30/05/12

Il nuovo tribute album di Easy Star All Stars!



Sul sito di Easy Star All Stars un contest che vi peremettà di vincere dei simpatici premi. Basta indovinare quale sarà il disco che verrà integralmente coverizzato dalla reggae band americana nel prossimo album, dato in uscita per fine agosto. Da 'Ziggy Stardust' di David Bowie a 'Blod Sugar Sex Magik dei Red Hot Chili Peppers, un ventaglio di stimolanti idee ...Nel link tutti i dettagli.

28/05/12

Beak numero 2




Sembra non conoscere soste Geoff Barrow, solo quest’anno il doppio cd dei Quakers, il progetto Drokk e il tour europeo dei ritrovati Portishead. Dopo aver impressionato con l’omonimo debutto dei Beak ed il disco cugino ‘First Lady Of Invada’ accreditato però alla vocalist Anika,  Barrow si chiude in studio con i sodali Matt Williams e Billy Fuller per dare un seguito a quel disco unanimemente riconosciuto come l’anello mancante tra kraut-rock e suono Factory. Beak – pubblicato da Invada per l’Europa e licenziato negli States da Ipecac – scatenò un terremoto underground, con il gruppo presente nei cartelloni dei maggiori festival europei.

Il nuovo album >> (no, non è un errore di battitura) esce ancora sotto l’egida di Invada e non può che sfociare in un disco fortemente influenzato dall’attività live dei nostri. Che oggi un po’ per gioco ed un po’ per diletto ama definirsi una pub prog-rock band. Dop una serie di session non particolarmente felici, in un classico pomeriggio piovoso in quel di Bristol il gruppo ritrova la spinta degli esordi ed imbrocca la strada giusta, abbassando notevolmente il volume dei propri amplificatori e ricorrendo ancor più prepotentemente all’uso del sintetizzatore. Un disco registrato comunque rispettando il feeling live delle loro performance, ricorrendo solo occasionalmente agli overdubs. Un disco che riposiziona Beak tra gli alfieri di un’elettronica analogica e comunque sensibile alle vibrazioni del rock cosmico.

25/05/12

L'esordio solista di Stan Ridgway




Pubblicato originariamente nel 1986 da I.R.S., The Big Heat è la prima importante prova solista per l’ex leader dei  Wall Of Voodoo Stan Ridgway, una delle formazioni americane che più ha introiettato il mito della frontiera nell’universo del dopo-punk. Nato a
Barstow nel 1954, Stan è tuttora uno dei cantori più atipici della tradizione oltreoceano, un folklore noir il suo, signorile ad ogni buon conto. Con un titolo ispirato all’omonima pellicola del 1953 – diretta dal grande regista Fritz Lang – il disco ne ripercorre le analoghe storie, facendoci assaporare la tragedia di racconti a cavallo tra la vita e la morte. L’uso massiccio di sintetizzatori e drum machine proietta in un altro mondo la canzone classica di Stan Ridgway, in questo confronto la sua parabola artistica ne esce invero rafforzata, dando l’impressione di musicista capace di padroneggiare stili e mode temporanee.

Nel disco non mancano gli ospiti, a sorreggere questo romantico impianto troviamo infatti membri di formazioni storiche quali Gang of Four, The Screamers ed Oingo Boingo. Come se ciò non fosse abbastanza, spuntano anche sessionmen un tempo al servizio di Frank Zappa e Captain Beefheart.
Dal gusto morriconiano della title-track al cinico reportage post-Vietnam di ‘Camouflage’ , questo è un piccolo manifesto di quegli eighties morbosamente alternativi; Big Heat è ripubblicato da Water con l’aggiunta di ben 4 tracce extra. Stan rimane ad oggi un anti-eroe dell’universo musicale, per saggiarne l’ardore artistico potete partire proprio da qui.


Il controverso debutto major degli Swans




Pubblicato originariamente nel 1989, The Burning World rappresentò una sorta di spartiacque nella carriera del gruppo newyorkese. Dopo aver destabilizzato la cultura underground americana, con un approccio da molti sommariamente definito come ‘industrial-rock’, la band di Michael Gira vira verso un approccio più mediato, ridefinendo un’inedita forma canzone, compresa sicuramente di scrosci goth. Questo è stato il loro debutto per una major, il primo ed ultimo disco ad essere licenziato ad una multinazionale, circostanza anomala per un uomo che ha sempre preferito gestire autonomamente i propri affari.

