I Melvins sono tornati, evviva i Melvins! Non ha mai difettato al gruppo di San Francisco il dono della prolificità, a maggior ragione dopo aver svecchiato l'organico ed esser passati alla formazione a quattro. Ciò significa che assieme agli highlander King Buzzo e Dale Crover, sono ancora dentro i due Big Business (ed ex-Karp) Coady Willis e Jared Warren. I Melvins hanno da poco compiuto le 25 primavere, una cosa da nulla, per chi ha letteralmente aperto la strada alla riscossa del rock sonico all'inizio degli anni '90. Dopo aver portato l'hardcore ad una parsimoniosa version slow - un marchio distintivo per buona parte della loro esuberante carriera - i Melvins saranno spesso abili nel mescolare le carte, con il fattore doom quale materia resistente nel loro DNA. Ma oltre ai Black Sabbath ed al cartoonistico immaginario di certo hard rock seventies (si pensi alle cover dei Kiss, gruppo feticcio per i Melvins) la musica dei nostri è stata sempre un corpulento post-punk, che di volta in volta ha seguito insolite traiettorie glamour, noise e psichedeliche. "The Bride Screamed Murder" è se possibile un'ennesima variazione sul tema. I quattro che senza preavviso cambiano la gestione dei bpm, sterzano spesso in direzione di accesse folate post-core o si imbattono in ecumeniche marce dark. Quello che arriva è un gusto per lo shock mediatico, un mestiere in cui i nostri sono eccellenti interpreti. Progressivi, sperimentali, ma pur sempre ammantati in una coltre heavy-rock mefistofelica, i Melvins bussano nuovamente alla vostra porta, non certo dei buoni samaritani, ma quanto meno docenti di lusso nella pratica del rumore su misura.
28/04/10
Il nuovo album dei Melvins in uscita ai primi di giugno
I Melvins sono tornati, evviva i Melvins! Non ha mai difettato al gruppo di San Francisco il dono della prolificità, a maggior ragione dopo aver svecchiato l'organico ed esser passati alla formazione a quattro. Ciò significa che assieme agli highlander King Buzzo e Dale Crover, sono ancora dentro i due Big Business (ed ex-Karp) Coady Willis e Jared Warren. I Melvins hanno da poco compiuto le 25 primavere, una cosa da nulla, per chi ha letteralmente aperto la strada alla riscossa del rock sonico all'inizio degli anni '90. Dopo aver portato l'hardcore ad una parsimoniosa version slow - un marchio distintivo per buona parte della loro esuberante carriera - i Melvins saranno spesso abili nel mescolare le carte, con il fattore doom quale materia resistente nel loro DNA. Ma oltre ai Black Sabbath ed al cartoonistico immaginario di certo hard rock seventies (si pensi alle cover dei Kiss, gruppo feticcio per i Melvins) la musica dei nostri è stata sempre un corpulento post-punk, che di volta in volta ha seguito insolite traiettorie glamour, noise e psichedeliche. "The Bride Screamed Murder" è se possibile un'ennesima variazione sul tema. I quattro che senza preavviso cambiano la gestione dei bpm, sterzano spesso in direzione di accesse folate post-core o si imbattono in ecumeniche marce dark. Quello che arriva è un gusto per lo shock mediatico, un mestiere in cui i nostri sono eccellenti interpreti. Progressivi, sperimentali, ma pur sempre ammantati in una coltre heavy-rock mefistofelica, i Melvins bussano nuovamente alla vostra porta, non certo dei buoni samaritani, ma quanto meno docenti di lusso nella pratica del rumore su misura.
Kate Walsh
Sin dagli esordi il nome di Kate Walsh è stato accostato a quello di celebri chanteuse di statura internazionale come Joni Mitchell, Kate Bush e Jane Austen. Aldilà degli ingombranti paragoni quello che emerge dalla musica di Kate Walsh è un forte senso di devozione ed intimità, tanto che ogni sua performance è un invito a liberare i propri sentimenti, con un candore che ha dell’inverosimile. La carriera della Walsh conosce la prima svolta nel 2007 all’indomani della pubblicazione del secondo album "Tim’s House", che si fregia dell’encomiabile risultato di raggiungere il primo posto nella classifica degli album di iTunes, nel Regno Unito. Un record a tutti gli effetti, considerato che all’epoca era ancora priva di un ufficiale contratto di edizioni/distribuzione. In tempi rapidi la Universal coglie il suo potenziale, l’etichetta diviene licenziataria dell’album e lancia la cantautrice sul mercato ufficiale. Nuovamente prodotto da Tim Bidwell il terzo album "Light & Dark" – questa volta pubblicato dalla EMI unicamente per il mercato inglese – rappresenta un graduale sviluppo delle tematiche care alla nostra, esponendo il suo cosiddetto sound palette. Pur riservando un carattere lirico introspettivo, gli arrangiamenti si fanno più spessi e le ritmiche più invadenti. Al piano in fase di scrittura viene preferita la chitarra e questo si evince dal carattere più brillante del disco. Blueberry Pie è la label che esporta il nome della Walsh nel resto d’Europa e noi siamo ben lieti di re-introdurre un’artista di grande personalità, che in questa occasione viene raggiunta da membri di Turin Brakes (con cui è stata anche recentemente in tour) e Longpigs, per dare ulteriore profondità alle sue canzoni.
27/04/10
Kings Go Forth "The Outsiders Are Back" (Luaka Bop)
L’album di debutto dei Kings Go Forth da Milwaukee è uno dei fiori all’occhiello nella stagione discografica della Luaka Bop, rilanciatasi prepotentemente sul mercato, proprio investendo su giovani virgulti del suono globale. Kings Go Forth è una soul band di larghe vedute fondata da Andy Noble, proprietario del celebre negozio di dischi – nonché cult label - Lotus Land, e da una figura di spicco della scena R&B locale, l’enigmatico Black Wolf. Dopo la pubblicazione di una manciata di singoli accolti a fuor di popolo negli ambiti black - e la benedizione virtuale di Dj Shadow, che non ha perso occasione per programmarli - è tempo del debutto lungo che prevede il colorato artwork fumettistico di Mingering Mike ed un remix esclusivo del leggendario produttore disco Tom Moulton, che aggiunge un flavour smaccatamente dancefloor alla traccia "Don't Take My Shadow". I nove brani originali sono stati concepiti a quattro mani da Noble e Wolf, contando sul supporto degli altri musicisti che costituiscono l’organico di Kings Go Forth; nel dettaglio Dave Wake (tastiere), Dan Flynn (chitarra), Cecilio Negron (percussioni), Jeremy Kuzniar (batteria), Dave Cusma (trombone) Jed Groser (tromba), Matt Norberg (voci) e Dan Fernandez (chitarra). Lo stesso Noble è il bassista di riferimento. Black Wolf non è certo l’ultimo arrivato, negli anni '70 con i suoi Essentials si è tolto lo sfizio di incidere presso i Curtom Studios di sua maestà Curtis Mayfield. Forte di quell’esperienza e delle numerose collaborazioni che ne han contraddistinto la carriera, il vocalist in combutta con Noble si è prefisso l’obiettivo di ricreare le topiche atmosfere di "The Outsiders Are Back". Vellutato funk soul d’antan giocato su di un assetto ritmico variabile e sui contrappunti dei fiati, per una prova corale, fomentata dalle ugole dei diversi protagonisti. Se cercavate gli eredi degli Impressions o dei War, stavolta non dovrete guardare a perdita d’occhio.
