Dopo 19 anni di assenza dalle scene, tornano i Feelies con "Here Before", un album composto esclusivamente da materiale originale. Pubblicato da Bar/None Records il disco si approccia ai numerosi stili del gruppo, mantenendo una corsia preferenziale per quel suono roots che si sarebbe fatto progressivamente largo nella loro parabola artistica. In un eclettico mix di chitarre elettriche ed acustiche, l’archetipo Feelies torna a rivivere in brani come “Nobody Knows” e “Should be Gone". Altrove sembra celarsi una vena garage comunque rimodernata - "When You Know" e "Time Is Right" – oltre che uno spirito down-tempo che in ”Bluer Skies” lascia sorprendentemente di stucco. C’è dunque aria di rinnovamento in questa repentina ri-costituzione, come se i veterani non temessero il confronto con le nuove leve. Chi ha scritto una pagina fondamentale della wave americana con "Crazy Rhythms" non può certo sottostare ad alcun diktat, ecco che la voce dei maestri torna ad ergersi, senza mostrare segni di cedimento. "Here Before" è stato registrato presso il Water Music studio di Hoboken, New Jersey e prodotto dai fondatori Glenn Mercer e Bill Million. I membri originali - entrambi alle chitarre ritmico/soliste ed alla voce - sono raggiunti da Brenda Sauter-Barnes (basso, voce), Stanley Demeski (batteria) e Dave Weckerman (percussioni), in una spettacolare rivisitazione del dopo-punk attraverso la sensibilità del genere americana.
27/04/11
Dopo 19 anni di assenza dalle scene, tornano i Feelies
Dopo 19 anni di assenza dalle scene, tornano i Feelies con "Here Before", un album composto esclusivamente da materiale originale. Pubblicato da Bar/None Records il disco si approccia ai numerosi stili del gruppo, mantenendo una corsia preferenziale per quel suono roots che si sarebbe fatto progressivamente largo nella loro parabola artistica. In un eclettico mix di chitarre elettriche ed acustiche, l’archetipo Feelies torna a rivivere in brani come “Nobody Knows” e “Should be Gone". Altrove sembra celarsi una vena garage comunque rimodernata - "When You Know" e "Time Is Right" – oltre che uno spirito down-tempo che in ”Bluer Skies” lascia sorprendentemente di stucco. C’è dunque aria di rinnovamento in questa repentina ri-costituzione, come se i veterani non temessero il confronto con le nuove leve. Chi ha scritto una pagina fondamentale della wave americana con "Crazy Rhythms" non può certo sottostare ad alcun diktat, ecco che la voce dei maestri torna ad ergersi, senza mostrare segni di cedimento. "Here Before" è stato registrato presso il Water Music studio di Hoboken, New Jersey e prodotto dai fondatori Glenn Mercer e Bill Million. I membri originali - entrambi alle chitarre ritmico/soliste ed alla voce - sono raggiunti da Brenda Sauter-Barnes (basso, voce), Stanley Demeski (batteria) e Dave Weckerman (percussioni), in una spettacolare rivisitazione del dopo-punk attraverso la sensibilità del genere americana.
Il ritorno delle Shonen Knife
‘Free Time’ è il quindicesimo album in studio per le Shonen Knife e vede la luce in Europa per etichetta Damnably. Nel loro trentennale il trio pop punk originario di Osaka, non smentisce la sua fama, tanto da risultare un perfetto ibrido tra bubblegum pop e cultura punk-rock, nel più classico gioco dei 3 accordi. La leader Naoko fu appunto folgorata nei tardi ’70 dalla cometa Ramones e da quel momento in poi tutti i suoi sforzi sono culminati nella riproposizione di quell’archetipo di canzone. Ovvero, melodie epidermiche e buone dosi di adrenalina, compresse in brani da poco più di due minuti di durata. Un’estetica antica in realtà, che affonda nel suono garage-rock americano come nelle spensierate armonie dei Beach Boys .
Dedite anima e corpo alla ‘poetica’ del fai da te, le nostre raggiungono per la prima volta la sponda occidentale con l’album del 1985 Burning Farm, pubblicato da K Records. Da quel momento in poi sono fioccate le occasioni, con i dischi pubblicati da Sub Pop e dalla major di turno sempre pronta a gettarsi sul futuro trend underground.
Hanno aperto alcuni concerti dei Nirvana durante il tour di Nevermind ed hanno fatto da supporter alle Breeders all’interno della carovana del Lollapalooza. Hanno registrato le famose Peel session per il compianto John e si sono affacciate all’interno dello show dei malfamati ‘Beavis and Butthead’ per MTV. Nel 2010 hanno suonato all’ATP ed hanno girato in lungo e largo l’Inghilterra, l’Europa, il nord-america, la Cina e Taiwan. Nello stesso anno la batterista Emi Morimoto è subentrata alla storica Etsuko Nakanishi, pur partecipando a quest’ultima prova da studio.
Parzialmente ispirato dal loro tour inglese – il primo a distanza di 16 anni – il disco è stato registrato da Koichi Hara (Afrirampo/Ooioo/ Boredoms). Ancora un lavoro essenziale, disseminato dal classico buon umore della band. Una marcia instancabile la loro, verso la perfezione estetica, nel ricordo del punk–rock primordiale e del manifesto melodico dei sixties.
Dedite anima e corpo alla ‘poetica’ del fai da te, le nostre raggiungono per la prima volta la sponda occidentale con l’album del 1985 Burning Farm, pubblicato da K Records. Da quel momento in poi sono fioccate le occasioni, con i dischi pubblicati da Sub Pop e dalla major di turno sempre pronta a gettarsi sul futuro trend underground.
