"Outlaw Heaven" è il nuovo album dei Popes. Il loro parto più riuscito ad oggi. Shane MacGowan – il devastato vocalist dei Pogues – è presente in ben tre tracce: la title track, "Bastards" e "Loneliness Of A Long Distance Drinker" (titolo dell’anno, potete giurarci). Una delle icone della musica pop europea degli anni ’80, Shane contribuì a mettere in piedi il primo nucleo dei Popes nel 1994, con il quale incise l’album "The Snake", proprio all’indomani della sua dipartita dal gruppo madre. Il leader e maggior compositore della band rimane però Paul McGuiness, che per "Outlaw Heaven" mette in piedi una larga ed inedita formazione, all’indomani della triste scomparsa del virtuoso ‘dio’ del banjo Tommy McManamon. McGuinness fa una precisazione importante rispetto a quello che è lo spirito dell’album, che richiama sì vecchie glorie del rock irlandese, ma paradossalmente i Thin Lizzy di Phil Lynott – o addirittura il Van Morrison più acceso – piuttosto che gli stessi cugini Pogues. Si aggiunge poi l’esperienza del tutto particolare dietro le canzoni di questo disco, concepite – almeno a livello lirico – durante i suoi 4 mesi di prigionia nelle carceri di Pentonville. Un’occasione più unica che rara di disintossicarsi da sostanze alcoliche e stupefacenti. "Outlaw Heaven" rimane un disco di rock’nroll moderno con le classiche scorribande folkloriche offerte anche dal banjo del nuovo ingresso Fiachra Shanks e il fiddle di Ben Gunnery. Che si aprano pure le danze!
30/06/09
Un nuovo disco per i Popes con Shane MacGowan
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Francois And The Atlas Mountains
Francois esordisce nel gennaio del 2004 esibendosi per la prima volta dal vivo in solo, utilizzando un armamentario affatto male composto da tastiere (suonate letteralmente coi piedi), una chitarra, campionamenti dal vivo ed una spettrale drum machine, mescolando la sua attitudine pop con una vena ovviamente più sperimentale e di ricerca. Musicalmente lo possiamo accostare a Stereo Total per gli acquerelli electro-pop, ai Velvet Underground per la stoica ed abbacinante lentezza dei brani, ai nuovi conterranei Hood per l’idea di una musica pop dai toni trasognanti e addirittura a Francoise Hardy per le ovvie reminiscenze francofone. Sospinto in qualche maniera dalla scena underground locale, Fancois collabora nel ruolo di trombettista live con Rozi Plain (Fence Records) Movietone (Domino), Crescent (Fat Cat) e gli scozzesi Camera Obscura (4AD). Il suo primo disco è un CDr autoprodotto a titolo "Les Anciennes Falaises" : esce nel 2004 ed è il viatico ad un’altra stagione fatta di concerti e collaborazioni estese. Con il gruppo Atlas Mountains pubblica nel 2006 "The People to Forge" un disco molto più ambizioso uscito in vinile per Stitch-Stitch. Il gruppo si esibisce dal vivo in lungo e in largo fino a tutto il 2007, supportando Adrian Orange, Camera Obscura, Electrelane e moltissimi altri. Altro riconoscimento arriva da Ray Rumours, che invita la band ad incidere uno split per Too Pure Singles Club. Il brano utilizzato è "Swimmers, Drifters". Nel 2008 Francois si concede una pausa di riflessione, tornando a vivere coi suoi genitori in Francia, ritirandosi momentaneamente dalla sua attività artistica. Ovviamente per una figura così dotata nel dono della scrittura lo stop non può che considerarsi temporaneo. Uno spettacolo inedito per il Centre Pompidou e le registrazioni del nuovo album "Plaine Inondable" (in uscita a Settembre per Talitres) riportano Francois nuovamente sulla mappa, evidenziando un’affatto trascurabile influenza americana. Per queste session sceglie il quintetto polifonico Bost Gehio e membri del gruppo Unkle Jelly Fish, sfiorando a ripetizione i territori che un tempo furono dei Giant Sand e dei primi Wilco. Musica dai grandi orizzonti.
Andrew Weatherhall torna con un disco solista
E’ l’uomo che ha ricoperto di acido i Primal Scream all’epoca di "Screamadelica", l’artista che in qualche maniera ha firmato il trapasso di Warp dalla stagione dell’intelligent dance music a quella del recupero di una forte matrice wave (coi suoi Two Lone Swordsmen ha coverizzato addirittura "Sex Beat" dei Gun Club). Trasversale per definizione e necessità, Weatherall è un sopravvissuto della corrente acid house, l’uomo che ha detto la sua su Madchester ed ora si riscopre innamorato dei suoni rock’n’roll dei fifties. "A Pox On The Pioneers" è – incredibile a dirsi - il suo primo album solista, 30 anni di musica distillati in un singolo appuntamento. Weatherall ci tiene però a sottolineare come ogni forma d’arte, dalla pittura alla letteratura passando per il cinema, abbiano influenzato la sua opera. Ed in particolare fa riferimento alle storie sui gangster degli anni quaranta e cinquanta, che condensano in una scena od in una frase il trash e il pulp. "A Pox On The Pioneers" è Weatherall in pillole: l’uomo che si è scatenato dietro ad un mixer o ad una consolle, lavorando di cesello alla nuova cultura della musica da ballo, con la sua visione europeista di house e techno. A questo si aggiunge la riscoperta della canzone di protesta, pilotata da una chitarra blues, da una voce soul o da qualche complessino rockabilly. Andrew canta, suona la batteria e arrangia il tutto con la solita astuzia, rinunciando per buona parte al vizio del campionamento, per riscoprire una dimensione il più possibile analogica, che in qualche modo possa prendere in esame il groove della musica dance unitamente al rock più stagionato. Piccole citazioni dal catalogo della mancuniana Factory, tributi dispensati ai suoi gruppi preferiti di sempre (i Clash ed i Primal Scream), pillole di acida house dispensate con parsimonia. Fa tutto da sé Weatherall questa volta, non facendo certo rimpiangere i vecchi commilitoni e anzi ribadendo il vecchio adagio ‘chi fa per sé fa per tre’. Sembra un vecchio marinaio Weatherall oggi, il suo volto ed i suoi tatuaggi - Fail Me May, Sail We Must, da cui anche il titolo del pezzo che inaugura l’album – sono la fotografia di un uomo che ha precorso i tempi ed ora cavalca un’idea di musica che è unicamente sua.
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26/06/09
Nebula
No news is good news. Spesso la ricerca affannosa del particolare inedito, dell’effetto sorpresa non ci permette di apprezzare a pieno chi artisticamente parlando continua a legarsi a salde credenze, riproponendo – seppure con spezie diverse – l’antico rituale del rock’nroll. Il nuovo album dei Nebula non lascia adito a dubbi, sin dal titolo "Heavy Psych" che in maniera programmatica introduce la nuova danza tribale del terzetto di Los Angeles. Eddie Glass (chitarra/voce ex-Fu Manchu) è ovviamente il depositario unico del marchio, avendo avuto al suo servizio una formazione spesso intercambiabile. Con il bassista/cantante Tom Davies (inglese, trapiantato in California nel 2004) ed il nuovo batterista Rob Oswald (della partita dal 2007, dopo trascorsi di lusso in altre imponenti realtà stoner come Karma To Burn e Mondo Generator) chiude il cerchio, tornando per di più ad incidere su Tee Pee, label iperattiva sul mercato del rock meno scolastico è più prossimo allo sconvolgimento mentale. Vintage è ancora una volta la parola d’ordine, come una collisione tra Blue Cheer, Amboy Dukes e Moving Sidewalks il disco si presenta in una bastarda fusione di prepotente psichedelia, riscoprendo le solite parate desertiche ed un utilizzo molto caratteristico del moog. Cosa che ci porta a pensare anche ad una lontana parentela con gli Hawkwind. Con una scrittura che apre anche ad elementi di musica tradizionale americana – non mancano certo intrecci dal sapore blues, come spruzzate southern boogie – "Heavy Psych" oltre ad essere una delle più alte espressioni del nuovo hard psichedelico americano è un disco che rivolta da capo a piedi la cultura del più estroverso rock: pillole di coscienza di strada ad alto voltaggio.
