale potersi esprimere tra le maglie di un post-rock cameristico ed intriso di autunnale malinconia. Cresciuti nell’appezzamento rurale di Hanska, Minnesota, in mezzo a poco meno di 400 anime, i nostri esprimono attraverso la loro musica un‘urgenza tipicamente provinciale, riflettendo un drammatico senso di solitudine. Un passato che rivive attraverso la loro musica, con interpretazioni che corteggiano un’atmosfera malinconia di fondo. Orchestra con grande presenza il leader West Thordson, coadiuvato da Sonja Larson (voce, violino), Rachel Drehmann (corno francese), Andrew Broste (basso) e Nicholas Conner (batteria e percussioni). Dopo il deciso debutto con ‘Through the Ides of March’, registrato dall’esperto Steve Albini, il gruppo si imbarca in un tour europeo proprio con la band di quest’ultimo: gli Shellac.

Guadagnato ulteriore spessore con il secondo album del 2006 As the Bluebird Sings, il gruppo incrocia anche la via dell’americana grazie alla produzione di Tom Herbers (Low, Soul Asylum, the Jayhawks, Victoria Williams) e ad una cover in salsa sperimentale di ‘The Times They Are a-Changin’ di Dylan. Nel 2007 viene inaugurato il sodalizio con la tedesca Exile On Mainstream, che frutta due album: Dry Land (nello stesso anno) ed il disco omonimo (2008). Dopo una sostanziosa pausa il gruppo – composto ora unicamente da Thordson e e Sonja Larson – abbraccia la via della tradizione con ‘To Forget’ il disco della loro definitiva maturità artistica. Dai lenti fraseggi slo-core alla polverose vie del roots-rock, una band che ha incrociato i sentieri di Low e Walkabouts, con grandissima personalità.

20/01/12

L'ideale compendio alla complessa scena wave italica


Assemblata da Fred Ventura - musicista, critico e memoria 'viva' di quella scena - New Wave Italiana è la raccolta definitiva sugli sviluppi della cosidfetta 'nuova onda' nel nostro paese. «Quel che facciamo è una nostra interpretazione della notte, della città, del sentirci vampiri e non ghettizzati...», confessavano nel marzo 1980 alla rivista “Popster Rock” (servizio sulle “Brigate Rock” nostrane firmato da un certo Red Ronnie...) degli ancora adolescenti Neon. Puro “Twilight” con alcune decadi d’anticipo, e in sottofondo Ian Curtis che canta: “...To the centre of the city where all roads meet/waiting for you”. Chi poteva riuscirci meglio, del resto? Cupi, übercool, slegati da qualunque lacciuolo storico o geografico nel loro essere interamente “elettronici” (forse i primi in Italia, addirittura), ma al tempo stesso muscolari, quasi metal, e per la naturale predisposizione metronomica della drum machine, di certo più riconducibili alla (odiata) disco che al rock comunemente condiviso.

Quattro anni esatti dopo – marzo 1984 – sarebbero finiti sulla copertina di “Rockerilla” come migliore rock band italiana del 1983” secondo il plebiscito dei lettori, dichiando con grande lucidità ad Alessandro Calovolo: «Non vogliamo fare musica commerciale, vogliamo provare a cambiare il gusto della gente per essere considerati commerciali».

Mentre Firenze si godeva il suo irripetibile momento di neo-Rinascimento, il resto della penisola – capitale e “capitale morale” incluse – non è però che ridesse. Quella che faceva da sfondo alla prima generazione post-punk e new wave era un’Italia rigida, intorpidita, vittima di una “postmodernità istantanea” che, al solito, provava a sradicare – ma troppo repentinamente, senza anestesia – le radici contadine, riverniciando l’antico casolare di colorini fluo, sostituendo al focolare col paiolo una videoinstallazione di Nam June Paik e alle scarpe grosse un paio di Dr. Martens. Un’Italia concentrata in un faticoso processo di adeguemento alla contempraneità – come capì per primo e raccontò meglio di chiunque altro Pier Vittorio Tondelli, le cui pagine sulla lieta intellighenzia fashionista e culturalista, e sulla malinconia che ti coglieva al bancone di certi videobar, rimangono ineguagliabili anche a distanza di decenni.