Michael Leonheart And The Avramina 7 "Seahorse and the Storyteller" (Truth & Soul)
Nato e cresciuto in una famiglia di musicisti, Michael Leonhart sin dalla più tenera età è stato abituato a muoversi tra gli spartiti, adoperandosi – in cuor suo – a ricercare l’orchestrazione perfetta, sontuosa. All’età di 17 anni ha messo a segno un primato: il riconoscimento di un Grammy ad un performer così giovane è cosa da trascrivere negli annali. Autore e all’occorrenza session man di gran lusso, Leonhart negli ultimi 10 anni si è esibito al fianco del gotha della musica nera americana, come del più ricercato pop americano. I nomi di per sé rappresentano un’assoluta garanzia: Yoko Ono, Mos Def, Steely Dan, Antony & The Johnson, Brian Eno, James Brown, Bill Withers, David Byrne e Todd Rundgren: Per non menzionare le oltre 50 incisioni nel catalogo Truth & Soul cui ha preso regolarmente parte, divenendo in qualche misura l’arrangiatore di casa. "Seahorse and The Storyteller" è una storia a sè. Dopo un manipolo di album solisti, Michael lavora al suo progetto più ambizioso, mettendo insieme in maniera solenni elementi della tradizione afro-americana, visioni psichedeliche e modalità orchestrali. Proprio nel corso del tour con gli Steely Dan del 2005, Leonhart mette a punto la sua ispirata visione d’insieme. Ispirandosi ai temi musicali di Bollywood, al rock psichedelico dei sixties ed al songwriing di figure ormai mitologiche come Peter, Paul, & Mary o il gentleman inglese Donovan. Seahorse and The Storyteller è da considerarsi opera musicale moderna, capace di narrare storie ed avvitarsi su un nevralgico centro. Un misticismo suffragato dalla presenza di collaboratori di altissimo rango. Rilocata in uno studio di New York la band allestita da Leonhart può contare su un ensemble variegato, multiculturale. Sfilano membri di El Michels Affair, TV on The Radio, Dap-Kings, Antibalas, The Phenomenal Handclap Band, e della ristabilita Plastic Ono Band a dar manforte al nostro. Da Yuka Honda a Dave Guy, passando per Leon Michels, Thomas Brenneck, Homer Steinweiss, Nick Movshon, alcuni dei più influenti ‘orrchestrali’ della Big Apple si ritrovano in questo spazio adoperandosi in un lavoro corale, sensibile voce della metropoli multirazziale. Archi, mellotron, chitarre fuzz guitar, fiati, vibrafoni, organi farfisa, scaltro rapping e praticamente ogni strumento percussivo concepibile, sono l’armamentario d’ordinanza per un disco che è quasi energia solare. Con i santini di R.D Burman, Beatles e Fela Kuti nella bisaccia, Leonhart si avvia a travalicare definitivamente le porte della percezione.
Isan "Glow In The Dark Safari Set" (Morr Music)
Non è certo mai mancato lo stile al duo inglese composto da Robin Saville ed Antony Ryan, da oltre un decennio protagonisti assoluti in quell’area comunemente nota come intelligent dance music. Isan è la ragione sociale e questo è il loro sesto album per quella che è divenuta la loro dimora anche spirituale: Morr Music. Glow In The Dark Safari Set non ci riserva sconvolgimenti di sorta, semmai ribadisce il concetto di totale brillantezza secondo il quale gli Isan sono una delle più estroverse creazioni dell’universo elettronico, ad oggi. Scegliendo un approccio gentile che ponesse in primo piano le tessiture strumentali piuttosto che un beat serrato, i due hanno fatto una scelta di campo portandoli ad esser paragonati ad alcuni dei migliori esponenti della proto-elettronica dei primi 60. E’ infatti essenziale l’approccio analogico in ogni sua forma dall’utilizzo delle tecnologie agli strumenti impiegati nel processo. Un’elettronica che definiamo manuale, proprio per l’assenza di programmi pre-definiti e per il ricorso poco meno che funzionale al laptop. Sono le macchine ad affascinare Robin ed Antony, la loro predilezione è per elementi arcaici come i vecchi Casio, le manipolazioni su nastro ed il ricorso ai rumori d’ambiente come a field recordings. Un senso di gioia pervade l’intera opera, dalle cinematiche indiscrezioni di Grissette alle calme ed oscillanti melodie di Greencracked, con immagini retro-futuriste a prendere il sopravvento. E’ evidente quale sia il percorso del gruppo, lontano dal trambusto quotidiano e più prossimo ad una definizione di elettronica che travalichi i contesti popolari, proprio in questa ricerca gli Isan sembrano aver maggiore confidenza con la scuola tedesca di Dusseldorf, con le trovate insuperate del BBB Radiophonic Workshop e con un maestro come Raymond Scott. L’idea è quella di rivedere alcuni standard e rilanciare l’idea di un moto compositivo sensibile alla storia più che alle mode fittizie.
26/04/10
Vesuvio Pop
Goodfellas e Rave Up Multimedia sono lieti di presentare “Vesuvio Pop”, un ricco documentario in DVD accompagnato da una compilation che raccoglie il meglio della canzone napoletana del III° millennio, che vi sveleranno tutti i segreti della prolifica scena musicale all’ombra del Vesuvio.
Parlando di partenopop o nuovi melodici non si può certo trascurare l’impatto che a livello mediatico abbiano avuto questi autori nelle rispettive aree di appartenenza. Un mercato – il loro – che si è sviluppato ‘parallelamente a quello dell’industria discografica ufficiale, con pubblicazioni capaci di sbancare i botteghini anche per via del prezzo stracciato. Un fenomeno da non ascriversi propriamente all’underground, tanto in crescita la visibilità e la credibilità di questi artisti anche al di fuori dei confini regionali. Quello che comodamente viene definito come partenopop è in realtà filosofia di vita, capace di incendiare anche le periferie palermitane e quelle romane. Autori che a spallate si sono conquistati il rispetto non solo dei boss locali – l’immagine più naturale è quella del Gomorra di Saviano, trasposto in immagini da Garrone – ma anche delle siddette eminenze grigie che controllano il ‘commercio’ dai bassifondi.
E’ una nuova generazione di cantanti giovanissimi quella che sta conquistando le luci della ribalta:
Alessio, Raffaello, Luca Formisani, Tony Colombo, Francesco Renzi, Emiliana Cantone… sono alcune delle nuove local star nate sotto l’ombra del Vesuvio. Alcune di queste – probabilmente – destinate a compiere il grande salto e a spopolare nell’etere nazionale. Siamo al pop di terza generazione, il biondo ragazzo della curva B Nino D’Angelo imperversò per buona parte degli ottanta (con le relative comparsate cinematografiche al fianco dell’inseparabile Cannavale), il suo erede naturale Gigi D’Alessio mise le mani sugli anni novanta, divenendo ben presto personaggio pubblico, ora ‘adottato’ a livello nazionale. Vesuvio Pop è l’ennesimo ritorno di quel suono con il suo -spesso – ingombrante immaginario.
C’è chi accusa il fenomeno di collusione con la malavita locale, chi più semplicemente lo ritiene espressione naif di certo modo di interpretare la musica, oppure chi valuta si tratti di una realtà autentica originata dalla parte marginale della metropoli partenopea, dunque, una delle manifestazioni più realistiche del difficile quotidiano napoletano. E’ evidente che spesso si tratta di cliché negativi gratuitamente attribuiti con una certa dose di snobismo (se non di malcelato razzismo) in modo indiscriminato verso una forma d’ espressione cui va comunque riconosciuta l’assoluta autonomia dai centri nevralgici del potere mediatico.
Flussi di note e parole che puntano diretti al cuore, forti nel generare emulazione e voglia di riscatto; canali attraverso i quali è finalmente possibile fare udire la propria voce al mondo, occasioni per provare a migliorare il proprio quotidiano. Musica di comunità, certo, ma anche megafono attraverso il quale esprimere gioie e dolori autentici, allo stesso modo di come potrebbero essere vissuti e cantati nelle periferie abbandonate di qualsiasi altra metropoli del mondo.
Perché i luoghi in cui si consuma la musica sono spesso matrimoni, comunioni o ricorrenze di altra natura. E nello sfarzo – spesso ci si chiede come vengano allestite le stesse celebrazioni, ma a pensar male si fa peccato… - avviene anche il generoso lancio di un artista emergente, che abbraccia tutto un mondo di riferimenti tangibili. Occasioni che generano dunque opportunità di lavoro non esistenti altrove in Italia. Una macchina che muove migliaia di euro, capace di essere un’alternativa più che redditizia alla drammatica disoccupazione di massa presente nel territorio. Con questo sogno nel cassetto, decine e decine di ragazzi di Napoli e circondario, stanno iniziando a muovere i primi passi nella canzone melodica.