La ristampa curata da Water – per un disco fuori commercio da tempo immemore – rende giustizia ad uno dei lavori a torto meno considerati della band. Prodotto da un’altra figura imponente della scena di New York – quel Bill Laswell che con i suoi Material e Massacre avrebbe cambiato radicalmente molte delle connessioni, tra dance, rock e avanguardia -  il disco presentava degli sviluppi inediti nella storia degli Swans. Disco crepuscolare, lirico, in cui i membri stabili della formazione – la vocalist Jarboe e il chitarrista Norman Westberg – sono affiancati da uno stuolo di musicisti imponente. Non mancano fraseggi etno-world e suggestioni decisamente terzomondiste in The Burning World, merito anche degli interventi di Nicky Skopelitis (baglama, bazouki), Shankar (doppio violino), Fred Frith (violino), Aiyb Dieng (percussioni) e Trilok Gurtu (tablas). Sorprendente poi l’oscura rivisitazione di ‘Can’t Find My Way Home’, brano a firma Steve Winwood e originariamente apparso nell’omonimo dei Blind Faith. Disco da recuperare assolutamente, un capitolo solo apparentemente inedito nella storia comunque epica degli Swans.


Praise the lord!




Precious Remedies Against Satan’s Devices, il secondo album dei  Welcome Wagon fa seguito al loro debutto del 2008 a titolo Welcome to the Welcome Wagon, disco che aveva messo d’accordo critica e pubblico grazie ai suoi arrangiamenti pastorali e ad una vena pop evangelica. Vito e Monique Aiuto sono due autentici devoti e la loro corsia preferenziale di dialogo con il Signore si materializza in una musica gentile,  discretamente passionale. 51 minuti di musica come un rituale chiesastico, sarà confortevole farsi carezzare da queste melodie solari speziate da folklore pop: potreste interpretare questa musica non solo come un rifugio spirituale, ma anche come uno stacco deciso dalla tentacolare città, perché l’aria che si respira è proprio quella di una provincia incontaminata.

Se il primo album è stato registrato nel corso di 8 anni in numerose location, questo suo successore è frutto di cinque intensi giorni di lavorazione nei pressi del rettorato di una vecchia libreria in quel di Brooklyn. Se Sufjan Stevens ha prodotto il loro debutto, la sua presenza è meno palese in questo ritorno discografico, limitandosi ad alcuni vocalizzi ed interventi al pianoforte e al banjo. Alexander Foote – che suona tra l’altro chitarre, organo, autoharp, percussioni e piano – è l’ingegnere del suono nominato. Tra le altre presenze di spicco la sensazione del web The Gregory Brothers, gruppo vocale che lascia una candida traccia su disco. Vito è un pastore presso la Resurrection Presbyterian Church di Williamsburg, Brooklyn. La sua scrittura è direttamente informata dai suoi sermoni. Del resto il buon pastore deve preoccuparsi delle sue genti, aiutare ad avvicinarli a Dio e a confrontarsi con le proprie gioie e dolori. 


Neo-classica da Monaco di Baviera




Carlos Cipa è un musicista/compositore residente a Monaco di Baviera. Attualmente è impegnato in studi di natura musicale, tanto che sta raffinando una tecnica naturalmente protesa alla composizione di colonne sonore. Il suo album di debutto per la tedesca Denovali – The Monarch And The Viceroy - non tradisce in questo caso le aspettative, avvicinandosi proprio alle dinamiche di certe pellicole contemporanee, magari in bianco e nero. Una musica adatta al grande schermo, con tutte le sollecitazioni del caso e l’afflato di un giovane pienamente calato nei panni del rigoroso regista musicale.

Un saggio strumentale che rappresenta un flusso di coscienza, immagini sovrapposte come in un quadro esistenziale. Impressionante l’attenzione per il dettaglio, in un contesto neo classico e cameristico che mantiene comunque forti aderenze con la scuola minimalista ed una certa fascinazione per ambient e post-rock. Musica composta al pianoforte, impressionante nella sua intensità. Il fatto stesso che queste piccole sinfonie siano orchestrate da un uomo solo ci fa riflettere sull’innato talento di Carlos. Non solo il piano come protagonista, altri strumenti a corda e sprazzi elettronici danno profondità all’intera sua produzione.

La sua passione risale alla più tenera età, già a 6 anni prende lezioni di piano, potendo contare sull’esperienza di numerosi e rinomati insegnanti. Quando all’età di 10 anni decide di abbandonare la formazione accademica si dedica alla batteria, aprendosi notevolmente al mondo della composizione quanto a quello dell’improvvisazione. Non mancano le esperienze in campi diversi, dall’hardcore punk al jazz, dalla musica orchestrale al più sofisticato indie. Nel 2011 è stato invitato a partecipare ad una compilation benefit i cui proventi erano destinati alla croce rossa internazionale. La doppia raccolta comprendeva 36 artisti tra cui Nils Frahm, Olafur Arnalds e Peter Broderick, spiriti affini che ci dicono qualcosa di più sul profilo artistico.  The Monarch And The Viceroy è un disco che si avvicina tanto all’estetica del catalogo ECM – pensiamo all’istituzione The Koln Concert di Keith Jarrett – quanto alla sensibilità di un gruppo come Rachel’s.