Non è un caso se le band ripescate dentro questa raccolta – molte provenienti da quell’inesauribile serbatoio di decantazione e riflessione che fu ed è tuttora la provincia italiana – se da un lato sicuramente incarnarono l’entusiasta adesione ai tempi nuovi e ai nuovi suoni di allora (quelli della prima tecnologia finalmente quasi alla portata di tutti), dall’altro ci raccontano una realtà un po’ meno sorridente rispetto alla favoletta “anniottanta” che andava per la maggiore in tivù e sui giornali. A differenza dell’Italia, che nei palinsesti delle prime Reti private così come nelle interviste ai manager cosmopoliti piaceva raccontarsi ottimista e iperattiva (24 ore su 24!), le oscure e melanconiche band della new wave italiana mettevano in scena qualcosa di irrisolto, di cristallizzato: probabilmente un trauma (gli anni ’70?) dal quale non ci si era mai completamente ripresi.

Rispetto ai loro cugini inglesi – Clash in primis, poi Pop Group, 23 Skidoo, e Cabaret Voltaire – le band della new wave italiana vivevano in un mondo in cui era assente qualsiasi esperienza diretta di “multiculturalità”. La loro fu quindi una faccenda tutta di testa, da cameretta – pre-internet, letteralmente – ma proprio per questo ancora più peculiare. Retrospettivamente, la new wave italiana fu davvero il suono dell’orgoglio dell’assenza di altre radici che non fossero quelle dei propri consumi culturali. Tanto quanto quella generazione di fratelli minori che stava venendo su svezzata a tonnellate di cartoni giapponesi e telefilm americani (che rappresenteranno infatti – anni dopo – l’unica vera “esperienza condivisa” generazionale, in assenza della politica e di veri momenti d’aggregazione sociale).

Eppure, proprio ascoltando le band contenute qui sopra, si intuisce come la scena italiana non sarà mai più così “aperta” e felicemente innovativa come lo fu allora. Si trattò di una rivoluzione per pochi, certo, sotterranea non solo per vezzo. Confinata a qualche pagina sui due o tre mensili musicali specializzati (tra i cui lettori vigeva comunque una ben radicata esterofilia) o a certi angoli di austera programmazione Rai radiofonica (“Rockvillage” su Radio Uno il sabato all’ora di pranzo, “I pensieri di King Kong” il giovedì alle 18 su Radio Tre) e televisiva (ovviamente l’epocale “Mister Fantasy” di Carlo Massarini, ma su YouTube cercate pure tutto ciò che riuscite a trovare di quel glorioso spazio pomeridiano di Rai Tre intitolato “L’orecchiocchio”: lo presentava – ooops! – un certo giovane trombone di nome Fabio Fazio...). Ma fu una vera rivoluzione. Democratica, persino, con quel sottotesto post-punk D.I.Y. di “tutti possono farlo”. Senza paura. Incontro a un futuro che, allora, riusciva ancora a essere immaginato.

Il talento cristallino di Eric Chenaux


Eric Chenaux è uno dei più rispettati musicisti sperimentali di estrazione rock canadese. Il suo stile chitarristico e le sue capacità compositive gli hanno permesso di ritagliarsi un ruolo chiave nel circuito underground nord-americano. Come molti dei protagonisti della musica indipendente contemporanea, Eric ha trascorsi nell’universo hardcore-punk locale, essendo stato – nel particolare – il fondatore del gruppo culto di Toronto Phleg Camp. Ampliati a dismisura i suoi orizzonti artistici, Eric inizia a flirtare con numerosi generi, abbeverandosi alle fonti della musica improvvisata, dell’avant-folk, del più trasversale jazz e della contemporanea. Dal 2006 Constellation è il suo nuovo asilo artistico, una fiducia ripagata da lavori di grande pregio, in cui la sua cristallina tecnica chitarristica è messa al servizio di una sentita immersione nei temi delle tradizioni folk, dal post-moderno al medievale.

