28/02/12

Il viaggio costante degli Sleepy Sun


Il terzo album è spesso accompagnato da numerose aspettative, la prova del nove per dirla con un vecchio adagio. La cosa certa è che gli Sleepy Sun, fedeli anche al loro essere nomadi, non si lasciano troppo intimidire dai recenti cambi di formazione e scrivono un’altra magniloquente pagina di rock contemporaneo, pur se metodicamente allacciato al flavor dei settanta. Se nel debutto Embrace e nel successivo Fever, in qualche misura erano presenti i germi degli Zeppelin, per il nuovo disco è la sensibilità pop ad accrescersi, portando in dote canzoni ancora una volta fragranti. Spine Hits è così una gaudente riscossa

Registrato sotto il grande cielo del deserto californiano, dall ‘ingegnere del suono Dave Catching, già a lavoro con ‘pezzi grossi’ come Queens of Stone Age ed Eagles of Death Metal, il disco parte dalle consuete jam chitarristiche – sugli scudi Matt Holliman ed Evan Reiss – per tessere brani di ampio respiro su cui svetta la voce soulful di Bret Constantino. La sezione ritmica composta da Brian Tice e Jack Allen sostiene e certifica la bontà dei brani, con chiusure puntuali.

"Boat Trip" suona come dei Velvet Underground spalleggiati da Brian Wilson. Mentre "Still Breathing" insegue la pista dei primi Verve, un elegia tra pop e psichedelia.

Spine Hits è il ritratto di una band in costante movimento, praticamente inafferrabile nei suoi continui rimandi storici.

Al seguente link lo streaming di 5 tracce estratte dal disco

http://soundcloud.com/sleepysunband/sleepy-sun-stivey-pond

unica data italiana il 4 di Giugno a Torino, in occasione del festival Spaziale

La magia della tradizione maliana


Thrill Jockey è orgogliosa di presentare Koima, il secondo album del chitarrista e songwriter maliano Sidi Touré. Arriva da Gao, una città nel nord del Mali e prende ispirazione da musiche tradizionali e religiose locali, pur mostrando una fascinazione per la cultura occidentale e la grande genia del blues. Vincitore di due awards nazionali come miglior cantante, Sidi è stato il leader dell’orchestra regionale di Gao, dei Songhaï Stars ed è riconosciuto come una figura davvero influente anche al di fuori del paese natio. Nel 2011 Sidi ha pubblicato Sahel Folk, il suo debutto per l’etichetta di Chicago e si è affacciato per la prima volta in tour in America settentrionale. Si è esibito al Lincoln Center di New York, all’ Old Town School of Folk Music di Chicago e sempre nella windy city ha preso parte al tradizionale World Music Festival. Grazie a questo importante biglietto da visita, Sidi ha potuto affacciarsi in occidente ed allargare il suo numero di seguaci

Koima è una progressione naturale, potendo anche contare sulla presenza di inediti musicisti a supportare il suo canto quasi sciamanico. Se il suo debutto per Thrill Jockey coincideva con una serie di duetti, in questo disco Sidì può contare effettivamente su uno studio di registrazione – con base a Bamako – oltre che su un quartetto di musicisti. Più ricchi i suoni, lussureggianti gli arrangiamenti, ci spostiamo naturalmente da un incontro tra amici alla celebrazione di un evento danzante. Una visione che si completa, d’incanto.

Accompagnato da un chitarrista, un suonatore di calabash, un violinista ed un cantante, Sidi ci offre dieci canzoni idealmente a cavallo tra tradizione e modernità, magia africana e dilemmi urbani. I brani sono tributi personali alle tradizioni folk Songhaï, che a seconda del ritmo sono chiamate Takambas, Holleys, Gao-Gaos o Shallos.

Il titolo dell’album – letteralmente – vuole dire ‘ vai ad ascoltare’. Koïma è anche un emblematico luogo di Gao, una duna con i piedi nel fiume Niger e la testa a toccare il cielo. Nel folklore maliano Koïma è anche il luogo d’incontro delle più potenti forze alchemiche.

27/02/12

Il primo album di Michael Chapman!


Dopo aver riportato in vita un masterpiece del rock inglese come ‘Fully Qualified Survivor’, Light In The Attic fa giusto un passo indietro, andando a disseppellire il debutto di Michael Chapman, pubblicato originariamente il primo gennaio del 1969. Data affatto casuale col senno del poi, se solo pensiamo ai cataclismi culturali e politici che segneranno interamente quella stagione. Non che la musica del cantante/chitarrista fosse avulsa alla rivoluzione umanistica del tempo, certamente la dimensione più intimista del suo debutto – Rainmaker – lo collocherà di diritto in una sfera logicamente più introspettiva.