24/05/12

African Griot Groove




Baba è un’antica parola d’origine turca - spesso presente nell’onomastica del mondo arabo-musulmano - che significa padre, ed è usata come titolo di onore e rispetto per le persone venerate. Nomen omen dicevano i nostri avi: Il nome è un presagio, che svela il destino. Difficile d’altronde immaginare una persona più naturalmente paterna, accogliente e protettiva di questo straordinario signore africano. Musicista conosciuto e apprezzato in tutto il mondo, Baba Sissoko ha scelto tuttavia la Calabria come residenza adottiva; da allora - 1998 circa - con sapida ironia e malcelato orgoglio, ama definirsi un autentico afro-calabrese.

Già al fianco di Youssou N'Dour, Oumou Sangare, Buena Vista Social Club e Art Ensemble Of Chicago, comincia a suonare il tamburo parlante tamani da bambino, accompagnando nei villaggi rurali suo nonno, per più di quarant’anni capo dei griot del Mali. Già, l’altra parola chiave di questa incredibile storia è proprio griot, l’antica casta dei cantastorie mandingo: biblioteca vivente, guardiano della memoria collettiva, radio e televisione ante-litteram. Il disco che avete tra le mani è la quintessenza di quel retaggio culturale: dalla perpetuazione della tradizione orale, dunque, all’utilizzo dell’antico idioma blues; una musica dalla struttura ripetitiva e ipnotica, propria del Mali, che da quelle parti chiamano Amandran. «Ça c’est pas de blues, c’est pas de jazz… Il s’appel Amadran» canta fiero Baba nel talking blues Dounya. Secondo alcuni storici e ricercatori, d’altronde, l’Amadran, “trasportato al di là dell’oceano in seguito alla tragica e forzata emigrazione degli schiavi dall’Africa, ha dato vita al blues, con il quale in effetti ha più di un’assonanza in comune.”
 
“African Griot Groove” è dunque excursus virtuoso e appassionato alle radici di un linguaggio secolare che da sempre dialoga senza paura e pregiudizi con l’altro da sé. Un viaggio acustico, rigoroso, per certi versi radicale, che possiede la capacità d’arrivare dritto al cuore di chi ascolta. Forte di una capacità espressiva con pochi eguali e di una sincerità assoluta. In fondo, l’essenza stessa di Baba: uomo, artista, padre.    

Mauro Zanda

La fenomenale seconda opera della Peacock




‘I’m the one’, che è un po’ come dire non esiste alcun diritto di replica. Se la protagonista è Annette Peacock – con il suo album dato alle stampe nel 1972 – state pur certi che il senso più intimo di questa dichiarazione non può certo essere smentito. Light In The Attic ha pensato bene di dare ampio risalto a quest’opera, che la stessa Peacock aveva ripubblicato in tiratura limitatissima attraverso la sua Ironic nel 2010. I capolavori non rimangono a lungo nel cassetto, tanto più se conservano a distanza di decenni quella straordinaria freschezza ed originalità che li aveva resi tali.

La Peacock ha sempre vissuto ai margini del music business (nonostante sia amatissima da una figura imponente come David Bowie), ma nonostante ciò ha saputo inserirsi tra avanguardia e pop grazie ad una personalità pazzesca. Compagna del celeberrimo bassista Gary Peacock (ora in azione con Keith Jarrett ma un tempo parte della sezione ritmica ‘spirituale’ di Albert Ayler) la nostra ha spesso composto per il pianista Paul Bley (suo primo marito), una delle figure più in vista di tutto l’universo jazz. La RCA Victor pubblicava il disco nel 1972 – tra gli illustri compagni di etichetta ricordiamo lo stesso duca bianco e Lou Reed – raccogliendo immediatamente un successo a furor di popolo.

Oltre al Paul Bley, nel disco troviamo due percussionisti sudamericani straordinari: Airto Moreira (lo stesso uomo capace di speziare il jazz elettrico di Miles) e Dom Um Romao. Dai brani originali ad un’unica e sconvolgente cover di Love Me Tender (Elvis Presley), il disco pulsa tra blues-funk, ballate appassionate e frequenti accompagnamenti elettronici (il Moog, di cui la nostra faceva un uso scientifico). Disco anni  luce avanti che rappresenta la seconda installazione nel catalogo di Future Days, marchio parallelo dell’etichetta di Seattle. Remastering dai nastri originali, estese note di accompagnamento a cura di Mikey ‘IQ’ Jones, sensuali ed inedite foto d’archivio e vinile 180 grammi limitato a soli 1000 esemplari. Ci sono tutti i crismi per riaccogliere trionfalmente questo classico.