Il suo quarto album per l’etichetta canadese esprime i suoi contenuti sin dalle note di copertina. ‘Guitar & Voice’ è così unicamente costruito sulle sue evoluzioni vocali ed alla sei corde, senza alcun intervento esterno. Il lavoro scientifico di one-man band tocca profondità sensibili, aprendo a numerose intuizioni. I quattro brani cantati sono chiaramente in linea con lo spirito di antiche ballate, riviste e corrette dalla tecniche estese del nostro, che incamera puntuali diversivi tematici. E’ del resto nelle sue corde prendere spunto da sonorità così diverse, tanto da lambire la musica popolare e l’avanguardia senza trascurare i possibili scenari intermedi. Parliamo anche di folk scozzese, psichedelia in salsa noise, musica barocca e chissà quant’altro. Con l’eccezione degli 8 minuti di ‘Sliabh Aughty’ – la cosa forse più vicina all’estetica hendrixiana mai concepita da Eric – tutti i brani strumentali sono piccole miniature di sorta. Spesso registrate in chiave acustica ed amplificate da uno speaker di marca Leslie per ricreare un effetto quasi ovattato. Le registrazioni sono state effettuate presso il Six Saint V (lo studio/appartamento che Constellation mette a disposizione per i musicisti in visita a Montreal), il mix finale terminato all’istituzione Hotel2Tango dall’ingegnere del suono locale Radwan Moumneh. Come nella tradizione di Constellation l’album è disponibile in cd, download digitale e nella solita stellare edizione in vinile 180 grammi con tanto di poster serigrafato.

La nuova canzone folk-politica dal Canada


Gli Elfin Saddle ampliano la propria agenda compositiva e concettuale in Devastates, il terzo album della band è forse la sua creazione più immediata e passionale. Il gruppo di Montreal – guidato dai poli-strumentisti Emi Honda e Jordan McKenzie (che si dividono anche gli oneri vocali) - ha sempre mostrato un profondo interesse per questioni che riguardano l’eco-sostenibilità e l’impatto delle politiche economiche, puntando sempre ad un’alternativa che potesse rivoluzionare gli usi ed i costumi locali. Oltre alla sfera musicale il talento di Elfin Saddle si estende alla sfera artistica, dove le loro video-installazioni sono già un evento di portata internazionale. Devastates si presenta come un’operetta costituita da un ciclo di canzoni dagli ibridi toni folk, dove le due voci – l’uso del giapponese da parte di Honda è una delizia – si incrociano in maniera perpendicolare.

Si ricorre a strumenti altrettanto esotici, tra piccole percussioni, fisarmonica, glockenspiel ed organo a pompa. L’inserimento di Kristina Koropecki al violoncello – parallelamente agli interventi del terzo membro riconosciuto Nathan Gage (Shapes & Sizes) al contrabbasso – permette al gruppo di seguire un ondivago andamento ritmico/melodico. Registrato presso una piccola cappella abbandonata nel Quebec rurale, il disco conserva una speciale intimità nella sua umile epicità, ancorato com’è ad un’estetica do it yourself. Un disco che rinverdisce il fascino delle canzoni di protesta, una voce fuori dal coro che rivendica tutte le potenzialità della più creativa folk music.

A Place To Bury Strangers esordiscono per Dead Oceans


Senza alcun test ufficiale ‘Onwards to the Wall’ è in assoluto il master più rumoroso presentato per approvazione al quartier generale di Dead Oceans. Solitamente i ‘provini’ si suonano a tutto volume al fine di scovare ogni più impercettibile imperfezione, contrariamente alla prassi questa volta il volume del potenziometro è stato spostato verso il basso.

Nessuna novità a ben vedere, il gruppo di Brooklyn è accompagnato da una discreta fama per quello che riguarda le performance ‘urticanti’. The Kills, Nine Inch Nails ed altri campioni del rumore declinato in forma canzone come i My Bloody Valentine, ne hanno fatto a loro modo le spese, scegliendoli come gruppo d’apertura. Ora accompagnato da un terzo elemento, il bassista Dion Lunadon, originariamente nei D4, il leader e costruttore di effetti a pedale Ackerman ha costituito la line-up definitiva per dar sfogo ad un sound voluminoso su fondali melodici. Per fornirvi un esempio ‘So FarAway’ prende spunto dalla perfetta purezza pop di ‘The Letter’ dei Box Tops per rilanciarla in un vortice di scura energia. A sua volta la traccia che titola il disco trova il bilanciamento perfetto tra i classici motivi del sixties pop ed un suono rovinoso, apocalittico verrebbe voglia di dire. APTBS sono tra i protagonisti del nuovo white noise. Questo è un nuovo capitolo, un preludio ad un album esteso previsto all’orizzonte. L’introduzione è più che convincente.