Pubblicato da Harvest, divisione ‘progressiva’ del piccolo colosso EMI, il disco brilla per le sue deliziose armonie elettro-acustiche, in cui chitarre acide si stagliano su minuziosi passaggi folk. In apertura uno dei suoi brani più celebri “It Didn’t Work Out”, un singolo con tutti i crismi, che contava sul fior fiore dei musicisti inglesi d’epoca. Qualche nome? Il chitarrista “Clem” Clempson della prog-band Bakerloo (dopo questa sua apparizione si unì ai fenomenali jazz-rockers Colosseum per poi trasmigrare negli Humble Pie), il batterista Ansley Dunbar (mostro sacro che può vantare collaborazioni con John Mayall, Eric Burdon, David Bowie, Frank Zappa e Lou Reed), il bassista Alex Dmochowski (affiliato allo stesso Dunbar) ed il tastierista Norman Haines (degli oscuri ma non meno influenti prog-rockers Locomotive).

Accostato stilisticamente ad altri autori-modello come John Martyn e Bert Jansch, Chapman non ha mai smesso di stupire, trovando negli ultimi anni anche la via della sperimentazione, foraggiato da personaggi in vista dell’underground newyorkese come Thurston Moore e No Neck Blues Band. Proprio Moore per la sua Ecstatic Peace ha rilasciato ‘Resurrection And Revenge Of Clayton Peacock’, disco osannato da The Wire nel 2011 per la sua tendenza impro.

Ma torniamo al suo esordio, una delle pubblicazioni più sintomatiche di un effervescente scena inglese in bilico tra avanguardia ed immersione nelle proprie radici. Gli altri protagonisti del disco sono musicisti come Danny Thompson (basso per Pentangle, John Martyn, Nick Drake) e Rick Kemp (basso elettrico e futuro Steeleye Span). Per non parlare poi del produttore Gus Dudgeon, l’uomo che fornirà l’impalcatura ‘astrale’ al singolo di Bowie “Space Oddity” e ad alle prime pubblicazioni del futuro baronetto Elton John.

Lo sforzo di Light In The Attic è stato ancora sensibile, con un cd contenente ben sei rarità estrapolate dalle omonime session, tre delle quali completamente inedite! Come se ciò non fosse abbastanza il giornalista Byron Coley – forse una delle penne più influenti dell’emisfero musicale dopo il compianto Lester Bangs – ha dato vita ad un essai che accompagna puntigliosamente la ristampa in questione, sin d’ora una delle più importanti di questo 2012.

La pietra preziosa del southern soul


C’è voluto del tempo ad assemblarla, ma finalmente la prima antologia dedicata alla talentuosa vocalist Wendy Rene è pronta a raggiungere gli scaffali di dischi di mezzo mondo. After Laughter Comes Tears’ è la raccolta dedicate a questa leggenda del southern soul, il cui classico “After Laughter (Comes Tears)” è stato coverizzato e campionato da chiunque: dal Wu Tang Clan (“Tearz”, da 36 Chambers) ad Alicia Keys (“Where Do We Go From Here”), passando per Lykke Li ed El Perro Del Mar. “Se potessi cantare come qualcuna’ ha detto Lykke Li, “sarebbe proprio lei”

Nata Mary Frierson a Memphis, Tennessee, casa della Stax Records, Wendy Rene è stata praticamente battezzata da Otis Redding, che la volle operativa come cantante nel 1963, poco più che adolescente. All’epoca lei e suo fratello Johnny Frierson, cantavano alla Church of God In Christ, con l’obiettivo di fare carriera nell’universo musicale. La loro prima avventura è col quartetto vocale The Drapels, con il quale vincono proprio un’audizione per la Stax del co-fondatore Jim Stewart. Appena Rene fa ascoltare un pezzo autografo al boss dell’etichetta, questi la ingaggia anche come solista. Doppio colpo!

Potendo contare sulle stelle di casa, sia i Drapels che Wendy ospitano i The MGs nel brano “Young Man” – accreditato ai primi – e l’organista Booker T. Jones nel singolo della seconda “After Laughter”. Mentre è la chitarra di Steve Cropper ad illuminare la scena nella sfrenata dance di “Bar-B-Q”, un successo controverso che costrinse la stessa Wendy ad abbandonare la scuola.. Di lì a poco i Drapels si dissolvono, così come il primo matrimonio della cantante, messo a dura prova dall’improvviso successo. Nel 1967 la famiglia si allarga e di comune accordo con il secondo marito – l’impiegato della Stax James Cross - Wendy decide di ritirarsi dal music-biz. L’addio alle scene doveva concretizzarsi con un concerto in compagnia di Otis Redding e dei Bar-Kays, ma la nostra decise proprio all’ultimo minuto di non partecipare alla kermesse. Decisione assennata, proprio in quel weekend, Redding ed i quattro Bar-Kays morirono in un disastro aereo sul lago Monona.

