A circa tre anni da quello che è considerato il suo personale capolavoro - Here’s To Taking It Easy - Phosphorescent ritorna con la sua produzione più ambiziosa: Muchacho, ancora su etichetta Dead Oceans. Salutato in maniera trionfale – soprattutto oltremanica – da un’istituzione come Mojo e da uno dei negozi di dischi per eccellenza – Rough Trade - il penultimo album di Matthew Houck è stato quello dell’affermazione su più ampia scala, complice anche un trittico di date sold out alla Brixton Academy come spalla a The National.
Nativo dell’ Alabama ed ora
residente in quel di Brooklyn, Phosphorescent esordisce nel 2003 e da quel
momento mette in fila qualcosa come sei album, andando anche a scomodare uno
dei personaggi simbolo del country americano, quel Willie Nelson cui è dedicato
l’acustico ‘To Willie’. Associato in maniera circospetta a nomi fondamentali
come Waylon Jennings, John Prine e addirittura Bob Dylan, Matthew ha spesso
ignorato i dettami dell’industria discografica, ponendo il suo istinto compositivo
innanzi a tutto, assecondando così la sua prolifica vena.
Con ‘Muchacho’ si riappropria
della malinconia e del sensuale minimalismo che rappresentarono le fondamenta
di un disco come ‘Pride’. Dopo circa un anno e mezzo ‘on the road’, Matthew si è
detto letteralmente bruciato. Nemmeno il tempo di una pausa strategica che sul finire del 2011 le idee tornano a
fioccare. Meglio dunque recarsi nel fido studio di Brooklyn Navy Yard, già
teatro delle due precedenti creazioni. Affrancatosi momentaneamente dall’idea
di un tour esteso, il musicista acquista una serie di apparecchiature
analogiche, provando a fermare su nastro alcune ruvide intuizioni. Più che
canzoni, i primi esperimenti assomigliano a dei cut-up sonori, invero
rumorosi.
Nessuna meraviglia dunque nello
scorgere il meccanico battito di una drum machine – la famigerata 808 –
all’interno di un disco che si annuncia come tra i più contaminati concepiti dall’autore.
Il dittico iniziale ‘Sun, Arise!’ e ‘Song For Zula’ sembra un appuntamento al
buio tra i maggiori protagonisti della rivoluzione hypnagogica ed i loro padri
putativi californiani. Avete indovinato: Animal Collective e Beach Boys stipati
nella stessa stanza. Ma il violino ed il piano di ‘The Quotidian Beasts’
sembrano invece ricucire lo strappo con l’americana, descrivendo paesaggi
infiniti su cui planare. Lo stesso dicasi per ‘A New Anhedonia’ dove le sottili
voci r&b rendono le manovre neo-country di Phospohorescent più erranti. Un
disco che sa poi scherzare con l’elettronica, alla maniera del tanto
bistrattato Neil Young di ‘Reactor’. Una cosa è certa, il muchacho avvistato
alla frontiera è oggi più maturo, cosciente dei propri mezzi e capace di
fornire un imprinting decisivo alle sorti della musica più classicamente a stelle
e strisce.
Nessun commento:
Posta un commento