Raddoppiano i giapponesi Boris, con un parto gemellare tenuto a battesimo dall’americana Sargent House, due dischi che presentano la doppia anima del trio: un primo distintamente rumoroso, pregno di quel metal decontestualizzato con il quale la band ha fatto breccia tanto nei cuori del pubblico occidentale che in quello dei fans con gli occhi a mandorla, l’altro sommessamente psichedelico se non addirittura indie-pop. "Heavy Rocks" è un surrogato di quella che è la loro discendenza chitarristica, summa del Boris pensiero ed anche il disco più denso di compartecipazioni esterne. Al trio composto da Takeshi (basso/chitarra/voce), Wata (chitarra/voce) e Atsuo (batteria/voce) si affiancano di volta in volta il già collaudato Ian Atsbury dei Cult (già assieme nel progetto BXI), lo stimato chitarrista giapponese Michio Kurihara (Ghost; Damon & Naomi), Faith Coloccia (Mammifer) ed Aaron Turner (Isis). Una convocazione da stati generali che dovrebbe farvi riflettere sull’impianto di queste canzoni, capaci di partire a razzo come un maglio motorheadiano o di aprirsi in devastanti universi drone, in una lettura solo apparentemente più onirica dei sodali Sunn O))). Per quello che riguarda i pesi massimi è un disco di una completezza disarmante, pillole sonore che infilano 40 anni di musica, prima e dopo gli sfaceli del Dio metallo. "Attention Please", ed il suono si fa più suadente. Tanto che con la title-track posta in apertura non facciamo fatica ad immaginare dei Blonde Redhead più cibernetici. Sarà anche la voce di Wata che ben si adatta al ruolo, ma mai avevamo ascoltato il trio nipponico ammiccare in questa maniera. E’ l’album comunque delle sorprese, tutto un immaginario sommerso che viene rimestato al fine di offrire le partiture più variegate di sempre. Come in "See you Next Week" che pare davvero una cosa krauta interpretata dalla chanteuse giapponese Phew. Impressionante. Come del resto "Les Paul Custom ’86", che sembra una Kahimi Karie a passeggio con qualche brutto ceffo di scuola white noise. Non sorprenda allora l’esplicito titolo "Party Boy", che mette una cassa dritta (analogica) a disposizione di un brano sbarazzino che sembra sixties garage in salsa europop. E’ il disco delle grandi occasioni ed i Boris non lasciano nulla di intentato, più che un divertissment un esperimento maniacale.
26/04/11
Il raddoppio dei giapponesi Boris
Raddoppiano i giapponesi Boris, con un parto gemellare tenuto a battesimo dall’americana Sargent House, due dischi che presentano la doppia anima del trio: un primo distintamente rumoroso, pregno di quel metal decontestualizzato con il quale la band ha fatto breccia tanto nei cuori del pubblico occidentale che in quello dei fans con gli occhi a mandorla, l’altro sommessamente psichedelico se non addirittura indie-pop. "Heavy Rocks" è un surrogato di quella che è la loro discendenza chitarristica, summa del Boris pensiero ed anche il disco più denso di compartecipazioni esterne. Al trio composto da Takeshi (basso/chitarra/voce), Wata (chitarra/voce) e Atsuo (batteria/voce) si affiancano di volta in volta il già collaudato Ian Atsbury dei Cult (già assieme nel progetto BXI), lo stimato chitarrista giapponese Michio Kurihara (Ghost; Damon & Naomi), Faith Coloccia (Mammifer) ed Aaron Turner (Isis). Una convocazione da stati generali che dovrebbe farvi riflettere sull’impianto di queste canzoni, capaci di partire a razzo come un maglio motorheadiano o di aprirsi in devastanti universi drone, in una lettura solo apparentemente più onirica dei sodali Sunn O))). Per quello che riguarda i pesi massimi è un disco di una completezza disarmante, pillole sonore che infilano 40 anni di musica, prima e dopo gli sfaceli del Dio metallo. "Attention Please", ed il suono si fa più suadente. Tanto che con la title-track posta in apertura non facciamo fatica ad immaginare dei Blonde Redhead più cibernetici. Sarà anche la voce di Wata che ben si adatta al ruolo, ma mai avevamo ascoltato il trio nipponico ammiccare in questa maniera. E’ l’album comunque delle sorprese, tutto un immaginario sommerso che viene rimestato al fine di offrire le partiture più variegate di sempre. Come in "See you Next Week" che pare davvero una cosa krauta interpretata dalla chanteuse giapponese Phew. Impressionante. Come del resto "Les Paul Custom ’86", che sembra una Kahimi Karie a passeggio con qualche brutto ceffo di scuola white noise. Non sorprenda allora l’esplicito titolo "Party Boy", che mette una cassa dritta (analogica) a disposizione di un brano sbarazzino che sembra sixties garage in salsa europop. E’ il disco delle grandi occasioni ed i Boris non lasciano nulla di intentato, più che un divertissment un esperimento maniacale.
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