Hyperdub pontifica sulla nuova dance inglese


Scratcha aka DVA è un produttore e Dj dai nobili trascorsi. Le prime esperienze risalgono al periodo d’oro del movimento grime, quando era solito accompagnarsi ad un pioniere quale Wiley. Selezionato da Hyperdub, pubblica nel 2010 il singolo ‘Natty’ , introducendo sostanziali varianti nel suo stile, ora più sensibile agli incroci trasversali tra elettronica e r’n’b. Il suo debutto sulla lunga distanza è stato anticipato dal singolo da urlo ‘Madness’, di cui è protagonista il vocalist nero Vikter Duplaix, uno dei nomi di riferimento del soul digitale americano, adorato da una personalità dell’etere come Gilles Peterson. Dal 2005 Scratcha è anche attivo con il suo personale radio show ‘Grimey Breakfast’, sponsorizzato dalla onnipresente Rinse FM.

'Pretty Ugly' dimostra tutta la sua abilità nel creare scenari dance dal piglio urbano e propensi a scandagliare il lato oscuro dell’anima. Sensibile ad ogni stimolo esterno, Scratcha raccoglie non solo i germi delle recenti rivoluzioni in fatto di musica ritmica – dal grime per l’appunto fino ad arrivare al dupstep – ma punta direttamente al cuore del dancefloor, scegliendo diverse partner vocali. E’ una marcia d’avvicinamento verso il formato canzone, senza però trascurare tutto uno scheletro ritmico che ha del sensazionale. Non solo Londra, ma anche Chicago e Detroit sembrano occupare un posto di tutto riguardo nelle gerarchie del produttore. Perché filamenti di musica house e scampoli di techno futurista sembrano farsi largo tra le maglie di questo album, autentica soul music per la generazione Blade Runner. Le voci appartengono ad alcune delle più gettonate artiste del suo programma radiofonico: Natalie Maddix, Muhsinah, A.L, Zaki Ibrahim, Fatima e Cornelia. Abbandonando qualsiasi confort hanno approcciato lo studio come una vera sfida, scrivendo testi con piglio deciso.

La title track ad esempio vede Cornelia riflettere su frustrazione ed insonnia. Mentre in 'Why You Do?', A.L. canta dell’essere defraudati in maniera ‘elegante’. Fatima reclama più spazio in una nuova versione di 'Just Vybe' (già uscita su 12” per Hyperdub) e Zaki Ibrahim parla di uno strano ed incandescente amore in 'Fire Fly'. Virtuoso anche dal punto di vista lirico ‘Pretty Ugly’ si pone sin d’ora come una delle pietre d’angolo della rinascita dance made in England.

19/01/12

Il dream pop di Frankie Rose ed una compilation in free download per Memphis Industries


Letteralmente folgorati dall’album licenziato nel 2010, i responsabili di Memphis Industries tornano sul luogo del delitto con il nuovo disco di questa piccola grande icona dell’indie americano. Supportata da The Outs, Frankie Rose ci delizia con un album dalle esili forme pop, pur mantenendo inalterato un luminescente dna. Celebre anche per aver suonato la batteria con Crystal Stilts, Vivian Girls e Dum Dum Girls, Frankie sa esattamente come far collidere le istanze del girl-pop con gli arrangiamenti cari a sua maestà Phil Spector. Nel dettaglio un muro di suono costruito su costanti riverberi e sulla bontà di canzoni che girano su due semplici – avvampanti – accordi. Il titolo Interstellar dovrebbe sollevare più di una questione sul carattere celestiale del disco, possiamo solo confermarvi che queste canzoni hanno in dote la serenità dei classici senza tempo. Si parla dunque di uno spazio maestoso e gentile, in cui fare albergare brani dai tratti onirici.

La produzione curata da Le Chev (remixer di grido anche per Lemonade, Narcisse e Passion Pit), aggiunge ulteriore lustro all’album.Una grandeur pop, che non rinuncia a certe affinità con lo shoegaze britannico ma anche con un’ estetica new romantic e - perché no – glam. Tra le righe una figura elegante come Brian Ferry potrebbe rispecchiarsi in questa pop-wave d’autore. Frankie ha puntato tutto sulla qualità del suono, rinunciando al fuzz ed evidenziando le scorie di una cultura eighties. Non è il trionfo di un sentimento retrò a tutti i costi, ci sono molti dei suoni familiari di questa decade, semplicemente ricollocati in un contesto inedito.

