20/12/13

SUNN O))) meets Ulver!




Il più recente album da studio dei SUNN O))) è quel Monoliths and Dimensions del 2009, mentre per gli Ulver è ancora fresca la traccia lasciata con l’orchestrale Messe I.X-VI.X,. Due lavori che hanno rivoluzionato in parte i progetti di queste inafferrabili entità post-metal. L’apertura decisa al mondo della musica contemporanea, ad orchestrazioni di ampio respiro e ad arrangiamenti acustici hanno fornito elementi e credenziali inedite nel loro fosco universo. Un senso di cameratismo che per i gruppi ha antichi natali, il loro primo incontro risale infatti alle session del 2003 di White1 – la traccia in questione è CutWOODED – composizione tributo al grande regista culto Ed Wood, che vedeva la complicità del gruppo scandinavo.

A dieci anni da quella grande epifania i due collettivi si ricongiungono, dando alle stampe per Southern Lord un disco dai toni apocalittici ed ancestrali come Terrestrials; tre lunghe composizioni che assumono tratti tipici da movimenti classici, liberando letteralmente la lava che scorre nelle profondità terrestri. Una visione cosmica e totalizzante, una cerimonia della terra e dei suoi più lugubri aspetti, una marcia imprevedibile nei meandri della nostra stessa natura.

Il disco, concepito presso gli studi di Oslo Crystal Canyon proprietà dello stesso gruppo norvegese, rispecchia le intenzioni di un approccio libero ed incondizionato. Si tratta letteralmente di tre improvvisazioni dal vivo. Il brano d’apertura è "Let There Be Light" che nasce letteralmente in punta di piedi, aprendo poi al cerimoniale chitarristico di O'Malley e O'Sullivan, terreno su cui si innestano le solenni intonazioni del vocalist Kristoffer Rygg. La musica si sviluppa poi in un suggestivo crescendo, in cui subentrano i fiati ed i bassi, dando il à alle sfuriate dello stesso Greg Anderson e dei restanti Ulver.  "Western Horn" ha forse un andamento più austero, una nota sostenuta di basso crea un generoso scenario in cui la ripetizione è l’unica chiave di volta. Violini piangenti, accordi di piano elettrico e stridori metallici completano la visione.

Con la chiusura di "Eternal Return”  Rygg introduce testi che evocano l’antica Grecia, l’Egitto e le terre bibliche. La canzone è palindroma, iniziando e concludendosi con la stessa linea di basso e testo citato. Terminate le session gli Ulver hanno provveduto ad ampliare le dinamiche delle stesse composizioni, senza mai perdere di vista le intenzioni dei propri sodali. Lo stesso O’Malley ritorna   in una notte di luna piena norvegese per scolpire ulteriormente i brani in fase di post-produzione, provvedendo ad illuminare in maniera definitiva il risultato finale. Una sessione che a detta dello stesso chitarrista ha rivelato le sue buone vibrazioni psichedeliche, aldilà dei volumi squassanti. Una collaborazione capace di esaltare entrambe le parti, riproponendo passioni insite per il minimalismo e la musica indiana, in un tracciato che dal Philip Glass di Koyaanisqatsi porta a Shivkumar Sharma.





Eazycon - Fear And Pleasure, Retrospective 1980-1989





La storia degli Eazycon comincia in un liceo artistico di Torino dove Carlo Musso (Carl Lee) e Frankie Partipilo, mossi dalla comune passione per la musica, decidono di unire le proprie forze dando vita a un progetto di voce-chitarra-sax votato alla libera sperimentazione. Gli anni Settanta sono ormai agli sgoccioli e gli ascolti prog e free jazz dei due ragazzi si contaminano e risentono delle influenze delle nuove sonorità wave che in quegli anni si stavano diffondendo. Il risultato è un'originale combinazione che difficilmente si presta a etichette e catalogazioni. Gli Eazycon concepiscono la loro ricerca musicale come espressione artistico-performativa, privilegiano l'aspetto live e lasciano di sé solo poche testimonianze, come il brano Haiti Blues – presente nella compilation del nuovo rock italiano "Gathered" (1982) – e l'LP "In The Tradition", del 1987. L'obiettivo di questa raccolta è riscoprire la musica del duo art-rock piemontese, portando alla luce demo e registrazioni rimaste ancora inedite, a distanza di oltre trent'anni.    