Hanno aperto alcuni concerti dei Nirvana durante il tour di Nevermind ed hanno fatto da supporter alle Breeders all’interno della carovana del Lollapalooza. Hanno registrato le famose Peel session per il compianto John e si sono affacciate all’interno dello show dei malfamati ‘Beavis and Butthead’ per MTV. Nel 2010 hanno suonato all’ATP ed hanno girato in lungo e largo l’Inghilterra, l’Europa, il nord-america, la Cina e Taiwan. Nello stesso anno la batterista Emi Morimoto è subentrata alla storica Etsuko Nakanishi, pur partecipando a quest’ultima prova da studio.
Parzialmente ispirato dal loro tour inglese – il primo a distanza di 16 anni – il disco è stato registrato da Koichi Hara (Afrirampo/Ooioo/ Boredoms). Ancora un lavoro essenziale, disseminato dal classico buon umore della band. Una marcia instancabile la loro, verso la perfezione estetica, nel ricordo del punk–rock primordiale e del manifesto melodico dei sixties.
26/04/11
The Bongolian - Bongos For Beatniks (Blow Up Records)
Bongos For Beatniks vede il ritorno dei Bongolian, in verità la sigla dietro cui si cela il polistrumentista e leader di Big Boss Man Nasser Bouzida. Il suo quarto album continua quel viaggio musicale intrapreso nel 2007 con Outer Bongolia, riportandoci nei luoghi della club culture di fin 60/inizio 70 con un blend musicale che prevede elementi di funk, soul, jazz (con la prepotente presenza dell’ Hammond) e boogaloo. In pratica tutti gli elementi cruciali per parlare di rare groove. Il primo singolo giunto in radio è stato 'The Riviera Affair' , già suonato a ripetizione da BBC 6 all’interno di Lunchtime Loves. Utilizzato a ripetizione anche dai dj più sensibili al recupero di sonorità vintage, il brano è stato anche pezzo della settimana all’interno di alcuni spot del circuito Sky Sports.
Dopo il singolo apripista del mese di febbraio, giunge in primavera l’altra succosa anticipazione ‘Give It To Me (On The Left Side)’ , altro successo radiofonico che presto diviene cavall di battaglia sui dancefloor sponsorizzati dall’etichetta Blow Up. Frutto di una portentosa alchimia da studio Bongolian nacque una decina di anni or sono, quando Bouzida riemerse dallo studio con questa inebriante miscela funk, soul e jazz, concitata anche per via dei ritmi ‘bongo’ che ne costituiscono l’ossatura.
Per chi ha amato l’Incredible Bongo Band ed ha parimenti pescato nei cataloghi Ninja Tune ed Acid Jazz, un disco sul quale sarebbe delittuoso soprassedere.
Dopo il singolo apripista del mese di febbraio, giunge in primavera l’altra succosa anticipazione ‘Give It To Me (On The Left Side)’ , altro successo radiofonico che presto diviene cavall di battaglia sui dancefloor sponsorizzati dall’etichetta Blow Up. Frutto di una portentosa alchimia da studio Bongolian nacque una decina di anni or sono, quando Bouzida riemerse dallo studio con questa inebriante miscela funk, soul e jazz, concitata anche per via dei ritmi ‘bongo’ che ne costituiscono l’ossatura.
Per chi ha amato l’Incredible Bongo Band ed ha parimenti pescato nei cataloghi Ninja Tune ed Acid Jazz, un disco sul quale sarebbe delittuoso soprassedere.
Mickey Newbury - An American Trilogy
La trilogia ‘americana’ di Mike Newbury in un sensazionale cofanetto allestito da Saint Cecilia Knows è d’ufficio una delle ristampe più attese dell’anno.
Le canzoni di Newbury sono state registrate da artisti così diversi come Johnny Cash, Scott Walker, Ray Charles, Joan Baez, Dolly Parton, Tammy Wynette, the Box Tops, Bonnie ‘Prince’ Billy e Nick Cave. ‘An American Trilogy’ (Elvis Presley), ‘Just Dropped In (To See What Condition My Condition Was In)’ (Kenny Rogers and the First Edition), ‘She Even Woke Me Up To Say Goodbye’ (Jerry Lee Lewis), ‘Funny, Familiar, Forgotten Feelings’ (Tom Jones) sono solo alcune delle composizioni senza tempo presenti nel catalogo di Newbury.
Milton Sims Newbury Jr, nato a Houston, Texas, il 19 maggio del 1940 è stato in realtà il più brillante interprete delle sue stesse canzoni. I brani del trittico ‘Looks Like Rain’, Frisco Mabel Joy’ ed ‘Heaven Help The Child’ sono stati registrati a cavallo tra il 1969 ed il 1973 nello studio casalingo di Madison, Tennessee, a nome Cinderella Sound. In realtà si trattava di un garage a misura d’uomo convertito all’occorrenza dal chitarrista ed ingegnere del suono Wayne Moss e frequentato dagli stessi musicisti ascoltati sui dischi di Dylan del periodo Nashville (le incisioni dei tardi ’60 per intenderci). An American Trilogy è considerata a distanza una delle vette artistiche di Mikey Newbury.