Strange Arrangements
‘Ho creato questo mio alter ego soul per gioco, doveva essere una cosa riservata ad amici e familiari e non immaginavo che avrei registrato un album intero o che mi sarei esibito dal vivo. A dire la verità fino a che non ho firmato per la Stones Throw non è che ci abbia mai ragionato su molto in generale…’ Mayer Hawthorne è l’outsider di casa, un bianco dagli occhi blue, ma soprattutto un soulman di quelli autentici. Tanto che Peanut Butter Wolf – uno dei responsabili dell’etichetta di Los Angeles – continuava a chiedere al diretto interessato se i suoi pezzi fossero re-edit di brani soul dei ’60. Eppure Mayer ha fatto tutto in piena autonomia, per di più nella proprio cameretta. L’influenza della Motown è chiaramente palpabile, del resto il vocalist – cresciuto ad ovest di Detroit – è stato da sempre affascinato dai flessuosi arrangiamenti e dalla calda vocalità degli artisti locali. Il brano Just Ain’t Gonna Work Out (certificati oltre 100.000 downloads) è stato singolo della settimana su ITunes in tempi recenti, aumentando il buzz per l’uscita dell’album completo – A Strange Arrangement – atteso con trepidazione tanto dagli addetti ai lavori quanto dai più edotti sostenitori di Isaac Hayes, Leroy Hutson e finanche del primo Barry White. Un lavoro che è figlio di quella grande stagione della musica nera americana, specchio fedele di quanto accaduto e registrato con parsimonia a cavallo tra il 1966 ed 1974. Il celebre dj e selezionatore Gilles Peterson ne parla già come la next big thing di questo 2009, un vecchio marpione del nuovo pop come Mark Ronson (colui che ha lavorato spalle a spalle con Amy Winehouse) ne decanta le qualità. Gli astri sono dalla sua parte, la critica pure.
Il disco esce in Europa il 9 Settembre
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Portland Cello
E’ una nuova uscita importante di questo 2009 per Kill Rock Stars, un modo come un altro per dire che anche una delle più importanti label del macrocosmo indie ha la sua buona necessità di elaborare, preservare il suo archivio e rilanciare nuove strategie. E’ il primo album ufficiale del Portland Cello Project, che in passato aveva dato alle stampe unicamente due cd autoprodotti capaci però di toccare quota 3000 nella sola comunità dell’Oregon. Nell’organico di questa inedita formazione cameristica, che può variare da 4 a 18 elementi, il violoncello è ovviamente l’elemento cardine. Da sempre gli interni al gruppo hanno prestato servizio nella comunità indie, offrendo il proprio estro esecutivo ad alcune piccole/grandi icone del giro alternative rock: dai Dandy Warhols agli Horse Feathers, passando per Mirah e Laura Gibson. Nel nuovo disco si rinnova questo scambio culturale, in un fantasioso incrocio stilistico che vede sugli scudi la già apprezzata vocalist Thao Nguyen (che con il debutto dello scorso anno per Kill Rock Stars aveva spinto addirittura a paragoni con Cat Power) ed il piccolo astro nascente locale Justin Powers. E’ un disco dai contorni molto delicati, in cui la propensione cameristica del gruppo trova inedita valvola di sfogo nell’andamento avant-pop dei brani, impreziositi proprio dai featuring esterni. Nella eterogenea manciata di brani integralmente strumentali, spicca una cover – in realtà irriconoscibile – di "Mouth Of War" dei Pantera. Una musica di impronta classica che punta anche all’universo scintillante dell’indie più ricercato e meno indolente, con – all’orizzonte – gli insegnamenti propri della Penguin Cafè Orchestra.
25/06/09
Radio Moscow
"Brain Cycles" è il secondo album dei Radio Moscow e si materializza nella forma di un lavoro fortemente acido, equamente diviso tra fluenti momenti di psichedelia e tracce più prossime al rock dei primordi. Il gruppo cita l’eroico chitarrista Randy Holden – per brevissimo tempo anche nei Blue Cheer – i Groundhogs, il fuoriclasse del blues inglese Peter Green (ex-Fleetwood Mac) ed i biker figli dei fiori giapponesi Flower Travelin’ Band. La band arriva da una piccola cittadina dell’Iowa, creatura del prodigioso chitarrista Parker Griggs. I Radio Moscow debuttano nel 2007 col disco omonimo, prodotto da Dan Auerbach dei Black Keys, ed è già un piccolo - fluorescente - miracolo. Griggs fa ancora tutto da solo (chitarra, batteria, percussioni e voce) assumendo il giovane bassista Zach Anderson come unico co-pilota. "Brain Cycles" è un disco di stoner-rock più disteso, in cui le lunghe jam strumentali – da sempre biglietto da visita importante del gruppo – ricoprono per buona parte la durata dell’album. Avrete la netta sensazione di staccarvi da terra, in un viaggio della mente che riporta a circa 40 anni fa. Il giovane Parker Griggs si impone così tra le più lucide menti del nuovo stellare rock americano, quello che alle grandi arene preferisce addirittura l’iperspazio.
24/06/09
Acoustic Ladyland - Living With A Tiger
Dopo la pubblicazione nel dicembre del 2006 di Skinny Grinn – disco acclamato nella natia Inghilterra come nel resto d’Europa – per la V2, gli Acoustic Ladyland hanno conosciuto momenti intensi, continuando a proporre dal vivo la loro scoppiettante miscela di jazz moderno ed aggressivo rock dai contorni avant. Il primo dettaglio che salta all’occhio è il cambio di etichetta, Strong & Wrong è il nuovo domicilio artistico scelto dal leader Pete Wareham, per presentare la propria musica.
Ovviamente, assieme al cambio di scuderia Warehan ha fatto in modo di cambiare l’assetto della sua band: dentro Seb Rochford (leader dei Polar Bear, recentemente visto in tour con gli americani Dirty Projectors), il chitarrista dallo stile secco e tagliente Ruth Goller (anche effettivo di Alice and the Cool Dudes). Altro personaggio di spicco è il chitarrista Chris Sharkey (TrioVD, recentemente sotto contratto con la storica label jazz Candid) che in realtà entra nell’inedito ruolo di tastierista, fornendo una performance quanto mai spettacolare.
Wareham, non è certo rimasto con le mani in mano nel frattempo, allestendo parallelamente una sorta di supergruppo di vibrante no-wave dai tratti danzabili - The Final Terror – con lo stesso Chris Sharkey, Leo Taylor (Hot Chip) e Kenichi Iwasa (Chrome Hoof). Per di più è stato session man dal vivo coi Supergrass ed unitamente a Seb Rochford sarà presto protagonista della strabiliante collaborazione allestita da Herbie Hancock / Eno / Squarepusher.
La caratteristica portante del nuovo Living With A Tiger è l’avvicinarsi costante alle musiche di confine del nuovo millennio, con un’intensa attività ritmica che lascia intravedere l’ingerenza dell’hip hop come del grime. E’ sempre un frenetico jazz-core alla base delle musiche di Acoustic Ladyland, con i fiati di Wareham a balenare nell’aria, equamente furiosi e melliflui. Sembra appunto una rappresentazione del migliore James White, dopo l’ubriacatura no-wave alla ricerca dei grooves scanditi dai JB’s. Free-funk con attitudine, anche questa potrebbe essere una definizione affatto male.
Del resto lo stesso James Chance faceva capolino in Skinny Grin, ed un luminare del più astruso universo pop come Scott Walker si presentava in zona mixaggio. Segno che anche i musicisti più navigati, quelli indicati appunto come precursori, hanno saputo sin dai i primi momenti apprezzare la musica del quartetto.