Gli Eazycon muovono i primi passi all'insegna di una wave convulsa e destrutturata che si ispira ai fermenti della no wave d'Oltreoceano. Nel corso della seconda metà degli Ottanta, però, le atmosfere dei loro brani diventano più rarefatte, i tempi si dilatano, le strutture si fanno più complesse e l'utilizzo di sitar e flauti evocano l'Oriente e rivelano influenze psichedeliche. La lingua di preferenza resta l'inglese: Carl Lee, voce e chitarra del duo, scandisce i suoi testi attingendo in egual misura all'immaginario surreale e nichilista di Dada e a quello occulto dell'esoterismo. Solo una caratteristica è immutata: la volontà di sperimentare nella continua ricerca di nuove forme espressive. Il sound degli Eazycon è in perenne evoluzione e si sviluppa come la trama dei loro brani, all'insegna dell'improvvisazione e dell'imprevedibilità.

La stessa imprevedibilità li porta anche a confrontarsi con cover di brani noti, dal country tradizionale di Wagon Wheels a Nonaah, manifesto della creative music di Roscoe Mitchell dell'Art Ensemble of Chicago. La musica che rifugge qualsiasi definizione e i brani, che si sviluppano su traiettorie inaspettate e sorprendentemente eclettiche, fanno dell'esperienza Eazycon una realtà da scoprire e riscoprire. Tutto e il contrario di tutto, musica e non-musica, tradizione e innovazione, opposti che si incontrano e coesistono, proprio come quella paura e quel piacere (Fear and Pleasure) da cui prende il nome questa raccolta retrospettiva.












Mark McGuire, chitarre cosmiche




C’è un momento in cui si è necessariamente destinati a crescere, pena l’isolamento forzato. E’ una delle questioni ‘secolari’ che da tempo immemore attraversa l’universo sfaccettato del pop contemporaneo, una questione che ha avuto i suoi buoni riflessi anche sulle vicende del rock alternativo, dell’elettronica e della musica sperimentale in genere. In questo senso il salto compiuto dal chitarrista americano Mark McGuire è multiplo, non privo di avversità. Già protagonista con il trio Emeralds – una delle più accreditate compagini responsabili della rinascita della cosiddetta musica cosmica – il nostro è passato dai traumatologici scenari del noise americano a quelli dell’elettronica krauta e più intimamente new age.

Chi ha assistito ad una delle loro numerose performance europee non può certo dimenticare la capacità del power trio di  muovere attraverso strutture arzigogolate, una stratificazione sonica che guardava tanto agli emissari Tangerine Dream quanto al guitar master Manuel Gottsching. Piani infiniti di suono, che hanno conosciuto la loro consacrazione con l’attento lavoro di marketing dell’austriaca Mego. ‘Along The Way’ è il frutto della collaborazione con la prestigiosa indie americana Dead Oceans, un lavoro eccitante che conferma le doti del solista – McGuire ha realizzato una pletora di dischi a suo stesso nome, compreso il logico pacchetto di tapes e cd-r – rendendo semmai la sua proposta più fluida ed ammiccante. Fuori a febbraio con il titolo di Along The Way, il disco è a tutti gli effetti un concept musicale spaziale. Che insegue le rotte degli stessi corrieri cosmici che di lì a poco avrebbero conquistato – in maniera del tutto inedita – il dancefloor.

Ma facciamo chiarezza, onde sottoscrivere banali associazioni. Il percorso di McGuire suggerisce alcuni paralleli con il Klaus Schulze solista (in particolare i lavori a nome Richard Wahnfried, che almeno in Italia avrebbero trovato grosso supporto da parte del dj/icona Daniele Baldelli) e con il leader degli Ash Ra Tempel Manuel Goettsching (si pensi al capolavoro indiscusso E2-E4, che avrebbe a suo modo stabilito le basi per la rivoluzione techno-house). A ben vedere anche lo Steve Hillage di inizio ’80 potrebbe fornire un buon indizio. Le giostre chitarristiche di McGuire sono quindi supportate da un battito regolare che testimonia la sua perentoria sensibilità alla musica da ballo. Non a caso il primo estratto dell’album – l’estesa jam Instinct – è stata remixata dal produttore norvegese Prins Thomas.   

Per lo stesso autore si tratta di una lunga odissea nelle vaste e sconosciute lande della mente. Una scoperta perpetua, il risvolto psicologico di un arte fondata sui principi della ripetizione ma anche della sperimentazione psicotropa. Un viaggio che Mark offre coscienziosamente ad ogni uomo e donna che ha saputo assaporare il soffio leggero del cuore.