Looks Like Rain del 1969 è un album visionario in linea con indiscussi capolavori del calibro di Forever Changes ed Astral Weeks di Van Morrison, un paesaggio che descrive stati emotivi forti: dalla più profonda disperazione alle sbandate sentimentali, attraverso stati di ordinaria follia. L’anno successivo è la volta di ‘Frisco Mabel Joy’, recentemente votato al sesto posto della classifica di Uncut dei 50 ‘lost albums’ più belli di sempre. Il ciclo del Cinderella Sound si chiude nel 1973 con l’epico Heaven Help The Child, pietra d’angolo di un folk marziano che sembra misurarsi tanto con la poetica della west-coast che con le argillose melodie del sud.
“L’impegno di Mickey Newbury nel proiettare energia all’interno delle sue canzoni è stato per me un imperativo’ Will Oldham
“Uno dei migliori interpreti che abbia mai ascoltato, in qualsiasi genere musicale … la sua voce mi fa scoppiare la testa” Steve Earle
"Ho imparato più cose sullo scrivere canzoni da lui che da qualsiasi altro autore” Kris Kristofferson
Le canzoni di Newbury sono state registrate da artisti così diversi come Johnny Cash, Scott Walker, Ray Charles, Joan Baez, Dolly Parton, Tammy Wynette, the Box Tops, Bonnie ‘Prince’ Billy e Nick Cave. ‘An American Trilogy’ (Elvis Presley), ‘Just Dropped In (To See What Condition My Condition Was In)’ (Kenny Rogers and the First Edition), ‘She Even Woke Me Up To Say Goodbye’ (Jerry Lee Lewis), ‘Funny, Familiar, Forgotten Feelings’ (Tom Jones) sono solo alcune delle composizioni senza tempo presenti nel catalogo di Newbury.
Milton Sims Newbury Jr, nato a Houston, Texas, il 19 maggio del 1940 è stato in realtà il più brillante interprete delle sue stesse canzoni. I brani del trittico ‘Looks Like Rain’, Frisco Mabel Joy’ ed ‘Heaven Help The Child’ sono stati registrati a cavallo tra il 1969 ed il 1973 nello studio casalingo di Madison, Tennessee, a nome Cinderella Sound. In realtà si trattava di un garage a misura d’uomo convertito all’occorrenza dal chitarrista ed ingegnere del suono Wayne Moss e frequentato dagli stessi musicisti ascoltati sui dischi di Dylan del periodo Nashville (le incisioni dei tardi ’60 per intenderci). An American Trilogy è considerata a distanza una delle vette artistiche di Mikey Newbury.
Looks Like Rain del 1969 è un album visionario in linea con indiscussi capolavori del calibro di Forever Changes ed Astral Weeks di Van Morrison, un paesaggio che descrive stati emotivi forti: dalla più profonda disperazione alle sbandate sentimentali, attraverso stati di ordinaria follia. L’anno successivo è la volta di ‘Frisco Mabel Joy’, recentemente votato al sesto posto della classifica di Uncut dei 50 ‘lost albums’ più belli di sempre. Il ciclo del Cinderella Sound si chiude nel 1973 con l’epico Heaven Help The Child, pietra d’angolo di un folk marziano che sembra misurarsi tanto con la poetica della west-coast che con le argillose melodie del sud.
“L’impegno di Mickey Newbury nel proiettare energia all’interno delle sue canzoni è stato per me un imperativo’ Will Oldham
“Uno dei migliori interpreti che abbia mai ascoltato, in qualsiasi genere musicale … la sua voce mi fa scoppiare la testa” Steve Earle
"Ho imparato più cose sullo scrivere canzoni da lui che da qualsiasi altro autore” Kris Kristofferson
Tornano gli Atari Teenage Riot con un nuovo album e due date dal vivo in Italia a maggio
Alec Empire continua ad essere una delle figure più borderline dell’universo musicale contemporaneo. Muovendosi sempre ai margini di generi come techno, industrial, metal ed elettronica d’ascolto, si è costruito un’immagine di uomo ovunque, destinato sistematicamente al più aspro confronto. Tornano con il quarto album i suoi Atari Teenage Riot, ‘"Is This Hyperreal?" – ancora sotto l’egida Digital Hardcore - segue ad oltre un decennio di distanza quel disco spartiacque che fu "60 Second Wipeout", licenziato nel 1999 e vero e proprio esempio di crossover extramusicale, con testi ultra-politicizzati ed un immaginario che andava a pescare sia nella cultura rave che in quella metal di Slayer ed affini. Ridotto a trio il gruppo conta sui fondatori Alec Empire e Nic Endo, oggi raggiunti dal nuovo innesto CX KiDTRONiK nel ruolo di MC. Una scelta che riflette la volontà del gruppo di offrire testi pregni di quella coscienza sociale che da anni è caratteristica fondante. Il disco è ancora un labirinto sonico, accresciuto dalle molteplici esperienze esterne dei membri del gruppo. Il minimo comun denominatore è l’adrenalina, che scorre a fiumi, portando quasi ad un effetto liberatorio, catartico. E’ l’attitudine dei giorni d’oro della cultura hardcore, quella americana legata alla storica evoluzione del punk rock e quella europea dei party illegali. Al centro dei testi si parla dell’attivismo degli hacker (continuando a sviluppare quel filone cyber che da sempre ha contraddistinto l’estetica del gruppo), dei governi locali e delle corporazioni che stanno cercando di irreggimentare la rete con nuove ferree regole. Lo stesso Alec ci spiega che il grigiore del nostro tempo è ripreso in questo album, che affronta l’iperrealismo, la decadenza digitale, i traffici ‘umani’ e non ultimo il caso wiki-leaks E’ un atto di protesta nell’era di Google, scandito da potentissime linee di basso e dalle robotiche drum machine che hanno sempre sorretto l’universo ATR.