La sua carriera si sviluppò lontano dalle scene, insegna armonia ai propri figli e continua a cantare in chiesa, piuttosto che in studio. Nel 1993 accadde qualcosa di straordinario, un amico di suo figlio ascoltò il brano del Wu Tang Clan “Tearz” alla radio. Fu così che la Rene scopri uno stuolo di inaspettati sostenitori. E’ nel settembre del 2010 che la nostra torna ad esibirsi dal vivo, con una piccola apparizione al Ponderosa Stomp di New Orleans. Grazie anche a questo rinnovato interesse Light In The Attic è fiera di lanciare la compilation definitiva per questa inimitabile vocalist.

Listen, Whitey!


Il documento audio definitivo del movimento Black Power!

Per oltre 5 anni ad Oakland, California, l’archivista Pat Thomas ha potuto attingere ai seminali archivi di Huey Newton presso la Stanford University, al fine di documentarsi sull’ascesa del Black Panther Party, potendo peraltro contare sulle testimonianze di alcuni sopravvissuti a quella dinamitarda epopea. La ricerca è stata ovviamente estesa alla sfera musicale, con l’acquisizione di nastri ed album d’epoca, pagati a peso d’oro su Ebay. Confinando un periodo d’oro che andava dal 1967 al 1974, Thomas narra le gesta di alcune figure rivoluzionarie del tempo come Bobby Seale, Eldridge Cleaver, Angela Davis e Stokely Carmichael, personaggi presto saliti alla ribalta della cultura pop ed indiscutibili icone del tempo.

Una rivoluzione musicata da Gil Scott-Heron e dai Last Poets, unitamente ad alcuni fiancheggiatori bianchi come Bob Dylan e John Lennon. I risultati di questo prezioso lavoro di assemblaggio si possono cogliere nel libro a titolo Listen, Whitey! The Sounds Of Black Power, oltre 70mila battute per suggellare un pezzo importante della recente storia americana. Fantagraphics pubblica il tutto, unitamente a 200 immagini che immortalano rarità discografiche di genere rock, soul e jazz.

Light In The Attic si occupa della colonna sonora che accompagna questa successione di immagini, sotto l’egida Black Power un trionfo della multiculturalità. Dal singolo di Bob Dylan “George Jackson” – un fuori catalogo del 1971 – al portavoce del SNCC (acronimo per Student Nonviolent Coordinating Committee) Stokely Carmichael, passando per i contributi del poeta Amiri Baraka e dell’attivista/cantante Elaine Brown. 16 brani accomunati da tematiche rigorose, eppur capaci di esprimere una varietà artistica non comune. Anche l’uomo bianco, citato proprio nel titolo, è protagonista al pari dei luminari della cultura nera. John & Yoko si esibivano nel 1972 in un anthemica ‘Angela’ (dedicata proprio a quell’Angela Davis) mentre l’inglese di Manchester Roy Harper intonava una programmatica ‘I Hate The White Man’. C’è un’esplosiva Marlena Shaw con ‘Woman Of The Ghetto’ (catturata dal vivo al festival jazz di Montreux), uno stratosferico duo Eddie Harris e Gene McDaniels con ‘Silent Majority’ (Live At Newport) ed un devastante Gylan Kain – dall’universo Last Poets - con ‘I Ain’t Black’, uno spoken word che si avviluppa su un free-jazz-funk da antologia. E parlando di sommi poeti non poteva certo mancare il compianto Gil Scott-Heron con un’inedita versione solista di ‘Winter In America’. Sembra una vita fa, gli Stati Uniti possono ora contare su un black president, ma la lotta per i diritti civili ha avuto una lunghissima gestazione, motivo in più per avvicinarsi a questo documento che anche attraverso le sue uniche vibrazioni musicali, ci mette a conoscenza dello struggimento di un popolo.

23/02/12

La mistica di Alexander Tucker



Dopo aver fatto le fortune artistiche della britannica ATP, Alexander Tucker ha traslocato oltreoceano, realizzando il suo debutto per la Thrill Jockey nel 2011. Con Third Mouth – fuori a ad inizio aprile – il cantante/chitarrista bissa per la label di Chicago, mettendo mano ad una serie di canzoni concepite nell’arco degli ultimi 12 mesi. E’uno stile quasi inimitabile il suo, al crocevia tra minimalismo pop, folk e psichedelia. Una musica stratificata, utilizzando anche le sue indubbie capacità tecniche. Polistrumentista per natura, Tucker conduce le danze generalmente in solo, sovra incidendo chitarra e basso, utilizzando beats primordiali ed un violoncello atto a ricreare un gusto cameristico. Nel nuovo album non mancano certo gli esperimenti, ‘Rh’ ad esempio dà lustro ad una struttura sintetica oseremmo dire cosmica, su cui si staglia come uno spettro la voce dell’autore, mentre ‘Andromeon’ introduce sapori etno-world girando su magnetiche figure ripetitive. ‘The Glass Axe’ è invece il suo tributo personale al revival folk d’Albione, con echi sensibili di Pentangle ed Incredible String Band su strutture decisamente progressive.