Oggi in forma davvero smagliante con Living With a Tiger, pronto a sferrare il proprio attacco ai rockers benpensanti come ai jazzisti in doppio petto, grazie ad un ibrido saporito e scattante. Musica da felini, piuttosto cresciuti…
Ovviamente, assieme al cambio di scuderia Warehan ha fatto in modo di cambiare l’assetto della sua band: dentro Seb Rochford (leader dei Polar Bear, recentemente visto in tour con gli americani Dirty Projectors), il chitarrista dallo stile secco e tagliente Ruth Goller (anche effettivo di Alice and the Cool Dudes). Altro personaggio di spicco è il chitarrista Chris Sharkey (TrioVD, recentemente sotto contratto con la storica label jazz Candid) che in realtà entra nell’inedito ruolo di tastierista, fornendo una performance quanto mai spettacolare.
Wareham, non è certo rimasto con le mani in mano nel frattempo, allestendo parallelamente una sorta di supergruppo di vibrante no-wave dai tratti danzabili - The Final Terror – con lo stesso Chris Sharkey, Leo Taylor (Hot Chip) e Kenichi Iwasa (Chrome Hoof). Per di più è stato session man dal vivo coi Supergrass ed unitamente a Seb Rochford sarà presto protagonista della strabiliante collaborazione allestita da Herbie Hancock / Eno / Squarepusher.
La caratteristica portante del nuovo Living With A Tiger è l’avvicinarsi costante alle musiche di confine del nuovo millennio, con un’intensa attività ritmica che lascia intravedere l’ingerenza dell’hip hop come del grime. E’ sempre un frenetico jazz-core alla base delle musiche di Acoustic Ladyland, con i fiati di Wareham a balenare nell’aria, equamente furiosi e melliflui. Sembra appunto una rappresentazione del migliore James White, dopo l’ubriacatura no-wave alla ricerca dei grooves scanditi dai JB’s. Free-funk con attitudine, anche questa potrebbe essere una definizione affatto male.
Del resto lo stesso James Chance faceva capolino in Skinny Grin, ed un luminare del più astruso universo pop come Scott Walker si presentava in zona mixaggio. Segno che anche i musicisti più navigati, quelli indicati appunto come precursori, hanno saputo sin dai i primi momenti apprezzare la musica del quartetto.
Oggi in forma davvero smagliante con Living With a Tiger, pronto a sferrare il proprio attacco ai rockers benpensanti come ai jazzisti in doppio petto, grazie ad un ibrido saporito e scattante. Musica da felini, piuttosto cresciuti…
Sparklehorse e Fennesz - Nuovo Episodio Della Collana In The Fishtank
L’incontro tra Christian Fennesz - il vate austriaco della nuova elettronica – ed il meditabondo cantore americano Mark Linkous rischia di essere una delle migliori joint-venture sotto l’egida della collana In The Fishtank. Che per la cronaca è la label di casa Konkurrent, dedita a registrare in quasi rigorosa presa diretta meeting mozzafiato tra artisti di diversa estrazione. Da Low/Dirty Thrre a Tortoise/The Ex, passando per Motorpsycho/Jaga Jazzist ed Isis/Aeregoramme, non una singola uscita che abbia deluso le aspettative. Sulla carta la collaborazione tra Linkous (deus ex-machina di Sparklehorse) ed il virtuoso chitarrista/manipolatore europeo - autore del memorabile Endless Summer – era destinata a fuochi d’artificio. Che puntualmente si materializzano in questa session, raccolta in appena due giorni di improvvisazioni nel dicembre del 2007. Sorprende la magia soprattutto, la scintilla generata da questo inedito abbraccio artistico. Sette brani che a seconda dei casi lasciano emergere la dimensione sospesa delle partiture di Fennesz, altrove gli stralci di canzone d’autore millenaria di Linkous. Meraviglie che superano il traguardo dei 40 minuti, aprendo nuovi scenari su un’elettronica dal volto umano, una musica fatta di increspature ed ambientazioni naturiste. Dalla pura astrazione ad una canzone dal sapore bucolico.
Il disco esce in Europa il 14 Settembre
Il disco esce in Europa il 14 Settembre
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23/06/09
Lockout il nuovo album per MIlanese su Planet Mu
Londinese doc, Milanese torna con il nuovo album Lockout alla scuderia Planet Mu, senza placare minimamente la sua febbre ritmica, che lo ha reso uno dei dj più richiesti negli ambienti del dopo-rave. Dopo essersi esibito nel 2008 ai BBC's Electric Proms sotto espressa richiesta della famiglia dello scomparso John Peel, Steve (questo il nome con cui è registrato all’anagrafe) si è poi imbarcato in un lungo tour che ha toccato i punti cruciali della costa ovest americana, con passaggi chiave anche nella mecca dell’elettronica più dissennata come San Francisco. Lockout è il secondo album sulla lunga distanza per il produttore inglese ad esser licenziato da Planet Mu (ricordiamo anche i brevi trascorsi su Warp) e non smentisce la sua fama di manipolatore di basse frequenze, tirando dentro tutte le possibili derive della musica digitale odierna: sciorinando grime e dubstep, techno pressurizzata e hip hop, senza ovviamente dimenticare le linee sinusoidali del 2step
Ben Sharpa (Pioneer Unit, Cape Town) e RQM (Al Haca, Vienna) offrono i loro contributi vocali e lirici all’album, sposando alla perfezione i ritmi grassi di Milanese. Aldilà delle categorie, il termine che più si sposa al disco è quello di streetwise bass music for the year 3000. Un approccio dunque futurista alla musica di strada, quella che dai party illegali si è propagata come un virus di incredibile portata alle periferie urbane di mezzo mondo, da occidente a oriente, dal nord al sud del mondo. Ritmo reale!
Ben Sharpa (Pioneer Unit, Cape Town) e RQM (Al Haca, Vienna) offrono i loro contributi vocali e lirici all’album, sposando alla perfezione i ritmi grassi di Milanese. Aldilà delle categorie, il termine che più si sposa al disco è quello di streetwise bass music for the year 3000. Un approccio dunque futurista alla musica di strada, quella che dai party illegali si è propagata come un virus di incredibile portata alle periferie urbane di mezzo mondo, da occidente a oriente, dal nord al sud del mondo. Ritmo reale!
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Monnette Sudler - Where Have All The Legend Gone?
Monnette Sudler va sicuramente annoverata tra le figure più influenti della scena jazz di Philadelphia. Per l’intero corso degli anni ’70 la vocalist si è spesso esibita anche nel ruolo di chitarrista – acustica od elettrica a seconda delle circostanze – partecipando ad alcune delle più nobili session in ambito di jazz spirituale e free funk. Nel 2005 con ‘Meeting Of The Spirits’ - pubblicato dalla francese Isma - faceva il suo rientro in scena almeno nel ruolo di leader, a circa 30 anni dalle sue ultime pubblicazioni soliste per un altro marchio europeo: quello dell'etichetta danese Steeplechase.
Questo lasso di tempo non deve certo trarre in inganno, dato che la nostra ha continuato a muoversi indistintamente in ambiti musicali che toccassero il bop, il funk e addirittura il free jazz. Continuando ad essere una delle voci più autentiche della Philadelphia underground, pur viaggiando a spron battuto verso la vicina New York, anche per incrociare vecchi eroi della black music come Sam Rivers, Hugh Masekela e Sunny Murray
Monnette che negli anni '70 prese parte ad autentici lavori culto – uno su tutti : Drum Dance To The Motherland del vibrafonista Khan Jamal – torna oggi con Where Have All The Legend Gone? Titolo quanto meno evocativo, che la rilancia tra le più sensibili ugole del jazz al femminile contemporaneo.
Rimanendo fedele al suo credo ed alle sue molteplici esperienze, la nostra ci regala un disco di autentica black music a 360 gradi, muovendosi tra brani originali e cover dal grande carattere emotivo. Tra queste segnaliamo Equipoise del grande pianista Stanley Cowell, Infant Eyes di Doug Carn (eroe indiscusso di certo soul jazz) e una davvero immortale Use Me di Bill Whiters.