Il gruppo sarà in Italia per due date a maggio
19 maggio: Alpheus/Roma
20 maggio: Lap/Milano
ascoltate in anteprima "Blood In My Eyes"
Atari Teenage Riot - "Blood In My Eyes" (8MB mp3 version) by Alec Empire/ ATR
Il raddoppio dei giapponesi Boris
Raddoppiano i giapponesi Boris, con un parto gemellare tenuto a battesimo dall’americana Sargent House, due dischi che presentano la doppia anima del trio: un primo distintamente rumoroso, pregno di quel metal decontestualizzato con il quale la band ha fatto breccia tanto nei cuori del pubblico occidentale che in quello dei fans con gli occhi a mandorla, l’altro sommessamente psichedelico se non addirittura indie-pop. "Heavy Rocks" è un surrogato di quella che è la loro discendenza chitarristica, summa del Boris pensiero ed anche il disco più denso di compartecipazioni esterne. Al trio composto da Takeshi (basso/chitarra/voce), Wata (chitarra/voce) e Atsuo (batteria/voce) si affiancano di volta in volta il già collaudato Ian Atsbury dei Cult (già assieme nel progetto BXI), lo stimato chitarrista giapponese Michio Kurihara (Ghost; Damon & Naomi), Faith Coloccia (Mammifer) ed Aaron Turner (Isis). Una convocazione da stati generali che dovrebbe farvi riflettere sull’impianto di queste canzoni, capaci di partire a razzo come un maglio motorheadiano o di aprirsi in devastanti universi drone, in una lettura solo apparentemente più onirica dei sodali Sunn O))). Per quello che riguarda i pesi massimi è un disco di una completezza disarmante, pillole sonore che infilano 40 anni di musica, prima e dopo gli sfaceli del Dio metallo. "Attention Please", ed il suono si fa più suadente. Tanto che con la title-track posta in apertura non facciamo fatica ad immaginare dei Blonde Redhead più cibernetici. Sarà anche la voce di Wata che ben si adatta al ruolo, ma mai avevamo ascoltato il trio nipponico ammiccare in questa maniera. E’ l’album comunque delle sorprese, tutto un immaginario sommerso che viene rimestato al fine di offrire le partiture più variegate di sempre. Come in "See you Next Week" che pare davvero una cosa krauta interpretata dalla chanteuse giapponese Phew. Impressionante. Come del resto "Les Paul Custom ’86", che sembra una Kahimi Karie a passeggio con qualche brutto ceffo di scuola white noise. Non sorprenda allora l’esplicito titolo "Party Boy", che mette una cassa dritta (analogica) a disposizione di un brano sbarazzino che sembra sixties garage in salsa europop. E’ il disco delle grandi occasioni ed i Boris non lasciano nulla di intentato, più che un divertissment un esperimento maniacale.
Damon & Naomi
Nel 2011 Damon & Naomi celebrano il loro 25simo anniversario, un matrimonio artistico che ha già provveduto a regalare enormi soddisfazioni al folto gruppo di loro estimatori. Puntuale giunge un nuovo album da studio, in concomitanza con il calendario, a titolo "False Beats and True Hearts", praticamente la prima cosa incisa dalla coppia negli ultimi 4 anni. Un disco che ha tutte le carte in regola per raccogliere nuovi adepti, la percezione forte di un manifesto musicale, in bilico tra le gioie del pop più solare e le imbeccate di una psichedelia acida. Il merito è anche del chitarrista nipponico Michio Kurihara, che già all‘epoca dell’album "Damon & Naomi with Ghost" diede saggio delle su incredibili doti interpretative. Con la pubblicazione dell’antologico "More Sad Hits", una retrospettiva dei loro anni su Sub Pop, e delle ristampe re-masterizzate dei Galaxie 500, l’interesse nei confronti del gruppo ha subito una decisa impennata. Le aspettative non vengono disattese dal nuovo disco, pubblicato in Europa da Broken Horse. Gli arrangiamenti del duo sono ariosi e proiettano in epoca moderna il feeling di certo paisley underground, rivisitando oltre al folk west-coast il tipico incedere della Factory velvetiana. L’altra novità saliente è l’utilizzo del pianoforte da parte di Naomi, che condisce con un pizzico di introspezione l’intero album. Poi la sei corde di Kurihara, in grado di lanciarsi in voli pindarici che solidificano se possibile la posizione strategica dell’album, un ponte tra passato e presente, nel segno della visione pop astrale di due dei migliori songwriter americani in circolazione.