Secondo lo stesso autore Third Mouth è una sorta di auto-terapia. Ci sono familiari ricordi ancestrali, con la madre che incantava (o meglio terrorizzava) il piccolo Alexander dicendosi tramite di alcuni spiriti che si manifestavano attraverso il suo corpo. Poi l’idea - quanto meno virtuosa - di avere una terza bocca piuttosto che un terzo occhio ed in assoluto la capacità di essere il tramite per voci di un altro universo.

Un misticismo che abbraccia tutto l’album, solcato anche da collaborazioni con musicisti emergenti. Come il sassofonista Karl Brummer che possiamo ascoltare in ‘Amon Hen’, e la vocalist Frances Morgan nella title track. Quest’ultima anche al violino nella Decomposed Orchestra dello stesso Tucker. Daniel O'Sullivan è invece un veterano che ha prestato i suoi servizi a Guapo e Chrome Hoof, oltre ad aver incrociato ripetutamente la strada dello stesso Tucker (il progetto Grumbling Fur con membri di Circle ed Ulver ad esempio). Artista a tutto campo Alexander è responsabile anche di immaginifici art work e di una ricercata attività di illustratore. Un uomo fuori dal tempo eppure prepotentemente dentro alla contemporaneità.


N.O.I.A. The Sound Of Love


Ulteriore testimonianza di quanto l’Italia fosse all’avanguardia nel circuito elettronico c’è data da questa raccolta di EP profeticamente titolata ‘The Sound Of Love’. I N.O.I.A. rimangono ad oggi una delle sensazioni della nuova onda, con un catalogo apprezzato tanto dai fautori della dance più trasversale quanto dagli aficionados del post-punk dalle tendenze più ritmiche. La Spittle, con la preziosa collaborazione di Oderso Rubini (uno degli ideatori del marchio Italian Records) mette finalmente ordine nella discografia dell’enigmatico trio proveniente dalla costa adriatica. Romagnoli doc i N.O.I.A. hanno per molti versi incamerato le influenze della scena club locale, centro nevralgico non solo per lo sviluppo dell’industria del disco, ma anche per i fermenti più vivi della nightlife.

Bruno Magnani – voce e elettroniche – Davide Piatto – chitarre ed elettroniche - Giorgio Giannini – tromba ed elettronica – percorsero un’inedita autobahn, dalle avanguardie tedesche alle piste dei migliori club della costa orientale e non. Una forma mutante che a diritto attraversava la rivoluzione italo-disco (il guru Baldelli li suonava a ripetizione), affiancandola alla più austera sensibilità wave. Pionieri al pari dei Gaznevada di ‘I.C.Love Affair’, i tre – affiancati da un invidiabile stuolo di collaboratori – realizzarono una serie di 12 pollici culto, ricercati anche da dj e produttori d’oltreoceano. Non è un caso che la Ersatz Audio (casa degli Adult) di Detroit abbia espressamente richiesto loro un remake negli anni zero, con un best of praticamente ri-suonato. Come dire, pagare pegno a chi ha contribuito a definire la stessa electro. Quindici brani – di cui quattro completamente inediti – per metter ordine nella discografia di questi ragazzi da spiaggia dell’era atomica, come qualcuno ha puntualizzato nelle note di copertina. Il suono dell’amore rifiorisce qui.

22/02/12

New York City rising


Qualcuno, preso da sgomento, ha iniziato ad intasare i centralini di Sacred Bones dopo aver ascoltato Leave Home – non a caso segnalato da Mojo come miglior album underground nel dicembre 2011 – la domanda più ricorrente era: si nasconde forse qualche ex-Husker Du dietro a questi The Men?

Dal quartier generale della piccola label newyorkese hanno precisato – facendo spallucce – che ogni riferimento a cose o persone realmente esistenti era puramente casuale. Sfido, se un sosia di Grant Hart si trovasse a fronteggiare come d’improvviso una band indipendente degli anni zero, un minimo di confusione potrebbe generarsi. E qualche buontempone dal Timeout di New York s’è anche preso la briga di commentare con un “Thurston Moore & the E Street Band” le recenti performance dal vivo di questo enigmatico quartetto. Che – detto tra noi – di punk ha solo una dionisiaca attitudine. Folgorati in tenera età tanto dalla musica hardcore quanto dallo shoegaze e dal black metal, in occasione del terzo album – ‘Open Your Heart’, titolo di per sè già sintomatico – la band di New York veste i panni dei ‘bravi ragazzi di periferia’. Largo dunque a bucoliche serenate psichedeliche, ad efficaci rimedi southern-country e a qualche riff strappato di peso ad un’antologia surf. In soldoni “Open Your Heart,” “Please Don’t Go Away” e “Candy” fanno largo ad una nuova sensibilità pop, una chiave di lettura inedita per un gruppo che continua a lavorare di fino con le proprie radici. New Day Rising?