La paradisiaca ‘Had We Had It’ punta su strofe zuccherose mentre i tratti elettronici di ’Gospel / Grace’ sembrano riportare in auge i lunedì blu dei New Order. Per tanta foga ritmica c’è l’interpretazione intima di ‘Apples For The Sun’ una voce che si staglia su di un pianoforte solitario, roba da togliere il fiato. Molti degli elementi all’interno di Interstellar riflettono sull’idea stessa della sparizione, un sentimento che si riferisce ad una zona immaginaria. Il sogno è solo una conseguenza, ed abbandonarsi all’intro di violoncello di ‘The Fall’, renderà addirittura plausibili i paragoni con un altro profeta del parallelo universo pop: Arthur Russell. Un viaggio lontano, semplicemente da immaginare.

Per farvi un'idea della bontà del progetto - e delle recenti uscite su MI - vi rimandiamo ad una compila in free download curata dalla stessa etichetta http://soundcloud.com/memphisindustries/sets/memphis-industries-eleven-for/s-m236R

18/01/12

Un Beirut in libera uscita


Kelly Pratt è Bright Moments, ma non pensate all’estensione di un cantore intimista , i suoi trascorsi in alcune delle formazioni più esclusive della Big Apple – e non solo – gli ha consentito di guadagnarsi un seguito rispettabilissimo, nonchè la presenza di altrettanti musicisti locali in studio. Registrate le prime tracce con cura maniacale nel proprio appartamento newyorkese, Kelly ha poi provveduto ad un editing deciso, potendo contare su amici vicini e lontani.

Natives (che esce per la Luaka Bop di David Byrne) può essere l’introduzione ufficiale alla musica di Bright Moments, ma per chi ha frequentato assiduamente l’universo indie degli ultimi 10 anni, potrà notare la presenza del polistrumentista in alcuni degli album decisivi degli ultimi due lustri. Avrete udito la sua tromba all’interno di numerosi brani dei Beirut, che unitamente alle sue armonizzazioni vocali sono punti fermi nelle esibizioni dal vivo. E’ stato poi responsabile di alcuni dei più brillanti arrangiamenti fiatistici per Neon Bible degli Arcade Fire, suonando un po’ tutti gli strumenti della famiglia, dal filicorno al flauto. Come se non bastasse, è stato anche parte della sezione fiati nelle prime uscite di LCD Soundsystem.

La sezione ritmica dei Beirut (Nick Petree e Paul Collins) ed il fisarmonicista Perrin Cloutier, unitamente al batterista dello strepitoso gruppo afro-beat Akoya, sono alcune delle presenze ricorrenti in Natives. In alcuni dei brani Pratt utilizza la sua tromba come uno strumento percussivo, altrove come accessorio per campionare inusuali beat di stampo world music. I testi sono altrettanto eclettici, alcuni di loro ispirati da un vecchio libro di poesie scandinave, scoperto casualmente in tour.

Forse non è la cosa più semplice scoprire il battito d’ali campionato di un pipistrello in ‘Milwaukee’ o l’acqua nella vasca da bagno che in ‘Traveling Light’ assume un sinistro tono percussivo. Sono questi dettagli – udibili e non udibili – che consentono a Natives di distinguersi, rivedendo i contorni stessi dell’indie-rock. E’ un disco pop allestito da un musicista abile nello svincolarsi dai luoghi comuni. Pratt ha messo in piedi questa piramide trascorrendo un anno nel suo studio casalingo - da lui simpaticamente definito tomba strumentale – muovendo tra una dozzina di strumenti a fiato, sintetizzatori e chitarre. Gigabytes di field recordings e suoni ‘trovati’ hanno poi permesso la costruzione di basi davvero intriganti. Grazie anche al lavoro in post-produzione di Jim Eno degli Spoon, il disco ha un corpo unico e sembra tradurre i concetti di una mente superiore, almeno nell’ambito dell’alternative pop. Tra inni tzigani, bande rumorose ed un’idea di orchestra-rock fuori dal comune, Pratt ci dice la sua sul giro del mondo in 80 giorni.