Help Stamp Out Loneliness
Cercavate un antidoto a quelle grigie giornate invernali? Con la primavera arriva anche un’altra rivelazione del pop d’oltremanica, specialità di casa in realtà, con tutti quei dischi che negli ’80 infiammarono l’underground britannico, fossero licenziati da etichette quali Sarah o Creation. Al debutto sulla lunga distanza Help Stamp Out Loneliness - già quel nome delizioso – si presentano con un bignami del dream pop, forti anche delle loro radici territoriali, con i membri del sestetto in parte mancuniani ed in part irlandesi di Belfast. Sin dalle battute iniziali di 'Cottonopolis + Promises' abbiamo la sensazione di un miracolo, canzoni che sembrano avere il dono dell’immortalità, fraseggi freschi, sapienti intuizioni, una mano fatata. Ascolterete infinite chitarre jingle-jangle ed un organo a transistor preparare il terreno all’ingresso in campo della vocalist D. Lucille, il cui timbro ricorda per certi versi quello dell’eroina Nico. Il primo singolo estratto dall’album è però il programmatico ‘Record Shop’, una canzone liberamente ispirata dal personaggio di Sandra Bernhard nel film di Scorsese ‘King of Comedy’. L’impressione è quella di trovarsi ad un disco esteticamente impeccabile, in cui tutti i pezzi del puzzle trovano debita collocazione. Dalle melodie agro-dolci agli handclap elettronici, da quelle squisite incursioni pop-wave alle chitarre che rasentano l’eclettico e rumoroso suono dello shoegaze. Il prestigioso The Guardian si è già innamorato dei 6, l’escalation sembra a questo punto davvero dietro l’angolo.
ascolta il singolo "Record Shop" su Soundcloud
Help Stamp Out Loneliness - Record Shop by wiaiwya
ascolta il singolo "Record Shop" su Soundcloud
Help Stamp Out Loneliness - Record Shop by wiaiwya
22/04/11
Watch The Closing Doors - A History Of New York's Musical Melting Pot Vol.1 1949-1959
Dopo l’approfondita indagine su proto (e post) punk, Kris Needs mette mando ad un progetto sulla carta ancor più ambizioso. Questa volta non una singola corrente musicale sotto la lente di ingrandimento, quanto le storie consumatesi all’interno della Naked City, New York. La prima in una serie di pubblicazioni che faranno il punto sui molteplici volti della Big Apple, partendo con un doppio antologico che copre i tre lustri compresi tra il 1945 ed il 1959. Con i susseguenti volumi arriveremo a lambire anche il decennio appena trascorso. Un’opera enciclopedica che ci accompagna nei circoli del jazz, del blues della musica latina e del primigenio rock’n’roll, mantenendo invariato il medesimo sfondo metropolitano. Musiche epocali, unificate da un sottile filo rosso, in un doppio antologico che in 32 mosse, fotografa un momento storico della musica contemporanea, anticipando peraltro interessanti esperimenti sul suono e flirtando con la poetica beat. Nell’osservare le porte che si chiudono seguirete il rituale di Duke con Take The A Train, vi farete cullare dallo Yellow Dog Blues di Louis Armstrong, e passerete con Billie Holiday un ipotetico Autumn In New York. Sentirete dalla viva voce di Allen Ginsberg il suo Howl, e testerete con mano l’opera di avanguardisti classici – John Cage – ed accademici – Raymond Scott – per poi ubriacarvi con il Mucho Mambo di Machito.
Come vedete una dispensa eccezionale di stati d’animo e filosofie musicali, che la dicono lunga su quale sia stato il vero centro nevralgico della modernità. Kris Needs fotografa New York con spirito istintivo e capacità di sintesi, mostrandoci un rapporto esemplare.
Come vedete una dispensa eccezionale di stati d’animo e filosofie musicali, che la dicono lunga su quale sia stato il vero centro nevralgico della modernità. Kris Needs fotografa New York con spirito istintivo e capacità di sintesi, mostrandoci un rapporto esemplare.
TRACKLISTING:
1. Take The “A” Train (Duke Ellington )
2. Bad (Cozy Cole )
3. Why Do Fools Fall In Love (Frankie Lymon & Teenagers)
4. Mucho Mambo (Machito )
5. Shake A Hand (Faye Adams )
6. Yellow Dog Blues (Louis Armstrong )
7. Talking Union (Almanac Singers )
8. Matilda (Harry Belafonte )
9. Minnie The Moocher (Cab Calloway )
10. Coffee Daddy Blues (Danny Taylor )
11. Manteca (Dizzy Gillespie )
12. Little Girl Blue (Nina Simone )
13. In The Still Of The Nite (Five Satins )
14. Autumn In New York ( Billie Holiday )
15. Summertime (Miles Davis )
16. Goodbye Pork Pie Hat (Charles Mingus)
17. Indeterminacy Pt 2 (John Cage )
cd 2
1. Topsy Pt 2 (Cozy Cole )
2. Op (Honeycones)
3. Senor Blues [Newport Jazz fest] (Horace Silver )
4. Southern Exposure (Josh White )
5. How Can A Poor Man Stand Such Times and Live (New Lost City Ramblers)
6. Duncan & Brady (Dave Van Ronk )
7. Custard Pie Blues (Sonny Terry )
8. Money Honey (Drifters)
9. Morning Noon And Night (Big Joe Turner )
10. Paradise Hill (The Embers )
11. Twilight (Paragons )
12. One Monkey Don’t Stop No Show (Big Maybelle )
13. Brilliant Corners (Thelonious Monk )
14. Ripples (Raymond Scott )
15. Howl (Allen Ginsberg )
FM Belfast "Don't Want To sleep" (Morr Music)
FM Belfast non è propriamente una band, quanto una vera e propria comunità, costruita su un valore assoluto come quello dell’amicizia. Negli ultimi 4 anni la formazione islandese ha ridefinito l’arte del suo electro-pop, cercando maggiori punti si comunione con la propria audience, in crescita esponenziale anche oltre i patri confini. Un senso di euforia ha sempre accompagnato le loro composizioni, che all’innocenza dell’indie-pop hanno sposato le contaminazioni con la dance più eclettica ed intelligente. Un percorso che per certi versi potrebbe ricordare quello degli Architecture In Helsinki (magari nelle versioni remixate) o ancora quello dei Royksopp, anche se con una vena chitarristica magari più veemente.