I nuovi PIL !


Dopo 20 anni di inattività discografica, torna una delle più importanti formazioni della new wave britannica. John Lydon conferma che l’ Ep ‘One Drop’ – schedulato il 21 di Aprile in occasione dell’ormai famigerato ‘Record Store Day’ – anticiperà la pubblicazione di un album nuovo di zecca, programmaticamente titolato ‘This Is PiL’. Per il ritorno sulla lunga distanza bisognerà però aspettare il 28 di Maggio. Il nuovo materiale sarà pubblicato dalla band stessa per il marchio ‘PiL Official’. I brani sono stati incisi presso lo studio inglese di Steve Winwood nel Cotswolds.

Recentemente il gruppo è stato confermato come special guest alle celebrazioni di BBC Radio 6 presso la Queen Elizabeth Hall di Londra. Proprio in quest’occasione – se siete in vena di viaggi la data da appuntarsi è il 16 di Marzo – il gruppo farà ascoltare dal vivo una selezione dall’imminente album.

La title-track dell’Ep è stata già trasmessa da Steve Lamacq presso lo show radiofonico su BBC 6. John Lydon descrive il pezzo in questi termini: una riflessione sul luogo in cui sono cresciuto a Finsbury Park, Londra. L’area che mi ha plasmato ed influenzato, tanto culturalmente quanto musicalmente, un luogo al quale mi sentirò perennemente legato. Ma in tutto questo ci tengo a ribadire che aldilà del luogo di provenienza, tutti noi possiamo assaporare le stesse emozioni, specialmente il disincanto dei giovani d’oggi, di ieri e di domani. Tenendo a mente che i giochi olimpici saranno a Londra quest’anno e chissà quali benefici potranno portare alla città e al paese stesso…’

Un filo polemico, del resto Lydon ci ha abituati a prese di posizione decise nel corso degli anni.

Di seguito la scaletta: 1) One Drop 2) I Must Be Dreaming 3) The Room I Am In 4) Lollipop Opera.

I nuovi PiL sono composti da:

Lu Edmonds- polistrumentista e chitarrista originale dei The Damned. Lu ha già suonato nel disco del 1986 ‘Happy?’ e preso parte alla stesura di ‘9’.

Bruce Smith- batterista per Pop Group e Slits, percussionista coi PiL in ‘Happy?’ e ‘9’. Un autentico virtuoso dello strumento.

Scott Firth- bassista e polistrumentista, ha collaborato negli anni con Steve Winwood, John Martyn ed Elvis Costello.


21/02/12

UFOMAMMUT: ecco il teaser delle registrazioni di ORO

Ad anticipare la loro imminente uscita "Oro: Opus Primum" e del seguito "Oro: Opus Alter", gli Ufomammut hanno realizzato un teaser che testimonia quanto aspettarsi da queste nuove monolitiche registrazioni. Il filmato è stato girato durante le sessioni di registrazione con Lorenzo Stecconi al Locomotore Studio di Roma, dove gli Ufomammut hanno registrato anche i loro precedenti album. Il video offre un eccezionale scorcio della stesura dei loro riff gargantueschi, delle concise esplosioni batteristiche, dei synth e degli effetti devastanti, dei loro risoluti passaggi vocali.

Man mano che il filmato volge al termine, ci si rende conto di come tutti questi elementi convivano perfettamente grazie all'opera di questo dinamico e granitico trio.Se credevate che Eve fosse un passaggio ardito nelle avventure sonore degli Ufomammut, aspettate di ascoltare queste titaniche registrazioni dall'inizio alla fine…

"Oro: Opus Primum" verrà pubblicato da Neurot il 9 Aprile in UK/EU: aspettate di sentire altro molto presto.




20/02/12

La magia indie-folk dei Tall Firs


Dave Mies ed Aaron Mullan non hanno propriamente iniziato sui banchi di scuola, ma la loro ventennale amicizia è stata in qualche maniera il veicolo per idealizzare l’esperienza Tall Firs. Un’esperienza casalinga cresciuta poi a dismisura, tanto da solleticare le fantasie di Thurston Moore, che li ha voluti cin la sua Ecstatic Peace al momento del battesimo ed in occasione del – sempre difficile – secondo album. Dave ed Aaron come ogni buon ragazzo di provincia hanno iniziato con la tecnica dei due accordi, in uso sin dai sixties e votata a furor di popolo – in epopea punk – strumento di distrazione per le masse elette. Circle Jerks – per prestar fede al culto West Coast – e Sex Pistols – la temibile Albione – sono state le prime band cui i nostri si sono appassionati, scolpendo i propri riffs sul feroce/veloce pensiero di così illustri paladini.