E’ dunque un documentario eccezionale - accompagnato da un’altrettanto preziosa compilation – quello diretto da Pierpaolo De Iulis, occasione più unica che rara per gustare dall’interno i luoghi in cui la nuova canzone napoletana ha preso forma. Da "Te voglio bene assaje" di Raffaele Sacco a "Scivola quel jeans" di Raffaello, Vesuvio Pop è un avvincente viaggio attraverso gli aspetti più veraci di questi nuovi cantori. Tutti i segreti della prolifica scena musicale all’ombra del Vesuvio sono ora di vostro dominio.
DATA DI PUBBLICAZIONE: 28 MAGGIO 2010
Parlando di partenopop o nuovi melodici non si può certo trascurare l’impatto che a livello mediatico abbiano avuto questi autori nelle rispettive aree di appartenenza. Un mercato – il loro – che si è sviluppato ‘parallelamente a quello dell’industria discografica ufficiale, con pubblicazioni capaci di sbancare i botteghini anche per via del prezzo stracciato. Un fenomeno da non ascriversi propriamente all’underground, tanto in crescita la visibilità e la credibilità di questi artisti anche al di fuori dei confini regionali. Quello che comodamente viene definito come partenopop è in realtà filosofia di vita, capace di incendiare anche le periferie palermitane e quelle romane. Autori che a spallate si sono conquistati il rispetto non solo dei boss locali – l’immagine più naturale è quella del Gomorra di Saviano, trasposto in immagini da Garrone – ma anche delle siddette eminenze grigie che controllano il ‘commercio’ dai bassifondi.
E’ una nuova generazione di cantanti giovanissimi quella che sta conquistando le luci della ribalta:
Alessio, Raffaello, Luca Formisani, Tony Colombo, Francesco Renzi, Emiliana Cantone… sono alcune delle nuove local star nate sotto l’ombra del Vesuvio. Alcune di queste – probabilmente – destinate a compiere il grande salto e a spopolare nell’etere nazionale. Siamo al pop di terza generazione, il biondo ragazzo della curva B Nino D’Angelo imperversò per buona parte degli ottanta (con le relative comparsate cinematografiche al fianco dell’inseparabile Cannavale), il suo erede naturale Gigi D’Alessio mise le mani sugli anni novanta, divenendo ben presto personaggio pubblico, ora ‘adottato’ a livello nazionale. Vesuvio Pop è l’ennesimo ritorno di quel suono con il suo -spesso – ingombrante immaginario.
C’è chi accusa il fenomeno di collusione con la malavita locale, chi più semplicemente lo ritiene espressione naif di certo modo di interpretare la musica, oppure chi valuta si tratti di una realtà autentica originata dalla parte marginale della metropoli partenopea, dunque, una delle manifestazioni più realistiche del difficile quotidiano napoletano. E’ evidente che spesso si tratta di cliché negativi gratuitamente attribuiti con una certa dose di snobismo (se non di malcelato razzismo) in modo indiscriminato verso una forma d’ espressione cui va comunque riconosciuta l’assoluta autonomia dai centri nevralgici del potere mediatico.
Flussi di note e parole che puntano diretti al cuore, forti nel generare emulazione e voglia di riscatto; canali attraverso i quali è finalmente possibile fare udire la propria voce al mondo, occasioni per provare a migliorare il proprio quotidiano. Musica di comunità, certo, ma anche megafono attraverso il quale esprimere gioie e dolori autentici, allo stesso modo di come potrebbero essere vissuti e cantati nelle periferie abbandonate di qualsiasi altra metropoli del mondo.
Perché i luoghi in cui si consuma la musica sono spesso matrimoni, comunioni o ricorrenze di altra natura. E nello sfarzo – spesso ci si chiede come vengano allestite le stesse celebrazioni, ma a pensar male si fa peccato… - avviene anche il generoso lancio di un artista emergente, che abbraccia tutto un mondo di riferimenti tangibili. Occasioni che generano dunque opportunità di lavoro non esistenti altrove in Italia. Una macchina che muove migliaia di euro, capace di essere un’alternativa più che redditizia alla drammatica disoccupazione di massa presente nel territorio. Con questo sogno nel cassetto, decine e decine di ragazzi di Napoli e circondario, stanno iniziando a muovere i primi passi nella canzone melodica.
E’ dunque un documentario eccezionale - accompagnato da un’altrettanto preziosa compilation – quello diretto da Pierpaolo De Iulis, occasione più unica che rara per gustare dall’interno i luoghi in cui la nuova canzone napoletana ha preso forma. Da "Te voglio bene assaje" di Raffaele Sacco a "Scivola quel jeans" di Raffaello, Vesuvio Pop è un avvincente viaggio attraverso gli aspetti più veraci di questi nuovi cantori. Tutti i segreti della prolifica scena musicale all’ombra del Vesuvio sono ora di vostro dominio.
Vesuvio Pop audio sampler:
1. CHILLE VA PAZZE PE' TTE - Ciro Rigione
2. OK - Valentina
3. ALESSIA - Impero
4. ME MIETTE 'O CORE INT' O ZUCCHERO - Luca Formisani
5. UFFA'- Fortuna
6. LA TUA LAMBRETTA - Genny Aliberti
7. 'A BICICLETTA - Alberto Selly
8. 'A FELLA 'E CARNE - Mimmo Taurino
9. IL NAPOLI NEL CUORE - Frank Tellina
10. POCHA - Francesco Renzi
11. E PASSATE 'NA MANO PA' CUSCIENZA- Giovanna De Sio
12. MALAVITA NAPULITANA- Tommy Riccio
23/04/10
Il nuovo video di Sharon Jones And The Dap-Kings
"PERCHE’ LA MUSICA DI SHARON E’ UN RHYTHM & BLUES E SOUL MODERNO CHE, TUTAVIA, LASCIA POCO SPAZIO ALL’INNOVAZIONE, E PER FORTUNA: RISPETTO PER I MITI (DALLA STAX AL PHILLY SOUND), STRUMENTI VERI (IMPERDIBILE LA SEZIONE FIATI) E UNA OCE CAPACE NON SOLO DI CANTARE, MA DI INTERPRETARE." (ALBUM DELLA SETTIMANA SUL VENERDI’ DI REPUBBLICA 16 APRILE)
QUI SI RESPIRA A PIENI POLMONI QUEL GIOCO DI SQUADRA CHE HA SEGNATO I MOMENTI PIU’ IMPORTANTI DELLA MUSICA NERA, COME QUANDO I FORMIDABILI MUSICISTI DELLA MOTOWN ACCOMPAGNAVANO LE STELLE DEL SUONO DELLA GIOVANE AMERICA O QUELLI DELLO STUDIO MUSCLE SHOALS ERANO AL FIANCO DI ETTA JAMES O DI ARETHA FRANKLIN (XL REPUBBLICA)
"DIVERSE CANZONI POTREBBERO PIACERE ALLE RADIO. UN PAIO HANNO LA STOFFA DEI CLASSICI: WINDOW SHOPPING POTREBBE ARRIVARE DA OTIS, MAMA DON’T LIKE MY MAN DA UN SAM COOKE RISORTO DONNA" (IL MUCCHIO)
DAL SONTUOSO “PHILLY SOUND” THE GAME GETS OLD CHE APRE VELLUTATO EPPURE FERMO FINO ALLA CHIUSURA (SAM COOKE GIOVANE E FEMMINA…) MAMA DON’T LIKE MY MAN SFILANO SOLO DELIZIE CHE NON TEMONO POLVERE. CON I LEARNED THE HARD WAY, TITOLO AUTOBIOGRAFICO CHE SIGILLA IL TRAGUARDO RAGGIUNTO, MISS JONES ENTRA NELL’ALTA SOCIETÀ DEL VINTAGE SOUL CONTEMPORANEO. SROTOLATE IL TAPPETO ROSSO. (SENTIREASCOLTARE )
UN QUADRO PIACEVOLMENTE E SFACCIATAMENTE DEMODE’ CHE HA ORMAI CONQUISTATO LE CHIAVI DEL NUOVO POP INTERNAZIONALE, E CHE OCCHIEGGIA DI VOLTA IN VOLTA ALLE GRANDI LEZIONI DEL PASSATO NERO: STAX, MOTOWN, PHILADELPHIA IN PRIMIS (BLOW UP)