Coadiuvata da musicisti parigini di grandissimo spessore – tra questi anche il batterista John Betsch, che in realtà vanta trascorsi nella scuderia della mitica Strata East – la Sudler ci offre un sensibile ibrido di canzoni pop dai decisi contorni soul jazz. Un disco che sin dalle prime battute assume le caratteristiche del classico. Ben Tornata!
Questo lasso di tempo non deve certo trarre in inganno, dato che la nostra ha continuato a muoversi indistintamente in ambiti musicali che toccassero il bop, il funk e addirittura il free jazz. Continuando ad essere una delle voci più autentiche della Philadelphia underground, pur viaggiando a spron battuto verso la vicina New York, anche per incrociare vecchi eroi della black music come Sam Rivers, Hugh Masekela e Sunny Murray
Monnette che negli anni '70 prese parte ad autentici lavori culto – uno su tutti : Drum Dance To The Motherland del vibrafonista Khan Jamal – torna oggi con Where Have All The Legend Gone? Titolo quanto meno evocativo, che la rilancia tra le più sensibili ugole del jazz al femminile contemporaneo.
Rimanendo fedele al suo credo ed alle sue molteplici esperienze, la nostra ci regala un disco di autentica black music a 360 gradi, muovendosi tra brani originali e cover dal grande carattere emotivo. Tra queste segnaliamo Equipoise del grande pianista Stanley Cowell, Infant Eyes di Doug Carn (eroe indiscusso di certo soul jazz) e una davvero immortale Use Me di Bill Whiters.
Coadiuvata da musicisti parigini di grandissimo spessore – tra questi anche il batterista John Betsch, che in realtà vanta trascorsi nella scuderia della mitica Strata East – la Sudler ci offre un sensibile ibrido di canzoni pop dai decisi contorni soul jazz. Un disco che sin dalle prime battute assume le caratteristiche del classico. Ben Tornata!
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22/06/09
Ava Cherry - The Astronettes Session
Ava Cherry è stata una delle figure più caratteristiche dei seventies inglesi, in parte per la sua immagine sconvolgente, in parte per le sue preziose frequentazioni. Non propriamente una vocalist dalla sfavillante carriera solista, ma nemmeno una comune corista. Bollente e trascendentale a seconda dei casi. E comunque una personalità che con tocco davvero felino ha lasciato un’ impronta decisa nella storia del glamour britannico.
Ovviamente c’è un tramite importante in questa storia. Il duca bianco: David Bowie. Del cui entourage Ava Cherry faceva parte nella prima metà degli anni ’70. Possiamo parlare di shock visivo per la nostra, una sensuale ragazza di colore con capigliatura biondo platino, un gioco trasgressivo che anticipa vertiginosamente le mosse di una Grace Jones o – in tempi più recenti – della Skin di Skunk Anansie. Per la prima volta viene fatto ordine nella discografia di questa artista, che tra numerose apparizioni ha messo da parte una serie indicativa di performance. Con The Astronettes Sessions la nostra è protagonista in prima ed in seconda fila (a seconda dei casi assurge al ruolo di voce solista, altrove i suoi squillanti vocalizzi rimangono dietro le quinte), sono incisioni risalenti al novembre del 1973 ed immortalate presso gli Olympic Studios Barnes di Londra (eccezion fatta per God Only Knows di Brian Wilson, catturata presso gli storici Electric Ladyland Studios di New York, nel 1974). Gli Astronettes sono una sorta di gruppo vocale, con Ava ci sono i non meno brillanti soul men Geoff MacCormack e Jason Guess. Il repertorio cui lavorano è fatto di cover eccezionali. Tra i musicisti che prendono parte alle registrazioni c’è lo stesso Bowie, del quale vengono riprese in chiave quasi black I Am A Laser, I Am Divine, Things To Do e People From Bad Homes. Lo stuolo dei musicisti da studio è arricchito anche da una figura mitica come il batterista Aynsley Dunbar (un uomo che ha suonato praticamente con tutti: da Jeff Beck a Frank Zappa, passando per i Jefferson Starship), oltre che da illustri turnisti quali Mike Garson, Herbie Flowers, Mark Prichard e Luis Ramirez.
Le altre cover in scaletta non sono meno dinamitarde: da Seven Days di Annette Peacock a Highway Blues di Roy Harper, passando per Spirtis In The Night di Bruce Springsteen. Terminata la sua liason artistica (qualcuno vociferava anche sentimentale) con Bowie, la Cherry partirà per gli States, dove sul finire dei ’70 si unirà al grande cantante soul di Philadelphia Teddy Pendergrass. Per ora un’occasione irrinunciabile di riscoprire una madrina del più graffiante e groovy rock al femminile contemporaneo.
Ovviamente c’è un tramite importante in questa storia. Il duca bianco: David Bowie. Del cui entourage Ava Cherry faceva parte nella prima metà degli anni ’70. Possiamo parlare di shock visivo per la nostra, una sensuale ragazza di colore con capigliatura biondo platino, un gioco trasgressivo che anticipa vertiginosamente le mosse di una Grace Jones o – in tempi più recenti – della Skin di Skunk Anansie. Per la prima volta viene fatto ordine nella discografia di questa artista, che tra numerose apparizioni ha messo da parte una serie indicativa di performance. Con The Astronettes Sessions la nostra è protagonista in prima ed in seconda fila (a seconda dei casi assurge al ruolo di voce solista, altrove i suoi squillanti vocalizzi rimangono dietro le quinte), sono incisioni risalenti al novembre del 1973 ed immortalate presso gli Olympic Studios Barnes di Londra (eccezion fatta per God Only Knows di Brian Wilson, catturata presso gli storici Electric Ladyland Studios di New York, nel 1974). Gli Astronettes sono una sorta di gruppo vocale, con Ava ci sono i non meno brillanti soul men Geoff MacCormack e Jason Guess. Il repertorio cui lavorano è fatto di cover eccezionali. Tra i musicisti che prendono parte alle registrazioni c’è lo stesso Bowie, del quale vengono riprese in chiave quasi black I Am A Laser, I Am Divine, Things To Do e People From Bad Homes. Lo stuolo dei musicisti da studio è arricchito anche da una figura mitica come il batterista Aynsley Dunbar (un uomo che ha suonato praticamente con tutti: da Jeff Beck a Frank Zappa, passando per i Jefferson Starship), oltre che da illustri turnisti quali Mike Garson, Herbie Flowers, Mark Prichard e Luis Ramirez.
Le altre cover in scaletta non sono meno dinamitarde: da Seven Days di Annette Peacock a Highway Blues di Roy Harper, passando per Spirtis In The Night di Bruce Springsteen. Terminata la sua liason artistica (qualcuno vociferava anche sentimentale) con Bowie, la Cherry partirà per gli States, dove sul finire dei ’70 si unirà al grande cantante soul di Philadelphia Teddy Pendergrass. Per ora un’occasione irrinunciabile di riscoprire una madrina del più graffiante e groovy rock al femminile contemporaneo.
Nuovo album per Adam Freeland: FREELAND "Cope" (Marine Parade)
Freeland - Under Control - Official Video from Freeland on Vimeo.
Adam Freeland è la sintesi del dj moderno: produttore, selecter e all’occorrenza uomo capace di gestire una parata di stelle, come quella che di tutto punto si presenta sul suo nuovo album Cope, prodotto dalla personale ed indipendente etichetta Marine Parade. Feeland si muove con disinvoltura nel campo del più aspro rock’n’roll, punteggiando la sua musica con l’usuale breakbeat – una musica che gli appartiene geneticamente – e staffilate di acidissima house. Del resto ha numeri e complici per condurre in porto un'operazione stilosissima.
