Molti
nemici, tanta fatica. Forse si potrebbe partire da questo assurto per provare a
raccontare Daniele Sepe con la speranza che partendo da quello che più gli è
ostile, forse si riesca a dargli miglior definizione e a farlo conoscere con
compiuta precisione descrittiva. Chi sono i nemici ideali di Daniele Sepe? I
propugnatori di un ordine diffuso e rassicurante. Quelli che fanno le scatole e
le riempiono dopo aver scritto sul coperchio cosa conterranno. Gli aristotelici
classificatori del presente e di tutti i tempi, che ogni epoca s’è dovuta
misurare con la nevrile attitudine di certi a spiegarti che c’è sempre una
regola da rispettare, dicono proprio così, un criterio di riferimento, un metro
campione. Quelli che hanno bisogno dell’archetipo, di una matrice prima a cui
riferirsi, di un Linneo che governi il loro mondo che si ferma sempre un palmo
prima del davanzale della finestra. Per scoprirli questi propugnatori
dell’ordine universale, delle file di femmine e delle file di maschi, dei
confini di stato e delle lingue ufficiali, basta passargli davanti con un libro
o un disco. Non vi chiederanno mai cosa racconta, che suoni si porta addosso,
ma preferiranno piuttosto chiedervi ragione del genere. Per loro in musica
esistono le cose jazz e le cose blues, il folk e la classica, il reggae e il
madrigale. Così in letteratura vivono nella certezza che esista la fantascienza
e il fantasy, lo storico e il classico, l’horror e il generazionale. Ma l’apoteosi
è la sintesi attraverso la critica cromatica, da loro potentemente elaborata,
che li ha spinti a distillare una definizione di genere che passa dal rosa al
nero e poi ancora il giallo. Quella trovata dei colori è geniale e azzera
qualsiasi tentativo di legare definizione a contenuto. La morte loro insomma.
Ecco, quelli che trovano rassicurazione nella definizione di genere e nel
casellario emozionale, una volta al cospetto di Daniele Sepe e del suo percorso
musicale rischiano un serio blackout, un embolo che sale rapido a scoppiargli
nelle rare idee.
Danni permanenti e variati ma quel che è peggio disordine ingovernabile su tutto. Perché il maestro napoletano dentro un recinto non ci sa stare e ha piegato alla ragione della sua musica l’idea che nostra patria è il mondo intero, e forse già guarda all’universo tutto come a una bella possibilità. Canzoni da tutti i luoghi, lingue vivissime e idiomi resuscitati per l’occasione, danze e marce e processioni, classica e jazz, finanche il punk e le chitarre distorte, questo e molto di più contribuisce alla costruzione di quella ideale biblioteca sonora d’Alessandria che si cela nelle tracce della corposa produzione discografica di Sepe. Senza tregua, sempre mosso da nuova passione e sempre pronto a rinnovare quel maledetto binomio, patto scellerato tra arte e passione politica. Perché la musica, tutta la sua musica, pare mossa dal potente motore emotivo che a ogni strappo furioso ci ricorda che ribellarsi è giusto e sacrosanto. Partendo dalle canzoni popolari che sono il segno di una maledetta fatica, del fardello che i più deboli sempre si sono visto assegnato tra le spalle e il collo, tra i sogni e la necessità. Canzoni che offrono il petto al tiranno e cantanti che muoiono con le mani spezzate nei corridoi bui di uno stadio cileno. Balli, che nella gioia c’è la forza migliore, e struggenti canti d’amore. Tutto contribuisce a definire questa nozione della storia e della memoria che la musica ha la possibilità ma anche il dovere di veicolare, di raccontare. Canzone come narrazione efficace che assegni attenzione speciale alle cose minime, a quell’umanità defilata, mai registrata dagli archivi istituzionali, dai manuali di storia di regime, se non attraverso la compitazione dei morti dopo la guerra.
Danni permanenti e variati ma quel che è peggio disordine ingovernabile su tutto. Perché il maestro napoletano dentro un recinto non ci sa stare e ha piegato alla ragione della sua musica l’idea che nostra patria è il mondo intero, e forse già guarda all’universo tutto come a una bella possibilità. Canzoni da tutti i luoghi, lingue vivissime e idiomi resuscitati per l’occasione, danze e marce e processioni, classica e jazz, finanche il punk e le chitarre distorte, questo e molto di più contribuisce alla costruzione di quella ideale biblioteca sonora d’Alessandria che si cela nelle tracce della corposa produzione discografica di Sepe. Senza tregua, sempre mosso da nuova passione e sempre pronto a rinnovare quel maledetto binomio, patto scellerato tra arte e passione politica. Perché la musica, tutta la sua musica, pare mossa dal potente motore emotivo che a ogni strappo furioso ci ricorda che ribellarsi è giusto e sacrosanto. Partendo dalle canzoni popolari che sono il segno di una maledetta fatica, del fardello che i più deboli sempre si sono visto assegnato tra le spalle e il collo, tra i sogni e la necessità. Canzoni che offrono il petto al tiranno e cantanti che muoiono con le mani spezzate nei corridoi bui di uno stadio cileno. Balli, che nella gioia c’è la forza migliore, e struggenti canti d’amore. Tutto contribuisce a definire questa nozione della storia e della memoria che la musica ha la possibilità ma anche il dovere di veicolare, di raccontare. Canzone come narrazione efficace che assegni attenzione speciale alle cose minime, a quell’umanità defilata, mai registrata dagli archivi istituzionali, dai manuali di storia di regime, se non attraverso la compitazione dei morti dopo la guerra.
Raccontare
la musica con il limite delle parole finisce per restituire un corpo mutilo e
l’ascolto, quel lasciare che le note si levino e riempiano le nostre stanze e
il nostro presente migliore, è l’unico modo di rendere giustizia al lavoro di
Sepe. Poi troverete nei suoi dischi e in rete la vita narrata da lui
medesimo e le botte in piazza e tutto quel repertorio infinito di storie minime
che da sole sarebbero buone a riempire le pagine dei romanzi migliori. E allora
Daniele Sepe poserà il suo sassofono, e tutti gli incredibili strumenti che
frequenta da sempre, con il suo diploma in flauto al conservatorio e quegli
anni passati a sopravvivere suonando in studio con tutti, e racconterà. Vi
parlerà magari di Nico Casu che di giorno incontrava in piazza e erano mazzate,
Sepe dalla parte che possiamo immaginare e quell’altro con la divisa e il
manganello, e di sera ritrovava per suonare e invitava a cena da sua madre.
Scopriremo che Auli Kokko, quella voce incredibile che è parte integrante
dell’opera di Sepe, l’ha conosciuta mentre registravano per Fred Bongusto e che
la stessa, svedese di origini lapponi, rinunciò a una carriera remunerativa con
la musica commerciale per dedicarsi a quell’esplorazione del mondo attraverso
la canzone che ora questa raccolta antologica testimonia. O quando fece salire
sul palco Oreste Scalzone ad arringare il pubblico con accompagnamento
musicale, procurando un attacco di bile agli organizzatori del concerto. Una
vita difficile, ma piena di soddisfazioni. Di sicuro è quasi impossibile comprimere
in due album, anche se generosissimi, quasi 25 anni suonati, ma questa scelta è
soprattutto una testimonianza efficace, libera e sonora di una vita di musica.
Più che continuare a parlarne conviene passare all'ascolto.
La nota
all'album di Giorgio Olmoti