I LEARNED THE HARD WAY CONFERMA LA CARATURA SUPERIORE DELLA CANTANTE E DEI SUOI BOYS. IMPECCABILE LEI, VOCE A LIVELLO DEI PESI MASSIMI, POTENZA E CUORE CONCENTRATI; IMPECCABILI LORO, HOUSE BAND ORMAI CAPACE DI PRODURRE E ARRANGIARE GRANDE SOUL-FUNK CON IL PILOTA AUTOMATICO (RUMORE)
DAL SONTUOSO “PHILLY SOUND” THE GAME GETS OLD CHE APRE VELLUTATO EPPURE FERMO FINO ALLA CHIUSURA (SAM COOKE GIOVANE E FEMMINA…) MAMA DON’T LIKE MY MAN SFILANO SOLO DELIZIE CHE NON TEMONO POLVERE. CON I LEARNED THE HARD WAY, TITOLO AUTOBIOGRAFICO CHE SIGILLA IL TRAGUARDO RAGGIUNTO, MISS JONES ENTRA NELL’ALTA SOCIETÀ DEL VINTAGE SOUL CONTEMPORANEO. SROTOLATE IL TAPPETO ROSSO. (SENTIREASCOLTARE )
UN QUADRO PIACEVOLMENTE E SFACCIATAMENTE DEMODE’ CHE HA ORMAI CONQUISTATO LE CHIAVI DEL NUOVO POP INTERNAZIONALE, E CHE OCCHIEGGIA DI VOLTA IN VOLTA ALLE GRANDI LEZIONI DEL PASSATO NERO: STAX, MOTOWN, PHILADELPHIA IN PRIMIS (BLOW UP)
I LEARNED THE HARD WAY CONFERMA LA CARATURA SUPERIORE DELLA CANTANTE E DEI SUOI BOYS. IMPECCABILE LEI, VOCE A LIVELLO DEI PESI MASSIMI, POTENZA E CUORE CONCENTRATI; IMPECCABILI LORO, HOUSE BAND ORMAI CAPACE DI PRODURRE E ARRANGIARE GRANDE SOUL-FUNK CON IL PILOTA AUTOMATICO (RUMORE)
22/04/10
Land Of Kush's Egyptian Light Orchestra - Monogamy
Spesso all'interno di una comunità deliberatamente off si insinuano personaggi illuminati, straordinariamente dotati. Il punto è rendere plausibile e testimoniare al grande pubblico un dono così eccezionale. Spesso occorrono dei lustri, ma ancor più spesso le aspettative vengono disattese. Sam Shalabi che delle sue numerose partnership musicali ha fatto una ragione di vita, ha impiegato quasi un'intera carriera a metter fuori il naso dalla natia scena di Montreal.
I Land Of Kush sono ad oggi il suo progetto di maggior successo, a dirla tutta anche quello più ambizioso. Dopo aver esordito per Constellation con Against The Day, il gruppo lancia un ulteriore acuto con Monogamy, successore non meno articolato e sfavillante. Portando in dote le sue innumerevoli esperienze nei circoli più sperimentali del rock indipendente canadese, Sam Shalabi ha allestito quella che a ragione possiamo definire una big band. Tanto che oltre 21 musicisti si alternano tra le fila del nuovo disco, dispensando contribuiti vibranti, essenziali a costituire l'intelaiatura di un disco non meno sfaccettato. Ricordando per certi versi il viaggio - con relativo show - in Egitto dell'Arkestra di Sun Ra, i Land Of Kush incamerano nel loro suono non solo scale arabiche ma anche visioni di un Cairo futuribile, all'ombra di piramidi extraterrestri. Un'apoteosi per chi ha sempre sostenuto l'idea di una psichedelia a briglie sciolte, capace da un parte di inseguire la tensione del più visionario rock e dall'altra di intercedere con i piani alti dell'avanguardia occidentale.
Monogmay è così l'inaspettato disco di world music, il ragionevole guanto di sfida di un musicista che piuttosto che guardarsi alle spalle ha deciso di spostare la sua visione su inediti piani sequenziali. I Land Of Kush sono così un collettivo al di fuori dei più severi steccati, un'entità padrona del suo destino, sospesa in un limbo temporale che varrebbe la pena definire futurismo antico. Ancient to the future era d'altronde uno dei motti dell'Art Ensemble Of Chicago, una delle formazioni che più ha rinnovato l'enciclopedia afro-americana.
The Egyptian Light Orchestra è l'indicativa sigla che accompagna il monicker dei Land Of Kush, in sè un'ammissione. La scrittura del gruppo sa essere distintamente avvolgente nei lunghi ed armoniosi passaggi cameristici, libera da ogni sorta di compromesso nelle riottose devianze free, ammaliante nelle sue salite psichedeliche. Un disco che chiaramente va gustato nel suo insieme, una filosofia di vita quella dei Land Of Kush che implica lo scambio culturale, come ragion d'essere. E nei groove ipnotici di Monogamy c'è tutto il sapere di una formazione ardita, multiforme e distante dalle convenzioni. Uno dei dischi di maggior spessore di questo 2010, aldilà di quello che comunemente intendiamo come indie rock o pura avanguardia.
I Land Of Kush sono ad oggi il suo progetto di maggior successo, a dirla tutta anche quello più ambizioso. Dopo aver esordito per Constellation con Against The Day, il gruppo lancia un ulteriore acuto con Monogamy, successore non meno articolato e sfavillante. Portando in dote le sue innumerevoli esperienze nei circoli più sperimentali del rock indipendente canadese, Sam Shalabi ha allestito quella che a ragione possiamo definire una big band. Tanto che oltre 21 musicisti si alternano tra le fila del nuovo disco, dispensando contribuiti vibranti, essenziali a costituire l'intelaiatura di un disco non meno sfaccettato. Ricordando per certi versi il viaggio - con relativo show - in Egitto dell'Arkestra di Sun Ra, i Land Of Kush incamerano nel loro suono non solo scale arabiche ma anche visioni di un Cairo futuribile, all'ombra di piramidi extraterrestri. Un'apoteosi per chi ha sempre sostenuto l'idea di una psichedelia a briglie sciolte, capace da un parte di inseguire la tensione del più visionario rock e dall'altra di intercedere con i piani alti dell'avanguardia occidentale.
Monogmay è così l'inaspettato disco di world music, il ragionevole guanto di sfida di un musicista che piuttosto che guardarsi alle spalle ha deciso di spostare la sua visione su inediti piani sequenziali. I Land Of Kush sono così un collettivo al di fuori dei più severi steccati, un'entità padrona del suo destino, sospesa in un limbo temporale che varrebbe la pena definire futurismo antico. Ancient to the future era d'altronde uno dei motti dell'Art Ensemble Of Chicago, una delle formazioni che più ha rinnovato l'enciclopedia afro-americana.
The Egyptian Light Orchestra è l'indicativa sigla che accompagna il monicker dei Land Of Kush, in sè un'ammissione. La scrittura del gruppo sa essere distintamente avvolgente nei lunghi ed armoniosi passaggi cameristici, libera da ogni sorta di compromesso nelle riottose devianze free, ammaliante nelle sue salite psichedeliche. Un disco che chiaramente va gustato nel suo insieme, una filosofia di vita quella dei Land Of Kush che implica lo scambio culturale, come ragion d'essere. E nei groove ipnotici di Monogamy c'è tutto il sapere di una formazione ardita, multiforme e distante dalle convenzioni. Uno dei dischi di maggior spessore di questo 2010, aldilà di quello che comunemente intendiamo come indie rock o pura avanguardia.