Dopo le scuole superiori Aaron ha collaborato con il fenomenale batterista Chris Corsano (ad alcuni piace ricordarlo per l’avventura con Bjork, ad altri per la lunga militanza in ambienti weird-folk e free jazz) mentre Dave è stato il cantante della meteora Blue Condors, gruppo post-core di Baltimore concepito assieme ai due esuli di lusso Colin Seven (Universal Order of Armeggedon) e Monica DiGialleonardo (Moss Icon). E’ a New York che i due vecchi scolari si riuniscono, nel 2001. Di lì a poco il primo album omonimo per la label del chitarrista dei Sonic Youth, un affare molto intimista, devoto alla poesia folk dei tardi ’60 e solcato da vaghi tepori psichedelici. Una conferma è il successivo 'To Old To Die Young', in cui il duo è raggiunto in pianta stabile da Ryan Sawyer, che con il suo apporto alla batteria sposta la sensibilità del gruppo verso una maggiore tensione elettrica.

Nel 2009 i Tall Firs si invaghiscono di un’ altra band, la giovane formazione di Detroit Soft Location. Dall’incontro di queste due unità nasce il progetto discografico Glass Rock, anch’esso sponsorizzato da Ecstatic Peace! Nel 2010 Aaron si dedica ad Hallogallo, suonando il basso in quella che è una rivisitazione della leggenda Neu!, proprio col fondatore Michael Rother alla chitarra e Steve Shelley dei Sonic Youth alla batteria 'Out Of It And Into It' è dunque il ritorno in scena del duo, con l’assetto minimale dell’esordio, al fine di conservare un approccio più intimista alle nuove composizioni. Pubblicato da ATP il disco si nutre di umori bucolici, prendendo spunto da una forma di country-folk bagnato da vezzi indie e sofismi lisergici. Canzoni in punta di piedi, docili, eppure indimenticabili. Come la commovente ripresa di 'I Couldn't Say It To Your Face' di Arthur Russell.

17/02/12

Il volto meno tradizionale dell'americana


Maraqopa segna la nuova collaborazione tra il songwriter Damien Jurado ed il musicista/produttore Richard Swift, recentemente unitosi a The Shins, una delle band indipendenti di maggior successo oltreoceano. Un incontro che sposta radicalmente anche la poesia interiore di Jurado verso territori più rigogliosi, fornendo un’inedita visione d’insieme sul suo approccio tradizionale. Maggiore il dinamismo e distante all’apparenza la dimessa adesione ai canoni dell’americana. Un suono più eccentrico e visionario, lisergico oseremmo dire è quello che corre lungo la spina dorsale di ‘Maraqopa’, dove i sapori west-coast sono la portata del giorno. Il blues desertico posto in apertura con “Nothing is the News” sembra squarciato dalla chitarra del compianto Eddie Hazel eroe nero della flotta spaziale Funkadelic. Un dettaglio per nulla trascurabile.

In oltre 15 anni di onorata carriera solista - ancora sorretto dall’indipendente Secretly Canadian - Jurado non è mai parso così deciso a mettersi in gioco. Merito di un complice c’eccezione come Swift, considerato un autentico outsider della canzone popolare americana. Seguendo l’etica della registrazione in presa diretta il disco si affida anche alla casualità degli eventi, mantenendo comunque invariato un calore di fondo. Presso lo studio personale di Swift, il National Freedom, si respira un’aria casalinga e confidenziale, quale occasione migliore per lasciarsi andare. Aria di rinnovamento in casa Jurado, per un disco che segna una decisa svolta nella carriera del cantautore più atipico di Seattle.

Una delle migliori chanteuse americane debutta su Jagjaguwar


Una tensione emotiva palpabile sin dalle prime note, così si presenta ‘Tramp’, l’album che segna una crescita artistica esponenziale per la chanteuse statunitense. Edito da Jagjaguwar – sua nuova casa discografica - il disco è frutto di oltre un anno di sessioni, in cui la nostra Sharon (al tempo senza fissa dimora) trova rifugio ed ospitalità presso artisti e spiriti affini. Un’unica costante, il ritorno presso lo studio do it yourself di Aaron Dessner dei National (che possiamo ascoltare anche come ospite nel disco), luogo in cui si forgerà definitivamente il lavoro.