Tutte le persone che hanno potuto assistere alle loro performance , all’indomani dell’uscita di How To Make Friends, possono ribadire come lo spirito altero del gruppo tenda ad unire l’analogico al digitale, un’attitudine dolce a repentini scatti selvaggi. Saliscendi emotivi, che sono poi la cifr a stilistica di un gruppo impertinente. Come ci è dato modo di vedere – ed ascoltare - da “Don’t Want To Sleep” , quasi inno generazionale nella testata, notti lunghe all’insegna della comunione artistica e magari della libertà sessuale. Non esistono affetti virtuali in questa compagine, e la musica ne è testimonianza. Árni Rúnar Hlöðversson e Lóa Hlín Hjálmtýsdóttir poco dopo aver creato il sodalizio scrissero il brano “Lotus” con il fine di farne omaggio a tutti gli amici stretti durante il Natale. Nobili sentimenti, che rispecchiano un’attitudine avulsa alle più bieche imprese occidentali.
Con ospiti di livello e personalità locali quali Unnsteinn Manúel dei Retro Stefson, Borko ed il mitico trombettista Eiríkur Orri Ólafsson, i nostri licenziano un disco che è inno alla vita, un’impennata cerebrale, una festa di sensi, dove i ritmi di una Ibiza più umana sposano le canzoni pensate in un stanza di tre metri quadri. Musiche di liberazione, a loro modo.
Tutte le persone che hanno potuto assistere alle loro performance , all’indomani dell’uscita di How To Make Friends, possono ribadire come lo spirito altero del gruppo tenda ad unire l’analogico al digitale, un’attitudine dolce a repentini scatti selvaggi. Saliscendi emotivi, che sono poi la cifr a stilistica di un gruppo impertinente. Come ci è dato modo di vedere – ed ascoltare - da “Don’t Want To Sleep” , quasi inno generazionale nella testata, notti lunghe all’insegna della comunione artistica e magari della libertà sessuale. Non esistono affetti virtuali in questa compagine, e la musica ne è testimonianza. Árni Rúnar Hlöðversson e Lóa Hlín Hjálmtýsdóttir poco dopo aver creato il sodalizio scrissero il brano “Lotus” con il fine di farne omaggio a tutti gli amici stretti durante il Natale. Nobili sentimenti, che rispecchiano un’attitudine avulsa alle più bieche imprese occidentali.
Con ospiti di livello e personalità locali quali Unnsteinn Manúel dei Retro Stefson, Borko ed il mitico trombettista Eiríkur Orri Ólafsson, i nostri licenziano un disco che è inno alla vita, un’impennata cerebrale, una festa di sensi, dove i ritmi di una Ibiza più umana sposano le canzoni pensate in un stanza di tre metri quadri. Musiche di liberazione, a loro modo.
FM Belfast: Underwear from morr music on Vimeo.
Butcher The Bar - For Each A Future Tethered (Morr Music)
Joel Nicholson ha dato i primi segnali di una distinta creatività con l’album di 3 anni or sono ‘Sleep At Your Own Speed’, un disco che ben interpretava i dubbi della post-adolescenza, nello scenario intimo della propria cameretta. Da quel momento Joel si è trasferito in un nuovo appartamento a Manchester, e nonostante il grigiore tipico di questa grande metropoli artistica, il clima che si respira in ‘For Each A Future Tethered’ è davvero solare, pur mantenendo un logico filo di malinconia. Abbracciando in pieno la filosofia del new acoustic movement, Joel guarda oltre le etichette, quel suo sentire melodico porta ancora più lontano. Nessun spirito di emulazione, solo grande considerazione per gli autori del passato, più o meno recente. Eccoli, allineati come in un quadro impressionistico, i volti di Nick Drake, Paul Simon ed Elliott Smith, con le loro smorfie e le loro canzoni improvvisate alla sei corde.
Ragazzo di spirito Nicholson, mostra anche creatività negli arrangiamenti, nonostante le sue canzoni si reggano sull’uso di strumenti classici quali chitarra e banjo. L’inclusione di tromba, clarinetto, harmonium e pianoforte – giusto per limitarsi agli interventi più clamorosi – sposta le dinamiche del disco, verso un suono più rigoglioso. Se avete apprezzato il lavoro dei label-mates Seabear e quello dei nuovi luminari dell’indie-pop Lucksmiths, troverete punti di raccordo non indifferenti. Dietro Butcher The Bar si nasconde già un piccolo veterano del folk-pop, che ha saputo convertire le sue passioni primordiali in un suono ricco, inebriante.
Ragazzo di spirito Nicholson, mostra anche creatività negli arrangiamenti, nonostante le sue canzoni si reggano sull’uso di strumenti classici quali chitarra e banjo. L’inclusione di tromba, clarinetto, harmonium e pianoforte – giusto per limitarsi agli interventi più clamorosi – sposta le dinamiche del disco, verso un suono più rigoglioso. Se avete apprezzato il lavoro dei label-mates Seabear e quello dei nuovi luminari dell’indie-pop Lucksmiths, troverete punti di raccordo non indifferenti. Dietro Butcher The Bar si nasconde già un piccolo veterano del folk-pop, che ha saputo convertire le sue passioni primordiali in un suono ricco, inebriante.