Due nuove uscite targate Tracce
Dave Burrell - Plays His Songs With Leena Conquest
Un prezioso quanto inaspettato album di canzoni, composte dal grande Dave Burrell e interpretate dalla cantante e performer Leena Conquest. Dave Burrell, uno dei protagonisti della "new thing", ha fatto parte dei gruppi storici di Archie Shepp, Pharoah Sanders, Marion Brown e Sunny Murray; il suo pianoforte ha contribuito alla realizzazione di alcuni degli album manifesto di un'era di trasformazione musicale, sociale e politica, tra questi ricordiamo "Attica Blues" e "The Cry Of My People" (Shepp), Tauhid (Sanders), "Juba Lee" e "Three For Shepp" (Brown).
Abbiamo iniziato ad apprezzare l'anima e il talento di Leena Conquest attraverso i gruppi e i progetti di William Parker e crediamo che l'integrità stilistica di questa cantante rappresenti la dote perfetta per un'interpretazione profonda dei temi, dichiaratamente romantici, di Dave Burrell, e dei testi della poetessa Monika Larsson. Il suono pieno di Burrell, applicato a un fraseggio essenziale, asciutto e privo di orpelli, svela ancor più che in altri contesti, l'intima connessione del pianista con la genealogia di maestri inconfutabili come Jelly Roll Morton, James P. Johnson e Duke Ellington.
L'album si apre con 'Teardrops For Jimmy', un sentito omaggio a Jimmy Garrison e si chiude con una nuova versione del classico 'Crucificado'. Nessun avanguardismo, nessuna abrasione, solamente il concatenarsi di temi, melodie e armonie, in perfetta sincronia con la storia e la tradizione musicale afro-americana.
Abbiamo iniziato ad apprezzare l'anima e il talento di Leena Conquest attraverso i gruppi e i progetti di William Parker e crediamo che l'integrità stilistica di questa cantante rappresenti la dote perfetta per un'interpretazione profonda dei temi, dichiaratamente romantici, di Dave Burrell, e dei testi della poetessa Monika Larsson. Il suono pieno di Burrell, applicato a un fraseggio essenziale, asciutto e privo di orpelli, svela ancor più che in altri contesti, l'intima connessione del pianista con la genealogia di maestri inconfutabili come Jelly Roll Morton, James P. Johnson e Duke Ellington.
L'album si apre con 'Teardrops For Jimmy', un sentito omaggio a Jimmy Garrison e si chiude con una nuova versione del classico 'Crucificado'. Nessun avanguardismo, nessuna abrasione, solamente il concatenarsi di temi, melodie e armonie, in perfetta sincronia con la storia e la tradizione musicale afro-americana.
Moodswing 3 - Wegen Meines Beines
Sabina Meyer e' una cantante che da anni conduce una ricerca basata sull'attraversamento di aree musicali diverse: la cultura ebraica, le tradizioni musicali dell'est Europa, la canzone brechtiana, la musica contemporanea (Berio, Cage, Scelsi ) e infine l'improvvisazione, ovvero il linguaggio capace di riorganizzare coerentemente e in profondità un così ampio spettro di scelte. Paul Lovens e' uno dei padri della musica creativa europea, uno dei protagonisti della prima generazione di improvvisatori capaci di elaborare un'estetica autonoma rispetto alla radice afro-americana.
Lovens e' senza dubbio uno dei maggiori responsabili della trasformazione della batteria e del linguaggio percussivo dagli anni sessanta ad oggi. Hans Koch e' uno dei pionieri della scena improvvisativa elvetica, un istancabile ricercatore in continuo viaggio attraverso le culture musicali underground del globo. A partire dallo storico trio, Koch- Schutz- Studer, da Cuba, al Cairo, dalla New Orchestra di Barry Guy, fino agli Young Gods. Il mondo sonoro evocato dall'incontro di Sabina Meyer, Hans Koch e Paul Lovens prende il nome di Moodswing 3. Un dialogo libero e rigoroso tra voce, ance, elettronica e percussioni. Il canto e' sospeso, la pulsazione e' interiore, arcaica, il suono indaga la velocità del soffio, la profondità del respiro e l'esotismo di un rito ancestrale. un bellissimo esordio discografico, registrato dal vivo, nel 2009 presso il Goethe Institut di Roma e sapientemente missato da Hans Koch.
Lovens e' senza dubbio uno dei maggiori responsabili della trasformazione della batteria e del linguaggio percussivo dagli anni sessanta ad oggi. Hans Koch e' uno dei pionieri della scena improvvisativa elvetica, un istancabile ricercatore in continuo viaggio attraverso le culture musicali underground del globo. A partire dallo storico trio, Koch- Schutz- Studer, da Cuba, al Cairo, dalla New Orchestra di Barry Guy, fino agli Young Gods. Il mondo sonoro evocato dall'incontro di Sabina Meyer, Hans Koch e Paul Lovens prende il nome di Moodswing 3. Un dialogo libero e rigoroso tra voce, ance, elettronica e percussioni. Il canto e' sospeso, la pulsazione e' interiore, arcaica, il suono indaga la velocità del soffio, la profondità del respiro e l'esotismo di un rito ancestrale. un bellissimo esordio discografico, registrato dal vivo, nel 2009 presso il Goethe Institut di Roma e sapientemente missato da Hans Koch.
20/04/10
Ayobaness! The Sound of South African House (Out Here Records)
Con il mondiale sudafricano alle porte, è quasi d’obbligo aprire alla nuova scena underground locale, che con Ayobaness si pone prepotentemente sulle mappe, regalando un favoloso ibrido di flavour ritmici e basi elettroniche. Non a caso sottotitolata The Sound of South African House, la raccolta ha lo scopo di disegnare il vibrante percorso della nightlife, un clash culturale che ha conquistato le sale da ballo da Johannesburg a Durban, suggerendo un’esperienza dance totale rispetto a quelle che sono le abitudini indigene.
Ayoba nel particolare è un’espressione gergale utilizzata nei sobborghi di Johannesburg, e sta per eccitazione. Ovviamente tutta la regione è presa dalla febbre dei mondiali di calcio – che si terranno a cavallo tra giugno e luglio – ed il programma di Ayobaness sembra quasi congelare il momento, accompagnando con il suo forsennato battito cardiaco i preparativi alla grande manifestazione sportiva.
In tempi recenti si è acuito l’interesse del mondo occidentale per i suoni provenienti dal sud Africa. Con la riscoperta di ritmi globali come il baile funk delle favelas brasiliane, la cumbia o il kuduro, dopo i paesi latini l’attenzione degli osservatori si concentra sugli eroi locali, spesso ospiti di festival internazionali e kermesse di stampo prettamente elettronico-dance.
DJ Mujava da Pretoria è uno dei volti più noti del movimento dance, lo scorso anno ha realizzato un exploit con il brano ‘Township Funk’ finito non solo nelle playlist dei selecter locali, ma anche capace di travalicare i patri confini. Anche questo è stato il viatico alla rinascita del movimento black, spesso ridotto ad invisibile memoria passatista, negli anni bui dell’apartheid. La musica house sembra il connettore di questa ripresa verticale, il motore di un movimento che scavallando le mode, si è fuso con l’attitudine stradaiola delle township, in ibridi davvero fantasiosi. Elaborando infatti le parti elettroniche con le tradizioni shangan, zulu o xhosa la magia ha letteralmente spopolato nei club, preparando un nuovo trend capace di espandersi a macchia d’olio.
Ayobaness è così il suono delle nuove generazioni che vivono la cultura dei club, coniando ritmi contagiosi dalle loro consolle. Dal peso massimo di Durban L’Vovo Derrango a Pastor Mbhobho, per l’appunto un folle predicatore con un’appariscente pettinatura afro, passando per i contributi di DJ Cleo e la crew Afrohouse di Shana. Un manifesto che spinge le sonorità del ghetto verso il riconoscimento globale, una danza che sarà febbrile, a poche settimane dall’evento calcistico definitivo
Ayoba nel particolare è un’espressione gergale utilizzata nei sobborghi di Johannesburg, e sta per eccitazione. Ovviamente tutta la regione è presa dalla febbre dei mondiali di calcio – che si terranno a cavallo tra giugno e luglio – ed il programma di Ayobaness sembra quasi congelare il momento, accompagnando con il suo forsennato battito cardiaco i preparativi alla grande manifestazione sportiva.