Nonostante gli scampoli di tempo a disposizione la nostra è riuscita a dare profondità al suo sentire, venendo fuori con una prepotente vena pop-sperimentale. Una visione inedita, la stessa che ha permesso alle sue prime due pubblicazioni di inserirsi sottopelle, ammaliando più di un ricercatore nel mare magnum dell’indie. Dodici brani che tagliano il traguardo dei 33 minuti, una tale passione che vi lascerà di stucco, complice una vena cantautoriale quasi epica, spasmodica. C’è molta elettricità nell’aria, una tensione che si può tagliare con la lama di un coltello. Solo Pj Harvey è riuscita ad infondere tanto pathos ad un’originaria forma pop. ‘Tramp’ conta anche sugli interventi puntuali di Jenn Wasner dei Wye Oak, dell’astro nascente Julianna Barwick e del fondatore di Beirut Zach Condon, proprio per dare un’idea di quanti attraversamenti abbia compiuto la giovane artista del New Jersey. Voce più che attendibile di un’America rurale e in contro tendenza.

16/02/12

Un punk di Washington Dc alle prese con house ed italo disco


Guadagnatasi un ruolo di tutto rispetto nelle gerarchie dell’emisfero elettronico, Planet Mu stabilisce che anche il 2012 sarà un anno improntato al lancio di nuovi talenti, in linea con gli exploit dei passati 12 mesi. Discorso articolato quello che riguarda Daniel Martin-McCormick, da Washington DC con furore. Poco più che debuttante con la sigla Ital, il nostro vanta lusinghieri trascorsi nella locale scena post-punk. Il primo nome che salta alla mente è ovviamente quello della Dischord di Ian McKaye…

Non a caso – giovanissimo - McCormick urlava dietro al microfono con i Black Eyes, formazione che realizzò due album da antologia a mezza via tra post-hardcore e ricercatezze no wave, proprio per la label dei Fugazi. Venne poi il tempo dei Mi Ami, che grazie anche agli sforzi di un altro colosso indipendente come la Thrill Jockey di Chicago, si ricavarono un ruolo per nulla marginale nell’evoluzione del suono post-punk più incline alla dance.

Il ritmo è da sempre un tarlo per McCormick che prima come Sex Worker – per il tanto chiacchierato marchio losangeleno Not Not Fun – e poi come Ital decide di abbracciare in maniera del tutto trasversale i dettami della house music e della italo disco. Al debutto sulla lunga distanza proprio per Planet Mu i suoi temi si fanno più virtuosi, merito di una visione d’insieme che certo non prescinde dai toni esplorativi del suo dna.

Ecco allora sovvertite le aspettative, grazie a subdoli inserimenti industrial-dub e a code strumentali che si affacciano sulle zone periferiche della techno minimale.

C’è un qualcosa di scultoreo in ‘Hive Mind’, un suono dagli aspetti quasi tridimensionali, dove le melodie ed i bridge sono sottoposti ad un sistematico lavoro di editing. E’ come se un tono fantasmatico avvolgesse tutto il disco, provocando insolite vibrazioni che ben si adattano alla personalità mutevole del protagonista. Se l’apertura con 'Doesn't Matter (If You Love Him)' rimanda a certi esperimenti dei Tackhead magari in salsa house, 'Floridian Void' si pone su territori più ambientali ed acquatici. C’è poi la disco straniante di 'Privacy Settings' ed ancora i toni dub di 'Israel' , per poi chiudere con 'Final Wave' , una strizzata a quel grande producer che è Moodymann. In buona sostanza un fiero mercato del battito dance, per chi è ancora ammaliato dalle arti del corpo.

Il debutto di Orcas per Morr Music


Esiste una linea di confine molto sottile tra la musica ambient e la forma canzone propriamente intesa. Una figura eccentrica come Brian Eno ha costruito un’intera carriera attorno alle potenzialità di questa commistione, mentre altre personalità hanno interpretato nella seconda metà dei ’90 i frutti della liaison. La natura astratta del genere cosiddetto ambient e la gratificazione istantanea del pop non sempre possono andare a braccetto, pochi sono effettivamente i ‘tirocinanti’ che hanno sfiorato l’ equilibrio perfetto.

Gli Orcas sembrano ambire ad una posizione di tutto rispetto in questo campo invero poco irreggimentato. Conoscevamo Benoît Pioulard per le sue fascinose pubblicazioni licenziate da Kranky (un marchio, una garanzia) ed il compositore minimalista Rafael Anton Irisarri per alcune uscite su Room 40 e Miasmah. Il loro stile è fortemente radicato sulle variazioni a tema del pop moderno ed elettronico, ponendo in forte relazione un latente astrattismo con apparenti squarci solari. E’ un gioco improntato alla sottrazione, dove il ritornello perfetto si tramuta spesso in drone e dove gli specchi della ripetizione sono solo il preludio ad una soffusa melodia.