Jenny Hval - Viscera (Rune Grammofon)
Jenny Hval si è già costruita una solida reputazione in patria, grazie a due album che in Norvegia hanno sfiorato l’exploit commerciale. Piccola istituzione indipendente la Hval ha sempre scelto un approccio viscerale – come confermato dal titolo della sua terza opera – ridefinendo i contorni di un pop d’avanguardia dalle tinte chiaroscurali. Il terreno è stato preparato con ”To Sing You Apple Trees” del 2006 e ”Medea” del 2008, entrambi pubblicati con il nome d’arte Rockettothesky. Con “Viscera” l’autrice si scopre, confezionando un disco solista che verte su storie di carne e viaggi piuttosto mentali, amplificando una dimensione sensuale e provocatoria.. Fermo restando il desiderio di realizzare un’opera d’arte libera, Jenny ha abbandonato letteralmente la forma canzone, fluttuando attraverso il suono, in una dimensione parallela che potesse anche rappresentare l’indipendenza mentale. La scaletta dell’album è così contraddistinta da brani con protagonisti contemporanei, mentre altrove i caratteri sono più sfuggenti e l’idea di viaggio avviene soprattutto a livello corporale. Con questo album la vocalist si mette letteralmente a nudo, scegliendo una dimensione artistica forte, attraversando quei territori confinanti con il pop un tempo consoni a Kate Bush. Ma le tecniche estese applicate alla sua voce dicono anche di un sentimento genuino nei confronti di icone quali Diamanda Galas e Meredith Monk. Con la produzione impeccabile dell’ingegnere di casa Helge Sten, Rune Grammofon ci introduce al talento di una futura icona underground..
Phaedra - The Sea (Rune Grammofon)
Davvero un debutto eccellente per Phaedra, una nuova e distinta voce nello scenario sempre più ricercato delle musiche norvegesi. L’etichetta di Rune Kristoffersen è stata sempre sensibile al fascino delle interpreti al femminile, si pensi all’opera dettagliata di Susanna e della sua orchestra magica, come alle imperiose sperimentazioni di Maja Ratkje. Questa volta – se possibile – si respira un’aria di forte rinnovamento, che attraversa anche i decenni, con l’impressione di planare in quell’incontaminata Inghilterra dei seventies, dove il folk prendeva direzioni inedite aprendosi all’apoteosi psichedelica. Co-prodotto da Frode Jacobsen dei rockers Madrugada, ”The Sea” è il classico album senza tempo, evento raro in questi giorni, dove la monetizzazione sembra un cruccio anche delle produzioni indipendenti. Ricordando gli arrangiamenti sofisticati ed ariosi di Joe Boyd (l’uomo ovunque nella breve carriera di un mostro sacro quale Nick Drake) la piccola ‘big band’ capitanata dalla vocalist – e maggiore songwriter - Ingvild Langgard ci conduce per mano in un universo incantato, solleticando la nostra fantasia con avvolgenti atmosfere acustiche, che non disdegnano però contatti con le antiche tradizioni del blues e del soul. Incrociando archi, strumenti etnici (mbira, zither) e ricorrendo alla vasta gamma armonica del Fender Rhodes, ‘The Sea’ mostra una completezza invidiabile per una band al debutto. Se cercavate un’attendibile alternativa alla fascinosa Joanna Newsom, la musica della Langgard e dei suoi Phaedra vi indicherà un sentiero inedito, altrettanto suadente.
21/04/11
Efrim Manuel Menuck "Plays 'High Gospel'": il suo disco solista nei negozi a fine maggio
Efrim Manuel Menuck è meglio noto per essere il co-fondatore dell’istituzione Godspeed You! Black Emperor ed il leader – in un format altamente democratico però - di Thee Silver Mt. Zion. Responsabile anche del marchio Constellation, il musicista canadese ha poi contribuito a quella fenomenale coppia di dischi firmati dal compianto Vic Chesnutt a cavallo tra il 2007 ed il 2009. Numeri alla mano fanno qualcosa come 13 album. Detto della sua attività poliedrica, ricordiamo anche Efrim come creatore del sempre più gettonato Hotel2Tango di Montreal, studio in principio dedicato alle realtà locali e successivamente utilizzato da artisti esterni come British Sea Power, Carla Bozulich's Evangelista e Grant Hart. Se parliamo di una scena nordamericana contemporanea, non possiamo prescindere dalla figura artisticamente determinante del barbuto chitarrista/cantante, un compositore che mai si è fermato all’apparenza, accompagnando il suo profetico rock nei territori dell’avanguardia e della musica da camera. Per il suo progetto solista non intende muovere un passo indietro, preferendo ad un presunto sfogo cantautorale ancora una ricerca, estrema. Tanto che l’elemento distinto all’interno di "High Gospel" è proprio la componente elettronica, che ridefinisce in lungo e in largo la portata dell’album, Un’elettronica che spesso richiama le nozioni della primigenia musica industriale britannica e certe spirali cosmiche tedesche. Ecco che Efrim si scopre scultore di suono più che ordinario songwriter. E dopo il flirt con forme riviste di blues, valzer e klezmer si abbandona a processi analogici di manipolazione, ricorrendo al nastro magnetico piuttosto che alle consumate post-produzioni digitali. Anche in questo un’estetica che definisce l’attitudine dell’uomo. A livello di contenuti il disco vuole essere un’incantata poesia dedicata alla città d’adozione – Montreal – ed alle persone recentemente scomparse (lo stesso Chesnutt e la cagna Emma, cui fu dedicato proprio un album di Silver Mt. Zion). Contribuiscono alla riuscita dell’operazione Jessica Moses (chitarra e violino anche con i Mt. Zion), David Payant (batterista di SMZ, Vic Chesnutt Band) e la cantante Katie Moore as guest players.). Un lavoro che è un’ovazione, un canto liberatorio, mutazione estrema di un folk-singer che utilizza spesso le macchine in luogo della sei corde. Una questione – soprattutto – di cuore.