In tempi recenti si è acuito l’interesse del mondo occidentale per i suoni provenienti dal sud Africa. Con la riscoperta di ritmi globali come il baile funk delle favelas brasiliane, la cumbia o il kuduro, dopo i paesi latini l’attenzione degli osservatori si concentra sugli eroi locali, spesso ospiti di festival internazionali e kermesse di stampo prettamente elettronico-dance.
DJ Mujava da Pretoria è uno dei volti più noti del movimento dance, lo scorso anno ha realizzato un exploit con il brano ‘Township Funk’ finito non solo nelle playlist dei selecter locali, ma anche capace di travalicare i patri confini. Anche questo è stato il viatico alla rinascita del movimento black, spesso ridotto ad invisibile memoria passatista, negli anni bui dell’apartheid. La musica house sembra il connettore di questa ripresa verticale, il motore di un movimento che scavallando le mode, si è fuso con l’attitudine stradaiola delle township, in ibridi davvero fantasiosi. Elaborando infatti le parti elettroniche con le tradizioni shangan, zulu o xhosa la magia ha letteralmente spopolato nei club, preparando un nuovo trend capace di espandersi a macchia d’olio.
Ayobaness è così il suono delle nuove generazioni che vivono la cultura dei club, coniando ritmi contagiosi dalle loro consolle. Dal peso massimo di Durban L’Vovo Derrango a Pastor Mbhobho, per l’appunto un folle predicatore con un’appariscente pettinatura afro, passando per i contributi di DJ Cleo e la crew Afrohouse di Shana. Un manifesto che spinge le sonorità del ghetto verso il riconoscimento globale, una danza che sarà febbrile, a poche settimane dall’evento calcistico definitivo
Woods - At Echo Lake (Woodsist)
E’ un momento importante nella carriera dei Woods, quasi sintomatico. Se il leader Jeremy Earl ha messo in piedi una delle più quotate etichette indie contemporanee - la Woodsist, che in catalogo vanta i nomi di Sic Alps, Wavves e Moon Duo (il progetto collaterale di Wooden Shjips) – con il gruppo madre si appresta a cogliere i frutti di un processo creativo che a lungo ne ha contraddistinto il cammino. Domicilio newyorkese ma attitudine assolutamente californiana i Woods hanno cesellato la loro musica con il progressivo intervento di collaboratori esterni, invitando anche sul nuovo At Echo Lake personaggi del calibro di Matthew Valentine (all’armonica ed al banjo in Time Fading Lines) e G.Lucas Cranes il cui destino è quello di manipolare nastri in Suffering Season, dando un ulteriore contorno psichedelico alla musica dei nostri. L’ultimo album ufficiale della band risale al 2007. At Rear House era un affare per pochi intimi, una reprise addirittura lo-fi dell’attitudine jam di certi dinosauri americani. At Echo Lake aggiusta quindi il tiro, pur partendo da quelle coordinate, ma attivandosi verso una forma canzone che disperde umori folk-psichedelici a destra e a manca. Lontana è la stagione delle comuni e dei raduni all’aperto, la musica dei Woods pur nascendo da un canovaccio indie, prende in esame proprio le coloriture del suono seventies, andando a ricollocare quegli impulsi in un placido universo sonoro. Un gruppo mentalmente formatosi negli eighties, sulla scia dei nuovi tradizionalisti che incontravano il post-punk (aprite il file che comprende i vari Meat Puppets, Firehose e primi Dinosaur Jr.), per poi baciare negli anni zero la filosofia del do it yourself e ricostruire dalle fondamenta quello che un tempo veniva bollato come rock in bassa fedeltà. Il suono delle chitarre lisergiche, gli intrecci elettro-acustici, le sparse percussioni d’accompagnamento, la voce di Earl (quasi un ibrido tra Jad Fair, Jonathan Richman e Neil Young a detta di alcuni esperti), ci conducono per mano nel sentimentale viaggio di At Echo Lake, una delle pubblicazioni più attese della stagione indie. Have a nice trip!
Pipettes contro tutti
Il ritorno delle Pipettes è stato anticipato da un repentino cambio di organico che allo stesso tempo ha introdotto una serie di sostanziali ritocchi alla proposta delle nostre, capaci di affrontare la seconda avventura discografica con rinnovata verve, abbandonando l’immaginario fifties a cui erano associate sin dagli esordi. La musica cambia al pari dell’etichetta che cura oggi i loro interessi, Fortuna Pop, che già ha fatto tanto per veicolare in Europa il successo dei Pains Of Being Pure Heart. Un modo di rimettersi in gioco dopo la parentesi major ed i successi di vendita, che anche nel nostro paese sono stati affatto trascurabili. La docile aurea da girl group – gustosamente spectoriana – che ne ha fatto le fortune è stata accantonata in favore di uno stile più modernista, ma affatto sobrio. Sempre memori di quello che è stato il pop degli ultimi 30 anni, quello che ha fatto breccia nei cuori e nelle classifiche di mezzo mondo – le Pipettes aggiustano il tiro, incamerando anche influenze dance ed easy listening, in un connubio glitterato, che a distanza rievoca da una parte la sensuale patina dello Studio 54 e dall’altra lo stravagante europop degli Abba. Ani – sorella dell avocalist leader Gwenno – è uno dei volti nuovi della compagine, a ha all'attivo un suo show televisivo per un canale irlandese, già punto di riferimento per l’universo della moda. Insieme a lei è stato reclutato un veterano alla batteria come Alex White (The Electric Soft Parade e Brakes). I due vanno a completare l’organico originario con Monster Bobby (chitarra), Jon (basso), Seb (tastiere) e la stessa prima donna Gwenno. Prodotto dal leggendario Martin Rushent, preso di forza da un forzato ritiro, il disco può dunque avvalersi del tocco di un ingegnere del suono formidabile. Nel suo palmares spiccano i lavori di Stranglers, Shirley Bassey, Altered Images, The Buzzcocks e soprattutto "Dare" degli Human League, vero e proprio punto di riferimento per tutta la scena synth pop. A partire dal primo singolo "Stop The Music" il gruppo rinasce ed il loro è un balzo prepotente verso il futuro, con un’attitudine che a ben vedere potrebbe essere paragonata a quella delle giovani indie band invaghitesi dell’r&b. Un disco pop moderno, raffinato e sottilmente dance per una band che non teme smentite.
L'USCITA MONDIALE DI QUESTO ALBUM, INIZIALMENTE PREVISTA PER META' GIUGNO, E' STATA POSTICIPATA AL 6 SETTEMBRE
Dan Sartain Lives - il nuovo abum a giugno
Inseguito da qualche iguana, piuttosto che da qualche poco raccomandabile creditore, Dan Sartain vede tutti i fantasmi del desert rock americano e li esorcizza con un tocco da compassato cerimoniere. E senza alcun giro di parole questo è purissimo rock’n’roll, speziato da umori cajun e da melodrammatiche ballate retrò sul ciglio di una highway. "Dan Sartain Lives" incarna lo spirito di quell’America di provincia – o di confine – che per anni ha caratterizzato la storia di molti autori passionali, capaci di riportare in auge radici comuni ed indimenticate, le stesse che hanno caratterizzato la prima musica registrata elettricamente, alla vigilia della grande depressione. Da Birmingham, Alabama, il nostro uomo si è già creato un invidiabile seguito, giocando su quella linea di confine che prevede da una parte le 12 classiche battute della musica del diavolo per antonomasia e dall’altra le psicotiche movenze di un fifties sound rimodernato. Dopo aver raggiunto una discreta notorietà con la Swami di San Diego – la stessa che ha tenuto a battesimo molti dei progetti del dopo Rocket From The Crypt – ed aver raggiunto un accordo commerciale in Europa con One Little Indian, Dan si è anche agitato sullo stesso palcoscenico che ha visto protagonisti White Stripes e The Hives. Proprio in quelle circostanze è nata una particolare amicizia con Jack White che ne ha prodotto il singolo Bohemian Grove per la sua personale Third Man. Di ritorno sulle scene con un album completo il nostro sembra aver composto delle musiche appositamente per un remake di Daunbailò, forse a sua insaputa. Con brani dai titoli espliciti – che già ci introducono all’umore dell’ipotetica pellicola – come "Voo Doo", "Praying For A Miracle", "Bad Things Will Happen", "Walk Among Cobras IV" e il primo singolo "Atheist Funeral" la paludosa discesa nei luoghi del vizio e del rock’n’roll ha inizio, con passo spedito. Erede in qualche misura di quei suoni che un tempo furono di Mink De Ville, Del Fuegos, Del-Lords o Bo Deans, Dan Sartain scrive un’altra vibrante pagina della roots music a stelle e strisce, con vigore e peccaminosa consapevolezza.
