Della Nuova Zelanda abbiamo apprezzato negli anni lo spirito assolutamente indipendente dei suoi gruppi rock. Ora venerate a livello di autentico culto etichette come Flying Nun o artisti del calibro di Dead C e Bailter Space (per un breve periodo fiore all’occhiello del catalogo Matador) hanno dato una scossa al retroterra Velvet Underground comune a molte formazioni occidentali.
Nulla ci aveva però preparati all’estro di una vocalist del calibro di Leila Adu, origini ghanesi e passaporto neo-zelandese, quasi un ossimoro sulla carta. Ragazza prodigio, già impiegata nella New Zealand Symphony Orchestra, la nostra ha incrociato una preparazione accademica con un’importante propensione all’indie più trasversale e a certa elettronica, palesando così uno stile personale, votato alla ricerca di una forma canzone atipica, in cui potessero convivere le sue molteplici influenze. Cresciute a dismisura negli anni, grazie al continuo girovagare attorno al mondo, con l’Europa presto eletta a nuova patria.
Il suo debutto discografico - Dig A Hole – risale al 2003, e già impressiona nella natia Nuova Zelanda come in Australia, conquistando subito un discreto air play. La sua voce è a detta della critica sinonimo di grande magnetismo. Cherry Pie del 2005 - prodotto da David Long (vincitore del Producer of the Year Award 2001 ed ingegnere del suono per Lord of the Rings) – insiste sulla falsa riga dell’esordio, con Leila circondata da uno stuolo di favolosi strumentisti locali. L’accento è sul suo piano percussivo e su una voce che esce prepotentemente allo scoperto.
Con Dark Joan del 2009 l’intento dichiarato è quello di riunire i suoi trascorsi jazz e la propensione alla ricerca in un formato pop elastico, in cui le canzoni assumano finalmente un ruolo predominante. Registrato preso l’Electrical Studio di Steve Albini, in quel di Chicago, il disco è pubblicato dall’inglese Frizz Records, marchio londinese emergente alle prese con una modernizzazione del verbo black music.
Dopo l’album in trio a firma Truth in The Abstract Blues (con la chitarra di Mike Cooper e la batteria di Fabrizio Spera) licenziato da Tracce/Rai Trade e l’esordio dal vivo con il monicker di Leila Adu & the Don’t al fianco di due autentiche leggende come il bassista John Edwards ed il batterista Steve Noble (Rip Rig & Panic), Leila pubblica il suo quarto album per Tracce/Rai Trade.
In Ode To The Unknown Factory Worker, riconoscerete i numerosi temi della tradizione nera americana, un recupero spontaneo per Leila Adu. Sintomatico della sua evoluzione, il disco fa dell’essenzialità un pregio. Accompagnata unicamente in quattro tracce dalla batteria di Daniele De Santis, Leila impone il suo carattere di innata performer, ponendo la sua malleabile ugola al servizio di brani dalle scarne impalcature, capaci di cogliere nel segno, con cura ed immediatezza. Tra le righe di un suono intimista si parla il linguaggio del pre-war blues, del folk e di un pop quanto mai sghembo ma assolutamente nobile. La capacità della Adu è nel conferire un fascino disarmante a brani apparentemente scarni come ‘Martian Raft’ e ‘A Moment Of Peace’, spostando l’immaginario popolare verso forme più elette.
Nulla ci aveva però preparati all’estro di una vocalist del calibro di Leila Adu, origini ghanesi e passaporto neo-zelandese, quasi un ossimoro sulla carta. Ragazza prodigio, già impiegata nella New Zealand Symphony Orchestra, la nostra ha incrociato una preparazione accademica con un’importante propensione all’indie più trasversale e a certa elettronica, palesando così uno stile personale, votato alla ricerca di una forma canzone atipica, in cui potessero convivere le sue molteplici influenze. Cresciute a dismisura negli anni, grazie al continuo girovagare attorno al mondo, con l’Europa presto eletta a nuova patria.
Il suo debutto discografico - Dig A Hole – risale al 2003, e già impressiona nella natia Nuova Zelanda come in Australia, conquistando subito un discreto air play. La sua voce è a detta della critica sinonimo di grande magnetismo. Cherry Pie del 2005 - prodotto da David Long (vincitore del Producer of the Year Award 2001 ed ingegnere del suono per Lord of the Rings) – insiste sulla falsa riga dell’esordio, con Leila circondata da uno stuolo di favolosi strumentisti locali. L’accento è sul suo piano percussivo e su una voce che esce prepotentemente allo scoperto.
Con Dark Joan del 2009 l’intento dichiarato è quello di riunire i suoi trascorsi jazz e la propensione alla ricerca in un formato pop elastico, in cui le canzoni assumano finalmente un ruolo predominante. Registrato preso l’Electrical Studio di Steve Albini, in quel di Chicago, il disco è pubblicato dall’inglese Frizz Records, marchio londinese emergente alle prese con una modernizzazione del verbo black music.
Dopo l’album in trio a firma Truth in The Abstract Blues (con la chitarra di Mike Cooper e la batteria di Fabrizio Spera) licenziato da Tracce/Rai Trade e l’esordio dal vivo con il monicker di Leila Adu & the Don’t al fianco di due autentiche leggende come il bassista John Edwards ed il batterista Steve Noble (Rip Rig & Panic), Leila pubblica il suo quarto album per Tracce/Rai Trade.
In Ode To The Unknown Factory Worker, riconoscerete i numerosi temi della tradizione nera americana, un recupero spontaneo per Leila Adu. Sintomatico della sua evoluzione, il disco fa dell’essenzialità un pregio. Accompagnata unicamente in quattro tracce dalla batteria di Daniele De Santis, Leila impone il suo carattere di innata performer, ponendo la sua malleabile ugola al servizio di brani dalle scarne impalcature, capaci di cogliere nel segno, con cura ed immediatezza. Tra le righe di un suono intimista si parla il linguaggio del pre-war blues, del folk e di un pop quanto mai sghembo ma assolutamente nobile. La capacità della Adu è nel conferire un fascino disarmante a brani apparentemente scarni come ‘Martian Raft’ e ‘A Moment Of Peace’, spostando l’immaginario popolare verso forme più elette.
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