Dal punto di vista dei contenuti Cope potrebbe suggerire analogie con gli LCD Soundsystem di James Murphy, spesso la comunione tra selvatica dance e lancinante proto-punk serpeggia all’interno del disco, giustificando così l’ingombrante paragone. Per Freeland si tratta di un lifestyle vissuto a cavallo di molteplici correnti, tanto da far pensare a Cope come ad un successore della bastard dance introdotta dai Leftfield di Leftism e dai Prodigys di Fat Of The Land.
Ma anche il french touch di Daft Punk e Justice deve aver esercitato un analogo fascino alle orecchie del nostro produttore.
Ma dicevamo anche del rock, sguinzagliato in questo caso dalle chitarre di Joey Santiago (Pixies) e Twiggy Ramirez (Marilyn Manson, Nine Inch Nails), come dalla batteria di un certo Tommy Lee (che i più ricorderanno nel gruppo glam metal Motley Crue). Ed ancora - in ordine sparso - la voce di Brody Dalle (compagna di Josh Homme dei Queen Of The Stone Age ed ora depositaria del progetto Spinnerette) che co-firma Borderline, e l'intervento di Jerry Casale dei Devo in Only A Fool.
Insomma ce n’è davvero per tutti i gusti e a Freeland non mancano certo le idee per far suonare all’unisino un dj, un ritmo motorik ed una chitarrina psichedelica.
Dal punto di vista dei contenuti Cope potrebbe suggerire analogie con gli LCD Soundsystem di James Murphy, spesso la comunione tra selvatica dance e lancinante proto-punk serpeggia all’interno del disco, giustificando così l’ingombrante paragone. Per Freeland si tratta di un lifestyle vissuto a cavallo di molteplici correnti, tanto da far pensare a Cope come ad un successore della bastard dance introdotta dai Leftfield di Leftism e dai Prodigys di Fat Of The Land.
Ma anche il french touch di Daft Punk e Justice deve aver esercitato un analogo fascino alle orecchie del nostro produttore.
Ma dicevamo anche del rock, sguinzagliato in questo caso dalle chitarre di Joey Santiago (Pixies) e Twiggy Ramirez (Marilyn Manson, Nine Inch Nails), come dalla batteria di un certo Tommy Lee (che i più ricorderanno nel gruppo glam metal Motley Crue). Ed ancora - in ordine sparso - la voce di Brody Dalle (compagna di Josh Homme dei Queen Of The Stone Age ed ora depositaria del progetto Spinnerette) che co-firma Borderline, e l'intervento di Jerry Casale dei Devo in Only A Fool.
Insomma ce n’è davvero per tutti i gusti e a Freeland non mancano certo le idee per far suonare all’unisino un dj, un ritmo motorik ed una chitarrina psichedelica.
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Marine Parade
The Church
E’ tempo di celebrare il ritorno di una delle più affascinanti formazioni della scena australiana. Un vero e proprio mito i Church, che negli ultimi 30 anni hanno dispensato un campionario di canzoni sempre sospeso tra elettricità trasognante e visioni di un pop mesmerico senza tempo. Come la loro musica, che non perde un’oncia di originalità e sensibilità, suonando incredibilmente al passo coi tempi. Untitled # 23 è dunque il baldanzoso ritorno sulle scene, con 10 brani che spiccano nel loro sublime intento, ovvero rendere accessibile una musica dalle prospettive comunque dark. Second Motion in collaborazione col loro personale imprinting Unorthodox Records pubblica la nuova fatica del gruppo, irresistibile nel tinteggiare atmosfere epiche mai eccessivamente sopra le righe, con un buon risalto della vena melodica ed una densità strumentale che odora di acido lisergico ad un miglio di distanza. Musica pop per viaggiare, con arrangiamenti deliziosi – l’uso mai invasivo degli archi, l’equilibrio pressoché costante tra stratificazioni elettriche e pennellate acustiche - per una formazione che nonostante i lunghi trascorsi ha sempre trovato il modo di rinnovarsi, senza alcuna forzatura. La band ripristinerà anche l’attività dal vivo, con un giro estivo in compagnia dell’ex-Swervedriver Adam Franklin e di Grant Lee Phillips. Tornerete ad innamorarvi sul solco di queste canzoni!
19/06/09
Eat Skull – Wild And Inside
Musicalmente parlando l’indie-rock sembra esser tornato ai gloriosi giorni di metà novanta, quando oltreoceano il lo-fi s’imponeva metodicamente in ogni dove – dallo stile stralunato dei Pavement alle canzoni povere del primissimo Beck – ed in Inghilterra lo shoegaze era una delle cose più voluminose accadute alla musica pop da diversi anni a questa parte.
In America, dove i sotterranei hanno sempre pullulato di artisti pieni di spirito, il rock più proletario nei mezzi – nonchè nei risultati – sembra conoscere una nuova sfavillante stagione. In particolare etichette come la Siltbreeze – dalle cui parti sono transitati i Guided By Voices, antesignani di quel pop rumoroso e sbilenco oggi tanto in voga, come i Times New Viking, sensazione shitgaze – sembrano aver rilanciato un’estetica brute, in cui il rock torna finalmente alle fondamentali regole dettate dal garage (si prendano ad esempio i formativi volumi Pebbles e Back From The Grave) e dal punk dei primordi.
Gli Eat Skull col loro secondo album per l’etichetta – Wild And Inside – abbracciano questo credo primitivo dando libero sfogo alla loro verve rumorista. Grandi i progressi del frontman Rob Enbom che sotto la coltre di elettricità riesce a confezionare gioielli di pop mentecatto che hanno un sapore lontano, ricordando così altra memorabilia non-allineata, come il paisley punk dei The Last o le rurali atmosfere dei gruppi neozelandesi del giro Flying Nun, etichetta che grazie ai ‘favori’ dei Crystal Stilts è oggi divenuta cruciale quanto una Rough Trade od una Sarah Records.
Gli Eat Skull sembrano scriverlo a grandi lettere: prendete la vostra dose di rumore oggi, sarà più dolce che mai.
In America, dove i sotterranei hanno sempre pullulato di artisti pieni di spirito, il rock più proletario nei mezzi – nonchè nei risultati – sembra conoscere una nuova sfavillante stagione. In particolare etichette come la Siltbreeze – dalle cui parti sono transitati i Guided By Voices, antesignani di quel pop rumoroso e sbilenco oggi tanto in voga, come i Times New Viking, sensazione shitgaze – sembrano aver rilanciato un’estetica brute, in cui il rock torna finalmente alle fondamentali regole dettate dal garage (si prendano ad esempio i formativi volumi Pebbles e Back From The Grave) e dal punk dei primordi.
Gli Eat Skull col loro secondo album per l’etichetta – Wild And Inside – abbracciano questo credo primitivo dando libero sfogo alla loro verve rumorista. Grandi i progressi del frontman Rob Enbom che sotto la coltre di elettricità riesce a confezionare gioielli di pop mentecatto che hanno un sapore lontano, ricordando così altra memorabilia non-allineata, come il paisley punk dei The Last o le rurali atmosfere dei gruppi neozelandesi del giro Flying Nun, etichetta che grazie ai ‘favori’ dei Crystal Stilts è oggi divenuta cruciale quanto una Rough Trade od una Sarah Records.
Gli Eat Skull sembrano scriverlo a grandi lettere: prendete la vostra dose di rumore oggi, sarà più dolce che mai.
