04/07/13

Craig Leon - Nommos






Pubblicato nel 1981 dalla Takoma di John Fahey, Nommos è un disco incredibile per le sue molteplici implicazioni. Potremmo prenderlo come l’esotico esperimento di un ingegnere del suono, o come un capitolo a sé stante nella storia dell’elettronica contemporanea. Fatto sta che Superior Viaduct ha messo a segno un altro colpo gobbo, rendendo nuovamente disponibile il vinile di questa opera angolare. Considerato che l’originale è irraggiungibile ed  anche le poche copie non ufficiali che si affacciano sul mercato costano un occhio della testa, il lavoro di recupero è oggi quanto meno benvenuto. Leon pubblicherà un secondo album altrettanto raro a suo nome e per l’olandese Plexus una collaborazione con l’erratico spirito freakadelico Arthur Brown (esatto, proprio quello del Crazy World Of…). Dicevamo della professione ufficiale di Leon, la sua tecnica dietro al banco di regia a disposizione di alcuni dei nomi capitali della wave, del pop e del post-punk newyorkese. Dai Ramones ai Blondie, passando per Richard Hell e Suicide, sono stati innumerevoli gli artisti che a lui si sono rivolti.

Nommos è però una fuga in termini, un disco di musica cosmica dal forte retaggio africano, un bagno nel minimalismo storico – la stessa discendenza di Terry Riley e La Monte Young – ed uno spettro sul futuro algido dell’elettronica dal piglio industriale. Altro dettaglio, il mago della musica dance italica Daniele Baldelli suonava il disco di in apertura di alcuni dei suoi più ispirati dj set. L’incedere ritmico di questo (capo)lavoro ha ancora un fascino astrale, forti anche le similitudini con certi Cluster e Faust, nello stravolgere la materia ritmica ed indirizzarla verso profondità inedite. Un pozzo di idee in altre parole, osannato dai blogger di mezzo mondo ed ora finalmente fuori dalla clandestinità. Prendetene a piene mani.





01/07/13

Jessy Lanza, modern dance in casa Hyperdub






L’album di debutto di  Jessy Lanza - Pull My Hair Back – scritto e co-prodotto con Jeremy Greenspan dei Junior Boys  è sin d’ora uno dei manifesti del più futuribile electro-pop, l’immagine credibile di un suono stringato, essenziale, che rivede l’essenza stessa del genere, sottoposto a nuovi impulsi genetici. C’è grazia ed erotismo senza mai scadere nel gratuito, un lavoro che sa essere glaciale e sensuale allo stesso tempo, una contrapposizione in termini che è proprio il succo di questa inedita avventura, anche  per la stessa Hyperdub. Un esperimento da laboratorio, nell’improbabile universo cyber, con appigli ad una cultura synth-pop che rivede l’estetica ottanta, proiettandola su più alte vette.

La voce di Jessy è fluttuante sopra i seducenti sintetizzatori, sa farsi anche insistente, senza però sfiorare la ripetitività di molte produzioni contemporanee. Il suo background parla chiaro, essendo una cantante ed una pianista con preparazione accademica. Il punto di coesione del duo è invece rintracciabile nell’istinto a collezionare vecchi hardware, drum machine e synth. La capacità di trascendere generi quali R&B, house, disco e pop-rock di stampo 80s è il fulcro su cui regge ‘Pull My Hair Back’, nel rispetto di quelle che furono proprio le prime uscite targate Junior Boys.

L’album si apre con le linee di basso simil acid-house di 'Giddy', mentre il singolo 'Kathy Lee', già presentato in anteprima da Pitchfork è una jam minimale illuminata da synth colorati e break temporali che dicono di un R&B in rotta di collisione con il dubstep. L’apice pop del disco è da individuarsi in  'Keep Moving', dove l’incedere del ritmo sposa le classiche movenze della disco, scivolando anche dalle parti di Detroit e Chicago in una reinvenzione della moderna dance culture. C’è poi l’iniezione di endorfine di  'Strange Emotion' che chiude con una nota lisergica la prima fatica sulla lunga distanza di questa efebica creatura.

'Pull My Hair Back' è agrodolce, soleggiato ma per nulla al riparo da tempeste climatiche. E’ lo specchio di una produzione che affianca le fredde macchine al più intuitivo spirito di Jessy, che eleva la sua vocalità sopra un tappeto di tastiere impressionistiche. E’ letale, ti prende sottopelle, rischi di non farne più a meno. Il disco è stato masterizzato da una vecchia volpe come Bob Weston (Shellac) presso il Chicago Mastering Service. Altro dettaglio formale che completa un quadro tecnico-esistenziale che odora di contemporaneità.