17/01/12

L'esordio solista del chitarrista dei Black Crowes


Con i Black Crowes temporaneamente al palo, quale momento più opportuno per licenziare un debutto solista con tutti i crismi? Ci pensa l’altra figura cardine del gruppo, il chitarrista Rich Robinson, fratello del più chiacchierato frontman Chris, ad esordire con un disco che in maniera discreta sposta il focus rispetto al gruppo madre. Rich mostra con ‘Through A Crooked Sun’ – pubblicato in Europa da Circle Sound Records con ben 4 tracce extra - di essere un songwriter complete, capace per di più di avventurarsi nei luoghi della memoria con fare sorprendente. La sua carriera artistica inizia coi corvi da giovanissimo, con un successo planetario che lo investirà letteralmente. Fama e denaro, una moglie meravigliosa ed una reggia. Ma in un battito di ciglia, molte cose rischiano di venire a mancare. Quale migliore terapia allora di una seduta musicale? Un esorcismo per mantenere intatta la propria grazia ed il proprio talento. Un album che a ragione può essere considerato uno spartiacque.

Pur mantenendo un rapporto saldo coi Black Crowes, il nostro ha potuto salvaguardare la sua integrità artistica, approfittando della lunga pausa, stabilita di comune accordo proprio per preservare l’energia dei singoli musicisti. Rich è anche un un incredibile artista visuale (se ne volete sapere di più puntate il vostro browser su www.richrobinsonart.com). E’ palese come la veste solista abbia consentito al chitarrista di esprimersi sia a livello lirico che squisitamente musicale, lavorando ad un numero invidiabile di idee. Benintesi, questo è un vero e proprio caleidoscopio, la conferma di una statura importante. Si trascende proprio l’essenza intima del rock’n’roll, puntando in direzione di una musica soul molto cruda e prendendo la tangente psichedelica in più di un’occasione. Farsi cullare dalle buone vibrazioni, sembra suggerirci questa pratica Rich, perchè questo è un disco da ascoltare da cima a fondo, sgombrando la mente da ogni recente ricordo. Dal blues delle origini al southern-rock, dalle visioni lisergiche di Haight-Ashbury (il buon Jerry Garcia gradirebbe e come…) ad un ibrido black-folk che suona come una geniale intuizione. Di certo ‘Through A Crooked Sun’ è una di quelle rivelazioni che illuminano la scena ‘americana’ tutta.

16/01/12

Torna la leggenda vivente del soul!



Lo stagionato veterano del soul Lee Fields torna a marzo con un nuovo album per Truth & Soul, scegliendo un titolo quanto meno indicativo: Faithful Man. La musica del nostro – grazie al sempre prezioso apporto degli Expressions – assume toni più confidenziali, accomodandosi in maniera confortevole tra storie che nel quotidiano trovano una risoluta eco. Arrangiamenti cinematici e corde tese, per un 2012 che porterà in dote una serie di apparizioni live importanti e verrà introdotto dal singolo apripista ‘You’re The Kind Of Girl’.

Dalla pubblicazione nel 2009 di ‘ My World’ – l’album che lo ha prepotentemente riposizionato in campo – Lee Fields con annessa compagine, ha sparso germi soul in lungo e in largo, con un fitto programma di esibizioni dal vivo, che non hanno fatto altro che confermarne la statura di gigante, giusto un gradino al di sotto dei ‘godfathers’ James Brown ed Al Green. Pubblicato ancora una volta dalla label di Brooklyn – che sta vertiginosamente estendendo il suo dominio sulla scena black contemporanea – il disco è stato prodotto dai co-proprietari e musicisti Jeff Silverman e Leon Michels. Per intenderci questi sono gli stessi artisti che hanno spopolato con il successo globale di Aloe Blacc ‘I Need A Dollar’ ed hanno prodotto altrettanti capolavori per il gruppo di casa (El Michels Affair), Adele, Liam Bailey, Ghostface Killah e Jay-Z, per limitarsi ad una manciata di nomi.

Non molti autori che vantano pubblicazioni nel 1969, possono reclamare un posto al sole anche ai giorni nostri. E’ proprio sul finire di quella decade che il vocalist – nativo della North Carolina – inizia a mettere in fila una serie di lavori che ne faranno un autore prolifico anche nel corso della decade successiva. Con un carriera che si estende prodigiosamente per oltre 40 anni di attività, Lee è davvero una delle più credibili e consistenti figure della black music odierna.