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CURRENT 93 OSPITI AL POST ROMANTIC EMPIRE FINAL FEST
Current 93 ~ Mouse On Mars ~ Sieben ~ Steven Severin ~ Pantaleimon Riga ~ MIR + Gamers In Exile + Gianni Music ~ PRXS ~ Cutter
Claudio Fabrianesi ~ Naevus ~ Spiritual Front
Mushy ~ Albin Julius dj set ~ Othon Mataragas ~ Ernesto Tomasini Andrew Liles (Nurse With Wound) ~ Fabrizio M Palumbo
Paul Beauchamp ~ Evor Ameisie (Northgate)
Directing Hand ~ Lili Refrain ~ Sarah Dietrich ~ Claudedi (Malato)
Spectre (Ain Soph) ~ Andrew W K ~ Baby Dee ~ Hush Arbors
Jorg Buttgereit feat. Nekromantik ~ Cupio Dissolvi
Peter M (Mannequin) ~ Sight Problem Video (Clichè Video)
17/18 OTTOBRE 2009
PRE FINAL FEST è l’ultima esperienza di Post Romantic Empire, e la sua manifestazione finale. Una maratona nera e cangiante che avrà una durata minima di 27 ore consecutive. PRE FINAL FEST sarà una celebrazione unica nel suo genere e non una semplice rassegna musicale: artisti ed amici sono invitati a condividere la gioia e la malinconia di un finale felice. Il XX secolo non è ancora finito: usate e abusate le vostre emozioni, siate parte dell’Impero!
Claudio Fabrianesi ~ Naevus ~ Spiritual Front
Mushy ~ Albin Julius dj set ~ Othon Mataragas ~ Ernesto Tomasini Andrew Liles (Nurse With Wound) ~ Fabrizio M Palumbo
Paul Beauchamp ~ Evor Ameisie (Northgate)
Directing Hand ~ Lili Refrain ~ Sarah Dietrich ~ Claudedi (Malato)
Spectre (Ain Soph) ~ Andrew W K ~ Baby Dee ~ Hush Arbors
Jorg Buttgereit feat. Nekromantik ~ Cupio Dissolvi
Peter M (Mannequin) ~ Sight Problem Video (Clichè Video)
17/18 OTTOBRE 2009
PRE FINAL FEST è l’ultima esperienza di Post Romantic Empire, e la sua manifestazione finale. Una maratona nera e cangiante che avrà una durata minima di 27 ore consecutive. PRE FINAL FEST sarà una celebrazione unica nel suo genere e non una semplice rassegna musicale: artisti ed amici sono invitati a condividere la gioia e la malinconia di un finale felice. Il XX secolo non è ancora finito: usate e abusate le vostre emozioni, siate parte dell’Impero!
INIT. CLUB
Roma . Via Della Stazione Tuscolana 133
PREVENDITA:
Il prezzo dei biglietti parte da 35€ ed aumenta mensilmente.
La disponibilità dei biglietti in prevendita è limitata a 500.
I biglietti in prevendita permettono di partecipare all’intero programma del Fest e possono essere acquistati unicamente in prevendita contattando:
prefinalfest@gmail.com
Le modalità di pagamento accettate sono: ricarica su carta postepay o via paypal. Una volta completato l’acquisto verrà comunicato un codice alfanumerico, da presentare al momento del ritiro del biglietto il giorno dell’evento. Attenzione: essendo la disponibilità dei biglietti limitata si consiglia di scrivere a prefinalfest@gmail.com o chiamare il +39 3280388313 per verificare la disponibilità. Per chi vuole acquistare i biglietti a Roma, il punto di prevendita è TRANSMISSION Music Store
www.myspace.com/deadlounge
facebook: Post Romantic Empire
infoline: +39 3280388313
Roma . Via Della Stazione Tuscolana 133
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18/06/09
Luaka Bop celebra i 21 anni
A volte l’età inganna, eppure Luaka Bop compie nel 2009 il suo 21esimo compleanno. Un traguardo storico non proprio preventivato dallo stesso David Byrne, che sul finire degli anni ’80 mise in piedi il marchio partendo da un’antiquata usanza casalinga. Quella della registrazione su nastro di alcuni dei suoi dischi brasiliani preferiti. Ovviamente senza secondi fini commerciali, per il piacere di trasmettere un po’ di buone vibrazioni ad un ristretto circolo di amici.. Dopo averne presentato le ultime pubblicazioni, Goodfellas è onorata nell’introdurre il catalogo completo di Luaka Bop, approfittando anche della raccolta-manifesto che in qualche maniera ne illustra le intenzioni. Twenty First Century Twenty First Year attraverso 14 imperdibili episodi ci dice come l’etichetta un tempo gestita dal leader dei Talking Heads sia divenuta marchio di riferimento nell’ambito della world music più creativa. Ogni artista scoperto dalla label ha poi conosciuto una seconda giovinezza, da Shuggie Otis (chitarrista e cantante californiano che ha fatto la storia del più psichedelico rhythm’n’blues) ai brasiliani Tom Zè (che andò addirittura in tour con elementi dei Tortoise) ed Os Mutantes (tornati a calcare i palchi di mezzo mondo, dopo l’esposizione mediatica ricevuta con la raccolta edita da Luaka Bop).
Chiaramente lo spirito esploratore della label non si ferma a riedizioni di lusso, ma c’è anche la volontà di indagare su quanto accade nel camaleontico mondo della musica sudamericana. Rocambolesca e quanto mai drammatica la storia di Yonlu giovane musicista di Porto Alegre che si è tolto la vita a soli 17 anni, nonostante fosse già stato dipinto come una promessa del nuovo cantautorato carioca. Vinicius Gageiro Marques suonava una musica a mezza via tra Nick Drake, i Tortoise e Badly Drawn Boy. Sfuggente folktronica tra atmosfere passatiste – anche l’eco lontana della Tropicalia coi suoi grandi maestri Veloso e Gil - ed un occhio al futuro della musica contemporanea (nemmeno lontana l’influenza dell’hip hop mutante dei Beastie Boys)
Dopo la sua prematura scomparsa, il padre scopre l’incredibile eredità del giovane Vinicius, rimanendo davvero impressionato di fronte alla qualità del suo materiale inedito. Yonlu nella sua breve esistenza si è anche rivelato come artista visivo, grazie al ‘canale’ You Tube, che gli ha consentito di raggiungere Inghilterra, Scozia, Canada, Nord Africa e Belgio.
A Society In Which No Tear Is Shed Is Inconceivably Mediocre, il titolo del debutto postumo parla da sè, c’è l’amarezza di un giovane talentuoso che aveva già colto – forse – l’essenza della vita stessa. Lo ricorderemo per il sacrificio, ma anche per la sua musica – paradossalmente - così inebriante e solare.
Chiaramente lo spirito esploratore della label non si ferma a riedizioni di lusso, ma c’è anche la volontà di indagare su quanto accade nel camaleontico mondo della musica sudamericana. Rocambolesca e quanto mai drammatica la storia di Yonlu giovane musicista di Porto Alegre che si è tolto la vita a soli 17 anni, nonostante fosse già stato dipinto come una promessa del nuovo cantautorato carioca. Vinicius Gageiro Marques suonava una musica a mezza via tra Nick Drake, i Tortoise e Badly Drawn Boy. Sfuggente folktronica tra atmosfere passatiste – anche l’eco lontana della Tropicalia coi suoi grandi maestri Veloso e Gil - ed un occhio al futuro della musica contemporanea (nemmeno lontana l’influenza dell’hip hop mutante dei Beastie Boys)
Dopo la sua prematura scomparsa, il padre scopre l’incredibile eredità del giovane Vinicius, rimanendo davvero impressionato di fronte alla qualità del suo materiale inedito. Yonlu nella sua breve esistenza si è anche rivelato come artista visivo, grazie al ‘canale’ You Tube, che gli ha consentito di raggiungere Inghilterra, Scozia, Canada, Nord Africa e Belgio.
A Society In Which No Tear Is Shed Is Inconceivably Mediocre, il titolo del debutto postumo parla da sè, c’è l’amarezza di un giovane talentuoso che aveva già colto – forse – l’essenza della vita stessa. Lo ricorderemo per il sacrificio, ma anche per la sua musica – paradossalmente - così inebriante e solare.
Billy Childish - A True Living Legend
Non potete prescindere da Billy Childish se volete conoscere uno dei punti più alti della storia del rock’n’roll inglese. Un sound che a seconda dei casi si fonde con il folk più belligerante, un’idea primordiale di punk rock e qualcosa che potremmo giustamente definire psycho-garage. Insomma, Billy è un’istituzione e sull’argomento non si accettano repliche. Da circa 32 anni la sua vita è stata completamente assorbita dal mondo dell’arte: dall’incisione di numerosi dischi, passando per la poesia e la pittura.