19/04/10
Nuovo capitolo del sodalizio Little Annie - Paul Wallfisch
"Genderful" è il nuovo album confezionato da Little Annie e Paul Wallfisch ed è ancora un delizioso affogare nell'oceano delle murder ballads e della più peccaminosa soul music. Una coppia di veterani che lavora di concetto ad un repertorio che sembra attingere dai grandi chansonnier (il nome di Jacques Brel potrebbe palesarsi a vostra insaputa) come da un blues formato saloon in cui è il pianoforte il vero protagonista. Dalle corde romantiche e decadenti di "Suitcase Full of Secrets" all'ipotetico azzardo da colonna sonora per un art movie di "Because You're Gone Song" passando perle operette da tre soldi - anche Kurt Weil sull'uscio - di "Cutesy Bootsies" ed "Adrianna" . Ma c'è anche l'epicità di brani dal piglio più urbano e dalle liriche quasi metropolitane, memori appunto dei trascorsi newyorkesi della stessa Little Annie. "Billy Martin Requiem" è proprio un ode ad i personaggi della scena post-punk newyorkese scomparsi prematuramente per via dell’ AIDS. Un pop sempre melodrammatico quello dei due, giocato sul filo di una sottile emozione epidermica, le canzoni sono spesso riflessioni sui dolori e le gioie della vita, sull'amarezza della perdita e la gioia della conoscenza. Little Annie aprirà come special guest il tour di Marc Almond in supporto a “30 Year Celebration - My Hits And A Sides” . In queste 12 date già annunciate per il territorio britannico la nostra avrà anche modo di accompagnarsi a Baby Dee, altro spirito affine. Il cd esce in formato digipack ed oltre a contenere tutte le liriche in un delizioso libretto a colori, mette insieme foto esclusive di grosso spessore artistico. La parabola di Little Annie dalla comune dei Crass all’avventura in casa On-U Sound è davvero lungi dall’esaurirsi.
For fans of: Edith Piaf, Serge Gainsbourg, Jacques Brel, Antony & The Johnsons, Eartha Kitt, The Tiger Lillies.
For fans of: Edith Piaf, Serge Gainsbourg, Jacques Brel, Antony & The Johnsons, Eartha Kitt, The Tiger Lillies.
16/04/10
"Crush Depth", il secondo atteso album dei Chrome Hoof
Si chiama "Crush Depth", ed è la nuova incredibile avventura firmata dai britannici Chrome Hoof. Avventura più che esperienza musicale, dato che la capacità di muoversi a tutto tondo del gruppo implica un'abilità inconsueta nel prendere in esame tutte le musiche possibili della sfera 'occidentale'. Celebri per i loro live in cui fanno sfoggio di scenografie tra lo spaziale ed il teatrale, intrattenitori sublimi che sanno spingere con estrema naturalezza il piede sull'acceleratore, i Chrome Hoof sono una delle realtà più sfuggenti del cosmo britannico, tanto che i loro riferimenti spaziano dall'ossessivo groove funkadelico alla tradizione hard & heavy, incamerando nel mezzo tutto lo scibile di una cultura pop debitamente saccheggiata e riciclata ad arte. Semmai ancora più eclettici nel secondo lavoro sulla lunga distanza, stabiliscono che la parola d'ordine è osare. La loro musica è così esuberante contenitore capace di farvi sobbalzare dalla sedia senza cedere mai il passo alla noia o al mestiere. Dei dodici elementi in campo, sicuramente di spicco è la figura della vocalist di colore Lola Olafsioye, già alcentro delle attenzioni con i suoi Spektrum, combriccola autrice di un memorabile electro-funk che riattualizzava ai giorni nostri la lezione di ESG e Rip Rig & Panic. Crush Depth è un fuco tribale dove le danze si ergono a rito processionale,preparando il terreno ai mille sotterfugi del gruppo,che intreccia doom rock, progressive e scampoli neo-classici senza sosta alcuna, palesando oltre alla divina tecnica compositiva,l'abilità di arrangiatori disinvolti. Un enorme cut-up sonoro,dove all'estetica accomodante dell'indie-rock viene preferito un gioco di squadra in cui è l'estro a vincere, in una forma canzone che si dipana su cambi di tempo e di atmosfere fulminanti. Frank Zappa sarebbe stato probabilmente fiero di loro. Welcome back my friends to the show that never ends!
15/04/10
Club 8
E’ incredibile quanto accaduto alla vocalist Karolina Komstedt ed al songwriter di riferimento Johan Angergård (parimenti impegnato con The Legends ed Acid House Kings, della medesima scuderia Labrador, label di cui manda anche avanti l'attività), i quali - dopo aver pubblicato qualcosa come sei album abbastanza omogenei tra loro con il nome Club 8 - decidono di riservarci una svolta repentina, non di meno avvincente. "The People’s Record" è il primo disco ad esser concepito con l’aiuto di un assistente di studio esterno, segnale evidente di come la produzione riceva oggi un ruolo di primissimo piano nell’economia della band scandinava. Definibile come etno-pop, il loro settimo album è il frutto di una ricerca sui suoni quasi estenunate, risultato di un illuminante viaggio in Brasile e dell’acquistico metodico di album risalenti all’epoca d’oro della musica dell’Africa occidentale degli anni 70. Una varietà stilistica che prende il sopravvento su quello che era il tipico asseto di Club 8, tra le più longeve esperienze del pop svedese lievemente declinato shoegaze. Jari Haapalainen (Camera Obscura, The Concretes, Ed Harcourt, etc) è l’ingegnere del suonochiamato in cattedra, colui che ha avuto un ruolo determinante nel plasmare il nuovo suono della formazione, mai così interessata ai ritmi terzomondisti ed alla cultura tropicale. Pur mantenendo liriche agrodolci formalmente imparentate con la più decadente new wave, il gruppo attinge ad una strabiliante gamma di suoni, tale da rendere i nuovi brani primizie pop-world. Inseguendo in parte il trend promosso da formazioni come Vampire Weekend negli States, i Camera Obsscura dipingono coi colori neri dell’Africa la loro musica, in un tripudio percussivo che è festa per corpo ed anima.
14/04/10
The Afrosound Of Colombia Vol. 1 (Vampisoul)
I più maliziosi magari penseranno al cartello di Medellin o alle imprese sportive dei nazionali Higuita e Valderrama, ma anche in Colombia di musica da perder la testa se ne è prodotta.
Eccome. A fare ordine ci pensa nuovamente l’iberica VampiSoul, che potendo attingere ad una sterminata collezione di singoli, mette in piedi una raccolta che ha del sensazionale. Il ritmo latino sottostà alle leggi dell’afro-beat ed una ubriacante festa su stratosferici ritmi funk ha luogo. Oltre due ore e mezza di musica, con brani risalenti sia agli anni '60 che '70, estrapolati dal florido catalogo della Discos Fuentes label operativa nel paese sudamericano. 43 tracce che battono il dancefloor in un irresistibile melange di salsa, cumbia, boogaloo, tropical funk e chicha...