10/01/12

Get on the soul train!


Se una musica dalle movenze eleganti e sofisticate, ma allo stesso tempo intensa e verace, è nelle vostre corde non dovete fare altro che bussare alla porta della Penniman Records. Con grande orgoglio l’etichetta spagnola ci introduce al suono di The Excitements, formazione che solo per uno scherzo della natura ha conosciuto i suoi natali a Barcelona. Completamente immersi nella filosofia R&B / Soul che ha costellato tanto i sessanta quanto la prima parte dei settanta, i nostri sembrano direttamente atterrati con un volo intercontinentale da Detroit o Chicago, giusto in tempo per porre gli ultimi ritocchi ad un’esaltante rappresentazione musicale. In altre parole The Excitements sono un ritrovato medico eccezionale, una profilassi naturale per alleviare i vostri momenti più grigi e proiettarvi idealmente in quella stagione della black music che ha accompagnato innumerevoli sommovimenti sociali. Sei musicisti dinamitardi ed una voce – quella di Koko Jean Davis – che si ricava un ruolo da protagonista, interpretando con grazia e calore le fulminanti composizioni del combo catalano. Un piglio deciso che può avvicinarsi a quello di interpreti straordinarie del nostro tempo come Sharon Jones e – in misura minore – Alice Russell.

La carriera del gruppo è stata folgorante, dopo le prime apparizioni in pubblico del 2010, la scalata al successo è stata graduale ma inesorabile. Dopo aver conquistato i maggiori club della penisola iberica, il gruppo è pronto ad esordire sulla lunga distanza con l’album omonimo. Prodotto da un veterano come Mike Mariconda (uno di quegli uomini che ha elevato il garage rock ad arte sublime, militando in Raunch Hands e Devil Dogs) il disco rispetta le consegne di un approccio live. Per Koko e compagni è anche importante ribadire le proprie origini, tirando fuori dal cilindro alcune delle proprie influenze. Tanto che le cover assumono un sapore del tutto speciale: ‘From Now On’ di Nathaniel Mayer, ‘Wait a Minute’ di Barbara Stephens e ‘Never Let You Go’ di Little Richards sono classici rivisti con passione ed intraprendenza. Ma aldilà di tutto, l’obbligo che avete in questo momento è quello di precipitarvi ad ascoltare questo fulminante esordio.

09/01/12

Wino & Conny Ochs, two black souls


Scott “Wino” Weinrich, il motociclista di Washington Dc, è una di quelle icone della musica rock americana che difficilmente raggiungerà lo status di artista mainstream. Assolutamente padrone del suo destino – nell’ accezione più ampia del termine – Wino era un autentico outsider nella capitale degli States alle soglie degli anni’80. Faceva stranamente quadrato con i punks locali – Ian MacKaye in primis – e sfoggiava i suoi racconti da cripta con gli Obsessed, formazione che avrebbe pre-conizzato il revival del suono Black Sabbath. Quando si trasferì in California nella prima metà degli anni ’80, ad accoglierlo trovò i Saint Vitus, una delle rare band ad aver abbattuto lo scetticismo hardcore/punk , facendo breccia nel catalogo della benemerita SST.

Wino non si è mai fermato e ancora oggi attraverso innumerevoli sigle – da Hidden Hand al supergruppo Shrinebuilder (con gente di Neurosis e Melvins) – continua a portare il vessillo di uomo nero. E nessuna sorpresa se in una delle recenti sortite in solo sia andato proprio a scomodare the man in black Johnny Cash, con quel magistrale piglio scarno. Proprio da qui si riparte. Con un nuovo disco realizzato per la teutonica Exile On Mainstream, concepito a 4 mani con il giovane virgulto Conny Ochs. L’atipico folk singer apriva le date del tour di ‘Adrift’ nel 2010, catturando immediatamente le attenzioni di Wino. Non solo un singolare approccio alla musica, ma anche una filosofia di vita che li accomunava, tanto è bastato a farli ritrovare allo storico Kabumm Studios di Berlino, per dar vita a 10 brani originali, solennemente acustici, animati da una solfurea vena spirituale. Una sola cover, ed anche qui sembra tutto già scritto: ‘Highway Kind’ di Townes Van Zandt. Benvenuti nell’inequivocabile campo di Heavy Kingdom.