Sempre comunque al margine e con un occhio rivolto ai veri appassionati, perché Childish non è certo la persona che scende a compromessi; da quando nell’ottobre del 1977 è salito sul palco con la seminale garage punk band The Pop Rivets, il nostro non ha conosciuto periodi di sosta, inanellando una serie di progetti di volta in volta intercambiabili: The Milkshakes Pop Riveter Bruce Brand, Micky Hampshire & Russ Wilkins, Thee Mighty Caesars, Thee Headcoats, The Buff Medways, fino ad arrivare ai più recenti The Musicians Of The British Empire & The Chatham Singers.
In questa compilation contente 51 tracce – raccolte in un triplo lp o doppio cd a seconda dei casi - potrete cogliere tutti gli aspetti dell’artista, destinato ad entrare di diritto nella hall of fame del rock’n’roll. Nel corso degli anni Billy ha ricevuto le lodi di tutti i più grandi esponenti del cosiddetto alternative rock da Beck ai Mudhoney, passando per Kurt Cobain e più recentemente Eddie Vedder ed i White Stripes. Del resto dopo aver realizzato un numero approssimativo di album vicino ai 120 (addirittura 4 in un solo giorno, come indica il copione), naturale che l’eco del suo talento arrivasse anche oltreoceano.
Data la mole ‘proibitiva’ del suo lavoro è d’obbligo segnalare come molte delle tracce contenute nella compilation siano da decenni fuori catalogo. Vi sarà comunque d’indicazione il folto libretto di 12 pagine con un vero e proprio essai curato da Lois Wilson di Mojo
Ovviamente Billy Childish Story non può arginare il fenomeno, tanto che il nostro è già in rampa di lancio con nuovi esaltanti progetti. Di imminente pubblicazione per Damaged Goods è anche il disco dei Singing Loins – gruppo in cui ha militato lo stesso Childish nella metà degli anni ’90 - , ‘Unravelling England’, geniale espediente roots punk che in 12 tracce mette a fuoco la sregolata attitudine del trio del sud est londinese, costituito in origine da Chris Broderick e Chris (Arthur) Allen ed approdato attraverso mille vicissitudini al nuovo millennio.
Anche qui se il vostro rock’n’roll deve essere di origine controllata e devoto alle più primitive tecniche di registrazione, non c’è modo di dribblare ‘l’evento’.
Sempre comunque al margine e con un occhio rivolto ai veri appassionati, perché Childish non è certo la persona che scende a compromessi; da quando nell’ottobre del 1977 è salito sul palco con la seminale garage punk band The Pop Rivets, il nostro non ha conosciuto periodi di sosta, inanellando una serie di progetti di volta in volta intercambiabili: The Milkshakes Pop Riveter Bruce Brand, Micky Hampshire & Russ Wilkins, Thee Mighty Caesars, Thee Headcoats, The Buff Medways, fino ad arrivare ai più recenti The Musicians Of The British Empire & The Chatham Singers.
In questa compilation contente 51 tracce – raccolte in un triplo lp o doppio cd a seconda dei casi - potrete cogliere tutti gli aspetti dell’artista, destinato ad entrare di diritto nella hall of fame del rock’n’roll. Nel corso degli anni Billy ha ricevuto le lodi di tutti i più grandi esponenti del cosiddetto alternative rock da Beck ai Mudhoney, passando per Kurt Cobain e più recentemente Eddie Vedder ed i White Stripes. Del resto dopo aver realizzato un numero approssimativo di album vicino ai 120 (addirittura 4 in un solo giorno, come indica il copione), naturale che l’eco del suo talento arrivasse anche oltreoceano.
Data la mole ‘proibitiva’ del suo lavoro è d’obbligo segnalare come molte delle tracce contenute nella compilation siano da decenni fuori catalogo. Vi sarà comunque d’indicazione il folto libretto di 12 pagine con un vero e proprio essai curato da Lois Wilson di Mojo
Ovviamente Billy Childish Story non può arginare il fenomeno, tanto che il nostro è già in rampa di lancio con nuovi esaltanti progetti. Di imminente pubblicazione per Damaged Goods è anche il disco dei Singing Loins – gruppo in cui ha militato lo stesso Childish nella metà degli anni ’90 - , ‘Unravelling England’, geniale espediente roots punk che in 12 tracce mette a fuoco la sregolata attitudine del trio del sud est londinese, costituito in origine da Chris Broderick e Chris (Arthur) Allen ed approdato attraverso mille vicissitudini al nuovo millennio.
Anche qui se il vostro rock’n’roll deve essere di origine controllata e devoto alle più primitive tecniche di registrazione, non c’è modo di dribblare ‘l’evento’.
16/06/09
Ballads Of The Revolution - Nuovo Album Per Jackie-O Motherfucker
Finalmente il figliol prodigo Tom Greenwood torna a casa. Un modo come un altro per dire che con Ballads Of The Revolution – un eufemismo? Il ricordo dei tardi ’60 in fermento? – i suoi Jackie-O’ Motherfucker ritornano su livelli di assoluta eccellenza, riscrivendo parzialmente le tavole della cosiddetta New Weird America. Stilisticamente il gruppo continua a gravitare attorno alla magnetica personalità del musicista di Portland – che non intende affatto distaccarsi dall’attitudine e dalla veste sonora che ne han fatto un’istituzione nei circuiti underground più esegeti, bensì prova a rendere più fascinoso il suo intruglio di psichedelia e libero folk tornando a confezionare canzoni degne di questo nome. Un piccolo smarrimento era occorso ai nostri, che giunti al traguardo del decimo album in studio, sembrano andare a nozze con sonorità certo lisergiche, eppure capaci di accogliere elementi di elettronica povera e di musica da western (lo stomp quasi morriconiano di Lost Jimmy Walen) come introspettivi passaggi giusto in bilico tra la recitazione del re lucertola ed i rintocchi chitarristici di Jerry Garcia.
Greenwood è l’unico sopravvissuto del nucleo originale, giunto al suo quindicesimo anno d’attività, nonostante i notevoli rimpasti di line-up. Di certo gli accompagnatori di questa rivoluzione virtuale si fanno sentire, il chitarrista Nick Bindeman ruba spesso la scena, immergendo la sua sei corde in un virale e vorticoso rito pagano.
Un occhio sempre severo alla tradizione non manca con la rivisitazione della ballata classica Nightingale , dove compare la pedal steel di Lewi Longmire, ma il desiderio di ricerca è sempre dietro l’angolo, soprattutto quando si interagisce con realtà moderne, come i Lucky Dragons, dei quali viene ripresa in chiave fortemente improvvisativa Dark Falcon, con alla voce un’ispirata Oney Owens, in arte Valet (Kranky).
Ballads Of The Revolution è un disco incredibile, capace di rimembrare lo spleen esistenziale di Mark Kozelek e dei suoi Red Hosue Painters, il dream pop degli Opal e la tradizione delle grandi band di San Francisco in odore di Nuggets.
Una fascino antico rinnovato attraverso trovate sempre attuali, il rock desertico che diviene una scappatoia all’inferno metropolitano, Tom Greenwood sa ancora come cullarci, attraverso nenie dal sapore dissacrante, in uno spazio sospeso tra chitarre fuzz ed ululati che hanno ben poco di umano. Dall’improvvisazione radicale al country & western, con mille sfaccettature nel mezzo. Che sia proprio questo l’album definitivo di Jackie-O’ Motherfucker?
Greenwood è l’unico sopravvissuto del nucleo originale, giunto al suo quindicesimo anno d’attività, nonostante i notevoli rimpasti di line-up. Di certo gli accompagnatori di questa rivoluzione virtuale si fanno sentire, il chitarrista Nick Bindeman ruba spesso la scena, immergendo la sua sei corde in un virale e vorticoso rito pagano.