Ecco un'anteprima da "High Gospel"
EFRIM MANUEL MENUCK - Plays "High Gospel" [preview] by Constellation Records
Le Corbeau
Quasi un oggetto non identificato al momento della sua pubblicazione nel 2009, "Evening Chill " di Le Corbeau è presto divenuto un disco culto, coronando presto il titolo di best seller nel catalogo della Fysisk Format. Da quel momento anche l’attività artistica dei membri del gruppo norvegese si è intensificata. Il chitarrista e maggior songwriter Oystein Sandsdalen si è imbarcato in un tour mondiale con i Serena Maneesh, guadagnando maggior confidenza con la platea internazionale. Se si fa eccezione per uno split 12" con il musicista ambient Svarte Greiner, Le Corbeau hanno lavorato in sordina a questo "Moth on the Headlight" che materializzandosi rivela un fascino glaciale, tipicamente nordico. Che tre fosse il numero perfetto ne avevamo quasi la certezza: con questo delizioso lavoro, sospeso tra dream pop e notturno jazz downtempo, Le Corbeau riscrivono le pagine dello shoegaze prendendo in prestito le movenze del rock’n’roll più mistificatorio, delle colonne sonore dei film noir e finanche della surf music. L’ispirazione è sublime ed il sestetto sembra sganciarsi perentoriamente dalle volte dell’indie-rock, per abbracciare un sound più complesso e dai tratti cinematici. Nella conferma che il nord-europa è terra di emissari, godiamo di "Moth On the Headlight" come di un frutto di stagione, fragrante e freschissimo.
13/04/11
"Honeysuckle Æons": il nuovo disco di Current 93
Il disco lunare dei Current 93, che va a chiudere una trilogia iniziata con "Aleph At Hallucinatory Mountain" e proseguita con "Baalstorm, Sing Omega". Un lavoro che mette da parte il feeling folk-psichedelico che attraversava la spina dorsale dei precedenti dischi, che guarda caso portarono alla famosa performance in compagnia dei celebrati eroi Comus. Con "Honeysuckle Aeons" la scrittura di David Tibet si avvicina a quella di capolavori come "Soft Black Stars", perfezionando quell’impianto acustico ora arricchito dalla presenza vibrante del theremin e della kalimba. Un disco che semmai guarda anche ad oriente, nel liberare la poesia crepuscolare del nostro, che sembra anche farsi forza del polistrumentista Eliot Bates (oud, bendire ed erbane), protagonista assoluto nel brano "Lily", un raga che monta delicatamente prefigurando un volto inedito dei C93. Aldilà di una figura nota come Baby Dee (piano, organo da chiesa e voce), sono per certi versi inediti i musicisti con cui Tibet ha deciso di collaborare. Menzione d’onore per Armen Ra musicista iraniano (ora di stanza a New York e richiestissimo per le sue riletture classiche e lounge), che ruba la scena in lungo e in largo esibendosi al theremin e punteggiando le orbite cosmiche di questo Honeysuckle Aeons. Ci sono poi i bordoni atmosferici di Andrew Liles e la kalimba, suonata Lisa Pizzighella, ad arricchire le sfumature di una produzione che si presenta già epocale nella folta discografia del gruppo. Che Tibet sia una delle menti più lucide del nostro tempo non è certo mistero.
11/04/11
Esce il 6 di maggio il nuovo Boomdabash
A distanza di tre anni dalla fortunata uscita del primo lavoro di BoomdaBash “UNO” (2008 elianto/laboratori Bdb/self), “Mad(e) in Italy” diventa l’esempio più rappresentativo del processo di maturazione e crescita della reggae band salentina. Un prodotto multiforme, carico di influenze provenienti da differenti panorami musicali che, nonostante la sua eterogeneità, porta con se un inconfondibile aroma di reggae.
Un reggae che diventa amico di tutti, strizza l’occhio al soul, all’hiphop, perfino al dubstep e alla drum’n’bass, un reggae tanto italiano quanto d’oltre mare. Fresco e old style allo stesso tempo, mondano ma non troppo. Chitarre distorte convivono con ritmi one drop, organi in levare vanno di pari passo con sintetizzatori futuristici, due diverse lingue si intrecciano e raccontano storie che profumano di Giamaica. Ma sotto sotto, realizzi che l’attitudine e lo spirito del progetto parte da casa nostra e dal nostro modo di far musica. Sotto sotto, capisci che è tutto, interamente, “Made in Italy”.
Un reggae che diventa amico di tutti, strizza l’occhio al soul, all’hiphop, perfino al dubstep e alla drum’n’bass, un reggae tanto italiano quanto d’oltre mare. Fresco e old style allo stesso tempo, mondano ma non troppo. Chitarre distorte convivono con ritmi one drop, organi in levare vanno di pari passo con sintetizzatori futuristici, due diverse lingue si intrecciano e raccontano storie che profumano di Giamaica. Ma sotto sotto, realizzi che l’attitudine e lo spirito del progetto parte da casa nostra e dal nostro modo di far musica. Sotto sotto, capisci che è tutto, interamente, “Made in Italy”.
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