Composizioni stratificate con lo studio di registrazione fido alleato nel processo di post-produzione. C’è una grande spazialità nell’omonimo esordio degli Orcas, il disco che segna anche un decisa svolta contenutistica per l’indipendente berlinese Morr Music. Dopo aver coperto un ruolo di primissimo piano negli sviluppi del fenomeno indie-tronica, la label riscopre forse la sua filosofia più avant, licenziando quello che ad oggi suona come uno dei dischi più freschi dell’anno.

Nuova sensazione in casa Memphis Industries


Originari di Boston ma con residenza nell’ormai post-borghese Manhattan, Hooray For Earth sono pronti a debuttare con ‘True Loves’ per Memphis Industries. Creazione del cantante/produttore Noel Heroux, ‘True Loves’ è un album fatto di canzoni epiche ma allo stesso tempo intime. Dalle pulsazioni elettroniche e dalla voce pitchata di ‘Realize It’s Not The Sun’ allo stile declamatorio che fa molto Last Post del brano di chiusura ‘Black Trees’, un lavoro che trascende il personale per abbracciare temi universali, mantenendo un discreto afflato socio-politico.

Cinque le settimane spese tra Manhattan e Brooklyn con l’aiuto degli amici di vecchia data – nonchè membri fondatori - Christopher Principe (basso) e Joseph Ciampini (batteria), per portare a termine un disco che rasenta la perfezione. Ospiti alla voce Jessica e Cristi Jo Zambri del gruppo synth-wave newyorkese Zambri. Mixaggio a cura di Chris Coady (Beach House, Blonde Redhead, Yeah Yeah Yeahs, TV On The Radio).

Sospesi tra armonizzazioni pop sixties, r&b ed un’estetica molto ’80, i brani di questo esordio sono riconoscibili ad un primo ascolto, invincibili ad un secondo. Un muro del suono ideato magistralmente, pensando tanto ai Beach Boys quanto ai Walker Borthers, bussando nottetempo alla porta di Phil Spector. Paragoni altisonanti che in parte avevamo usato al momento dell’uscita di ‘Person Pitch’ di Panda Bear. Un lavoro che trasuda gioia, pur alimentando i fantasmi e le ansie del nostro tempo. Introspezione illuminata da improvvisi squarci euforici, come se la purezza del suono fosse ancora salvifica. ‘Tue Loves’ è uno di quei biglietti da visita memorabili.

Le ristampe dei The Sound!

Tornano finalmente disponibili i primi due cd dei Sound, una delle formazioni della wave britannica ad oggi più influenti. Nati a Londra nel 1979 in pieno fermento post-punk i nostri cesseranno l’attività sul finire degli anni ’80, dopo aver disseminato perle di romanticismo elettrico in un decennio di fiera attività. Pubblicati originariamente da Korova – etichetta satellite del gruppo Warner Bros. – ‘Jeopardy’ e ‘From The Lion’s Mouth’ sono ora disponibili grazie allo sforzo di 1972, un nuovo imprint che ci ha già regalato interessanti ristampe in vinile di Television Personalities, Talk Talk e Mark Hollis.

Gli album in questione – rispettivamente del 1980 e del 1981 – sono stati autentici spartiacque, aprendo ad una poetica per quei tempi inedita. Adrian Borland (prematuramente scomparso nel 1999) oltre ad essere stato il maggior paroliere del gruppo, ne era il cantante e chitarrista, Graham "Green" Bailey il basso, Michael Dudley la batteria e Colvin "Max" Myers il tastierista. Il debutto con ‘Jeopardy’ fu accolto unanimemente dalla stampa, nelle 11 tracce presenti anche i 3 brani dell’album Propaganda (uscito postumo nel 2002), debitamente ri-arrangiati, nel dettaglio ‘Night vs Day’, ‘Words Fail Me’ e ‘Missiles’. Nel secondo album – ‘From The Lions Mouth’ - la tastierista originale Benita Marshall è sostituita da Mayers. Il gruppo non fa che ribadire le positive impressioni suscitate col debutto, allargando consistentemente il proprio bacino di sostenitori. Eppure il successo planetario, da molti agognato, sembra ancora sfuggire al quartetto, complice anche la scarsa attenzione e gli investimenti discutibili della casa madre, criminalmente interessata a trasformare i Sound in una prodigiosa macchina pop. A posteriori possiamo solo ragionare sulla grandezza di questo gruppo, che avrebbe meritato le stesse attenzioni di protagonisti degli eighties come Psychedelic Furs ed Echo & the Bunnymen. E’ d’obbligo rimediare ora ai torti della storia, con una coppia di dischi che ha cesellato la storia della new wave tutta.