Un occhio sempre severo alla tradizione non manca con la rivisitazione della ballata classica Nightingale , dove compare la pedal steel di Lewi Longmire, ma il desiderio di ricerca è sempre dietro l’angolo, soprattutto quando si interagisce con realtà moderne, come i Lucky Dragons, dei quali viene ripresa in chiave fortemente improvvisativa Dark Falcon, con alla voce un’ispirata Oney Owens, in arte Valet (Kranky).
Ballads Of The Revolution è un disco incredibile, capace di rimembrare lo spleen esistenziale di Mark Kozelek e dei suoi Red Hosue Painters, il dream pop degli Opal e la tradizione delle grandi band di San Francisco in odore di Nuggets.
Una fascino antico rinnovato attraverso trovate sempre attuali, il rock desertico che diviene una scappatoia all’inferno metropolitano, Tom Greenwood sa ancora come cullarci, attraverso nenie dal sapore dissacrante, in uno spazio sospeso tra chitarre fuzz ed ululati che hanno ben poco di umano. Dall’improvvisazione radicale al country & western, con mille sfaccettature nel mezzo. Che sia proprio questo l’album definitivo di Jackie-O’ Motherfucker?
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Dischi in uscita,
Fire Records,
Jackie-O' Motherfucker
09/06/09
And Also The Trees
A tutti i più attenti conoscitori della wave britannica più incline alle atmosfere oscure, il nome And Also The Trees dovrebbe far risuonare più di un campanello. Da oltre trent’anni la formazione inglese – che conobbe le sue origini in una piccola cittadina nella regione del Worcestershire – ha rappresentato uno dei punti più alti dell’estetica dark-decadentista, ancora oggi uno degli esempi più caratteristici dell’underground albionico. Forti sin dai primordi di una liason particolare con i Cure di Robert Smith – che produsse anche uno dei loro primi demo – e comunque nelle grazie del compianto dj John Peel (per il quale registrarono delle session nell’aprile del 1984), gli And Also The Trees non hanno mai allentato la presa, continuando a muoversi nel mercato indipendente con uscite sempre calibrate ed una costante attività live. Nel nostro paese possono contare su di un invidiabile zoccolo duro, da sempre caratteristica che li indica come gruppo culto per antonomasia. L’autunnale "When The Rains Come" esce per la loro stessa omonima etichetta ed è stato registrato in appena 4 giorni. Sessioni sentite e prevalentemente acustiche che indagano un aspetto nuovo dell’estetica di Justin Jones (chitarra) e Simon Huw Jones (voce), gli unici membri originali rimasti in sella. Sono 14 canzoni selezionate nella loro folta discografia e rilette con piglio ancor più esistenziale, in un format inedito che prevede l’utilizzo di voce, chitarra acustica e contrabbasso. Non mancano nemmeno gli occasionali interventi di dulcimer, fisarmonica e melodica. Il brano più stagionato è per la cronaca la vecchia hit "A Room Lives In Lucy", rivista con piglio modernista. Non mancano gli inediti assoluti, come la traccia che da il titolo allo stesso album, un gioiello di musica decadente dal sapore ancestrale. Un disco che apre dunque scenari inediti su questo gruppo simbolo, che oggi offre la chance a nuovi ascoltatori di confrontarsi con questo cinema per le orecchie spiccatamente dark. Un anello di congiunzione immaginario tra le solerti ballads di Leonard Cohen, l’esistenzialismo di Scott Walker ed il folk apocalittico di David Tibet. Ben tornati!
08/06/09
Flipper "Love"
Quando si parla di veri e propri sopravvissuti del rock’n’roll non si può certo prescindere dalla figura dei Flipper, quartetto che sin dai primi anni ottanta ha messo a ferro e fuoco la California, con uno stile musicale straniante, tanto punk quanto dadaista e nichilista. Spesso capaci di scivolare nella più melmosa wave britannica – da sempre sono stati additati come la versione più nerboruta dei Public Image Limited, almeno ai tempi del capolavoro "Generic" – i nostri hanno incontrato sulla loro strada anche il manto oscuro della morte. Che con la sua falce si abbatteva sul gruppo al momento della scomparsa – per un overdose di eroina – del vocalist Will Shatter. Il tempo tiranno può alle volte restituirti qualcosa, il destino volle così che gli autori del mitico anthem "Sex Bomb Baby", fossero addirittura additati da un’intera generazione come degli antesignani. Parliamo della generazione grunge. O quanto meno di quei gruppi che fecero di Seattle il centro del mondo prima che le major fecero mambassa. I Melvins di "Lysol" coverizzavano la loro funerea "Sacrifice", mentre Kurt Cobain si sperticava in lodi all’indomani dei gettoni d’oro di "Nevermind", spesso proprio indossando la famosa t-shirt del gruppo col pesce stilizzato. Fu così che nel ’92 i Flipper, quasi in animazione sospesa, risorgono, come una fenice. Dopo la corte spietata di Rick Rubin, i nostri approdano alla sua American, licenziando "American Grafishy", un disco più rock, ma ugualmente morboso e per nulla avvezzo a concessioni commerciali. Ancora un lungo silenzio e poi una timida attività live, che – ironia della sorte – li vede affiancati dal nuovo bassista, quel Chris Novoselic che dei Nirvana fu uno dei membri fondatori. Un suono ancora fangoso, dal profondo, grazie alla puntuale produzione del re mida del grunge Jack Endino (il chitarrista degli Skin Yard che per poche centinaia di dollari incise "Bleach" dei Nirvana), queste le credenziali di "Love". Le cui registrazioni sono state effettuate presso il Murky Slough Studios, nella proprietà terriera dello stesso Krist (da diversi anni ama farsi chiamare così) nello stato di Washington. Bruce Loose, Ted Falconi, e Steve De Pace – i tre pezzi originali – hanno raggiunto con regolarità l’abitazione di Krist per le prove e l’incisione del materiale, riferendosi all’esperienza come a un "Band Camp". I risultati lasciano ancora una volta sbigottiti, la vena malata del gruppo ancora sugli scudi, un incedere lento ed inesorabile, con la chitarra volutamente affossata sotto le frequenze di basso ed un urlo primordiale nella voce di Bruce Loose. Altro che dinosauri…
01/06/09
Spinal Tap
Non tutte le ciambelle escono col buco, non tutti i racket sono poi finalizzati. Ricordate the great rock’n’roll swindle? Bè, poco dopo la pellicola sponsorizzata dai Pistols, ci fu qualche allegro signorotto inglese che mise in piedi un circo mediatico tale da lasciar sbalorditi non solo i ben pensanti. Si celebrano i 25 anni di un’altra pellicola a suo modo scandalosa, This Is Spinal Tap, lungometraggio che vedeva protagonista l’omonima hard rock band inglese, che affogava in maniera del tutto voyeuristica nei luoghi comuni del moderno rock’n’roll. Una messa in scena di quelle clamorose, dove il trittico sex & drugs & rock’n’roll veniva in qualche maniera ridicolizzato, aprendo degli scenari a dir poco surreali. Nigel Tufnel, David St. Hubbins e Derek Smalls, sempre armati dei consueti parrucchini sono tornati in azione già nel 2007, ma è con "Back From The Dead" che reclamano un posto di spicco nell’industria dell’entertainment, ribadendo come il loro sia stato un ruolo quasi formativo. Cosa aspettarsi da questo disco se non le classiche staffilate hard-rock ed i classici testi al vetriolo? Innanzitutto una raccolta di quelle perfette, studiate a tavolino se volete, in cui si alternano i classici della band prontamente ri-lavorati e numerosi inediti di pari intensità. Ad accompagnare il supporto audio un dvd, con gli austeri commenti – brano per brano! – dei nostri 3 englishmen. Se la cosa non vi scuote rendetevi conto del fatto che il loro nuovo tour ripartirà dalla celeberrima Wembley Arena.
Direttamente nella leggenda, senza un pizzico di sobrietà…
Direttamente nella leggenda, senza un pizzico di sobrietà…
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