Rebekka Karijord: Music for Film and Theatre




Se – come ha scritto Mojo magazine nella sua eccellente recensione del 2012  – ‘We Becone Ourselves’ di Rebecca Karijord era un album capace di costruire un proprio universo, la nuova collezione di brani della musicista di Stoccolma ci introduce – paradossalmente – ai mondi creati da terze persone. Titolato in maniera molto prammatica “Music For Film And Theatre”, il nuovo disco dell’artista si distingue per uno svolgimento in 15 tappe, in cui i brani strumentali la fanno da padrone. Si tratta di composizioni concepite dalla stessa Karijord nell’ultimo lustro e destinate ad un uso specifico: cinema, teatro e danza. Un’operazione ed uno studio complementare alla sua carriera solista. Un processo di ricerca costituito dalla ricerca di fonti naturali, nell’ottica di una sperimentazione che guarda oltre i confini della forma canzone.

Originaria di Sandnessjøen, poco più al sud del circolo artico nella Norvegia settentrionale, Rebecca si è trasferita in Svezia una decade or sono, dove ha composto musiche per oltre 30 pellicole, spettacoli di danza moderna e piece teatrali. E’ stata peraltro protagonista sul grande schermo ed in teatro con piccole parti dalla tenera età di 12 anni. La performance itinerante del Cirkus Cirkör a nome Wear It Like A Crown, è incentrata sul brano omonimo della Karijord, che ha curato tutte le musiche per lo spettacolo internazionale, che ha già completato il giro del mondo negli ultimi 4 anni, in 400 esibizioni che hanno totalizzato la bellezza di 200,000 partecipanti.

Da molto tempo l’idea di rendere ‘pubbliche’ queste sue composizioni balenava nella mente della compositrice. I tour e le recenti attività promozionali sino ad ora non le avevano consentito di scandagliare tra i suoi ricchi archivi, un momento strategico di pausa ha consentito così di allestire una collezione soddisfacente e capace di presentare i molteplici aspetti della sua arte. Chi ha saputo apprezzare Rebecca per la sua sofisticata attitudine pop, dovrà fare i conti con le sue enormi capacità di arrangiatrice e compositrice. Dalle aree classico-contemporanee al tocco quasi ambient di brani quali ‘Madrigal’, ‘Salhus’, ‘Migratory Birds’ e ‘Morula’, una qualità che può rifarsi all’arte del ‘discreto’ Brian Eno. Così come i cori angelici (la voce è davvero utilizzata come strumento) lasciano pensare ad alcune delle sacre intuizioni di Arvo Pärt. Il talento della Karijord è straordinario ed anche in questa occasione ne abbiamo riprova, con un antologico che si affaccia su orizzonti infiniti.








Tara Jane O'Neil si rilancia su Kranky




Un nuovo battesimo artistico per una delle figure cardine della scena di Louisville, KY, uno dei principali snodi di quello che comunemente viene inteso come post-rock. Tara Jane ONeil è stata il motore dei Rodan (il gruppo in cui si sarebbero formati anche membri di June of 44 e Shipping News) e poi la mente dei più gentili Sonora Pine. La sua carriera solista è stata costellata da piccoli successi underground, album autografi licenziati per il marchio di Chicago Quarter Stick (consociato a Touch & Go) e più recentemente da K Records.

‘Where Shine New Lights’ è la nuova fatica, pubblicata da Kranky ed in questo senso foriera di grandi novità. Un cambio strategico che coincide anche con una nuova direzione musicale. Ferma restando la predisposizione alla canzone d’autore, Tara si circonda di nuovi collaboratori che per molti versi portano alla luce la sua vena sperimentale. Il batterista Tim Barnes è forse l’elemento più in vista, avendo in passato collaborato con Sonic Youth, Tony Conrad, Text Of Light e Tower Recordings. Con lu anche la violinista Jean Cook (Dalek, Ida), il percussionista Corey Fogel (Evangelista, Gowns), la vocalist Anna Huff, il chitarrista Dan Littleton (già nella mitica punk band The Hated e successivamente collaboratore di Geoff Farina), Elizabeth Mitchell (Ida, voce), Ida Pearle (Ida, voce), Wilder Zoby (El-P, piano Rhodes).

L’idea stessa di una famiglia al suo servizio ha consentito a Tara di cercare vie più confidenziali, trasportando il suo fiero intimismo verso nuove vette artistiche. La forma canzone è così alterata, spesso sacrificata in favore di trame più minimaliste, spunti improvvisativi e squarci elettronici. Momenti di grande coralità in stereofonia si addensano come formazioni nuvolose, organi a pompa disegnano sinistri drone ed il risuonare di un gong è quasi un viatico ad una nuova dimensione. E’ musica che richiede una grande sensibilità: si parla anche di guarigione e di sopravvivenza. E’ stata sempre capace di stupire Tars Jane O’ Neil , appropriandosi di nuove forme e linguaggi, con questa nuova fatica compie un salto deciso verso orizzonti infiniti.