Cruciale la figura di traghettatore di Julio Ernesto "Fruko" Estrada, boss della Disco Fuentes, che ha fatto in modo di importare il sound africano nel proprio paese, cogliendo le sottili analogie che legavano l’incessante ritmo dell’afro-beat al suono delle aree caraibiche. Ritmo e melodia che sono cibo per l’anima, questo lo spot con cui ha tirato su il suo piccolo impero discografico.
Ci eravamo già resi conto nella recente raccolta di Now Again Black Man’s Cry – dedicata all’ambasciatore dell’afro-funk Fela Kuti – di come in Colombia esistessero dei seguaci insospettabili di quel movimento. Nella sua varietà stilistica AfroSound Of Colombia è dunque un manifesto del medesimo villaggio globale, che al centro non mette certo l’etnia, quanto il fuoco sacro della pulsione più autentica. Una musica in primis fatta di sentimenti ed artistica spinta sovversiva.
Le estese note che accompagnano il booklet della raccolta targata Vampisoul sono a cura dell’esperto Pablo Yglesias altrimenti noto come DJ Bongohead.
Eccome. A fare ordine ci pensa nuovamente l’iberica VampiSoul, che potendo attingere ad una sterminata collezione di singoli, mette in piedi una raccolta che ha del sensazionale. Il ritmo latino sottostà alle leggi dell’afro-beat ed una ubriacante festa su stratosferici ritmi funk ha luogo. Oltre due ore e mezza di musica, con brani risalenti sia agli anni '60 che '70, estrapolati dal florido catalogo della Discos Fuentes label operativa nel paese sudamericano. 43 tracce che battono il dancefloor in un irresistibile melange di salsa, cumbia, boogaloo, tropical funk e chicha...
Cruciale la figura di traghettatore di Julio Ernesto "Fruko" Estrada, boss della Disco Fuentes, che ha fatto in modo di importare il sound africano nel proprio paese, cogliendo le sottili analogie che legavano l’incessante ritmo dell’afro-beat al suono delle aree caraibiche. Ritmo e melodia che sono cibo per l’anima, questo lo spot con cui ha tirato su il suo piccolo impero discografico.
Ci eravamo già resi conto nella recente raccolta di Now Again Black Man’s Cry – dedicata all’ambasciatore dell’afro-funk Fela Kuti – di come in Colombia esistessero dei seguaci insospettabili di quel movimento. Nella sua varietà stilistica AfroSound Of Colombia è dunque un manifesto del medesimo villaggio globale, che al centro non mette certo l’etnia, quanto il fuoco sacro della pulsione più autentica. Una musica in primis fatta di sentimenti ed artistica spinta sovversiva.
Le estese note che accompagnano il booklet della raccolta targata Vampisoul sono a cura dell’esperto Pablo Yglesias altrimenti noto come DJ Bongohead.
13/04/10
Primo capitolo della raccolta degli ASH "A-Z"
Tra le cose più fresche uscite dalla terra d’Albione – pur essendo irlandesi di origine - nel pieno del boom brit-pop, gli allora poco più che adolescenti Ash (imbracciarono gli strumenti a 12 anni appena) hanno saputo col tempo rinnovarsi, avvicinandosi a forme di moderno alternative rock più mature ed articolate. "A - Z Vol. 1" è la prima parte di una vera e propria invasione mediatica programmata su ampia scala. Saranno 26 i singoli che completeranno l’opera, equamente divisi in due analoghe parti – con relative 5 bonus a sorpresa – e funzioneranno come trampolino di lancio per i nuovi Ash, attualmente alle prese con le registrazioni del nuovo album in studio. All’opera nell’improvvisato quartier generale di Manhatthan, il gruppo ha per l’occasione risposto alle esigenze dei propri fans. Sono stati i più strenui supporter del trio a decidere la scaletta del disco, per ambo i volumi. Per rendere il piatto ancor più prelibato listano – nella versione limitata a 5000 esemplari – un dvd che è l’equivalente del tour diary che ha accompagnato il lancio del progetto A-Z. Dagli ibridi electro rock di True Love 1980 e Space Shot al dinamismo di un brano come Joy Kicks Darkness, passando per la romantica semi-ballad Tracers, estrapolata dall’album Wheeler, e le dense atmosphere di Pripyat . In un percorso che si segnala ancora una volta avvincente.
TRACKLIST
Return Of White Rabbit
True Love 1980
Joy Kicks Darkness
Arcadia
Tracers
The Dead Disciples
Pripyat
Ichiban
Space Shot
Neon
Command
Song Of Your Desire
Dionysian Urge
War With Me
Coming Around Again
The Creeps
Ctrl Alt Dlt
Do You Feel It
12/04/10
V/A - Cumbia Beat Volume 1 (Vampisoul Records)
La cumbia peruviana, altrimenti nota come "chicha", ha avuto il pregio di mettere insieme numerosi stili tropicali, favorendo le tradizioni di paesi come la Colombia e Cuba, attingendo peraltro agli stimoli delle musiche occidentali: il beat degli anni '60 ed il rock psichedelico in primis. Ovviamente a condire il tutto melodie indigene che avessero a cuore la tradizione andina e quella della giungla amazzonica.
Emotivamente imbattibile, la miscela risuona ancora ad oggi distinta e vibrante, favorendo così la curiosità di una nuova audience, che oggi ama ritrovarsi nei luoghi in cui il sound è tornato prepotentemente di moda. Da Londra a New York passando per Madrid non si contano più le serate capaci di riproporre l'intensità di quei momenti.
La raccolta della Vampisoul si presenta con un esteso libricino a colori di ben 36 pagine, con tanto di note in lingua inglese e spagnola. Il periodo di riferimento è riconducibile ad una stagione piuttosto lunga: compresa tra il 1966 ed il 1978. Dopo la progressiva decadenza del mambo nella metà degli anni '50 una serie di nuovi ritmi si sono infatti imposti nel paese sudamericano: merengue, guaguancó, cha cha cha, joropo, guaracha, rumba e la stessa cumbia, apparsa in sordina proprio al volgere del nuovo decennio.
La Sonora de Lucho Macedo ed i Los Pacharacos sono stati tra i primi ad imporre questo stile, inserendolo nelle classiche tessiture folkloriche del proprio paese. Ci sono 25 pezzi in cui perdersi letteralmente, ritmicamente disparati, talmente freschi da rinvigorire un qualsiasi dancefloor dei giorni nostri. Silvestre Montez y Sus Guantanameros, Grupo Celeste, Los Mirlos, Los Beta e Los Atomos De Paramonga sono solo alcuni dei protagonisti per cui perdere letteralmente la testa!
Emotivamente imbattibile, la miscela risuona ancora ad oggi distinta e vibrante, favorendo così la curiosità di una nuova audience, che oggi ama ritrovarsi nei luoghi in cui il sound è tornato prepotentemente di moda. Da Londra a New York passando per Madrid non si contano più le serate capaci di riproporre l'intensità di quei momenti.
La raccolta della Vampisoul si presenta con un esteso libricino a colori di ben 36 pagine, con tanto di note in lingua inglese e spagnola. Il periodo di riferimento è riconducibile ad una stagione piuttosto lunga: compresa tra il 1966 ed il 1978. Dopo la progressiva decadenza del mambo nella metà degli anni '50 una serie di nuovi ritmi si sono infatti imposti nel paese sudamericano: merengue, guaguancó, cha cha cha, joropo, guaracha, rumba e la stessa cumbia, apparsa in sordina proprio al volgere del nuovo decennio.
La Sonora de Lucho Macedo ed i Los Pacharacos sono stati tra i primi ad imporre questo stile, inserendolo nelle classiche tessiture folkloriche del proprio paese. Ci sono 25 pezzi in cui perdersi letteralmente, ritmicamente disparati, talmente freschi da rinvigorire un qualsiasi dancefloor dei giorni nostri. Silvestre Montez y Sus Guantanameros, Grupo Celeste, Los Mirlos, Los Beta e Los Atomos De Paramonga sono solo alcuni dei protagonisti per cui perdere letteralmente la testa!
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