L'anima dei Fresh & Onlys in solo




Il precedente Ep di Wymond Miles - Earth Has Doors per la label newyorkese Sacred Bones – oltre a rappresentare il suo debutto in solo poneva in essere una serie di concetti intangibili; in tutto questo la sua musica si insinuava in maniera misteriosa, come una sotterranea e sublime corrente oceanica. Testi e suoni che facevano girare la testa, seppur relegati ad uno scenario intimo. Il chitarrista dei californiani Fresh & Onlys – una delle migliori formazioni del più oscuro e psicotico rock’n’roll americano di adesso – si è posto con questo suo album di debutto un unico fine: render la sua musica il più carnale possibile. Un’arma in pratica, che potesse scuotere la mente ed infierire sul corpo. ‘Under the Pale Moon’ è frutto di una scrittura essenziale, il disco ha preso forma lo scorso inverno, in un periodo particolarmente ispirato per il musicista. Canzoni brevi con arrangiamenti ridotti all’osso, la finalità era del resto quella di mantenere un approccio crudo, seguendo strutture basilari.

Un’atmosfera tetra quella che si respira tra le righe di ‘Under The Pale Moon’, non fosse altro per alcuni avvenimenti che avrebbero segnato la vita stessa di Wymond. L’assassinio di uno dei suoi più cari amici e la perdita di alcuni membri della propria famiglia avrebbero in qualche maniera indirizzato il songwriting del disco. Senza alcuna possibilità di riflettere sui tragici accadimenti , il nostro si imbarca in un tour europeo coi Fresh & Onlys, oltre due mesi in un apparente stato di shock. Un gran bel coraggio! La perdita si trasforma in un fuoco purificatore che permette a Wymond di liberare la sua passione, in un testamento apolitico in cui si parla di desiderio ma anche di dissenso. Una rivoluzione interna che lo spingerà a confrontarsi col suo più profondo e disperato io. Senza dichiararle apertamente, alcune delle influenze sono comunque leggibili. Echi di Go-Betweens, Echo & the Bunnymen, Nick Cave, Nikki Sudden e The Cure sembrano palesi in questo lavoro, in cui romanticismo e mestizia pop sembrano andare per la maggiore. Una dipartita dallo stile apparentemente più intenso dei Fresh & Onlys, una ricostruzione drammatica di uno squarcio di vita vissuta.



Nuovo power trio per Neurot



Gli Ides Of Gemini sono una collisione di forze musicali cementate dalla spettrale ed inimitabile voce della bassista/cantante Sera Timms, già nota per essere una delle oscure figure dietro al gruppo di Los Angeles Black Math Horseman. Le composizioni sono frutto del lavoro certosino del veterano J. Bennett (chitarra e backing vocals), giornalista cinematografico molto quotato per i  trascorsi sulle colonne di Decibel, Terrorizer, Revolver, Alternative Press e Thrasher. Il terzo elemento a chiudere il triangolo è quello di Kelly Johnston, il cui approccio marziale dietro ai tamburi ha permesso alla band di compattarsi immediatamente.
Dopo aver pubblicato l’Ep autoprodotto The Disruption Writ nel 2010, il gruppo è entrato quasi immediatamente nelle grazie dei cultori del più psicotico rock californiano. Circostanza che ha ben presto spinto Neurot a metterli sotto contratto. La musica del trio è stata in maniera inequivocabile etichettata come “dream doom”, circostanza che in qualche misura ci permette di focalizzare il mostro a tre teste che andiamo ad affrontare.
Il loro debutto lungo Constantinople sarà fuori a fine maggio e rappresenterà un bello scossone nell’economia di tutto il post-metal. I riff scolpiti del chitarrista J. Bennett precipitano il disco in un atmosfera tesa, dove si staglia la voce di Sera Timms, capace di rievocare incubi ancestrali. E l’uso degli spazi a sorprendere e a rendere questa loro avventura davvero particolare negli usi di uno stile spesso inflessibile. Musiche dalla cripta  in una nuova fagocitante ricostruzione. Prodotto dal gruppo stesso con l’aiuto di Chris Rakestraw (Danzig, Skeletonwitch)  dietro al banco regia e masterizzato dal guru James Plotkin (Khanate) il disco si preannuncia come una rivoluzione nell‘universo della musica estrema.

21/05/12

Laurel Halo per Hyperdub




A partire da ‘King Felix’ del 2010 e passando attraverso le tessiture di ‘Hour Logic’ dello scorso anno, Laurel Halo ha sviluppato un’idea estremamente personale di musica elettronica, rendendo ancor più labile il confine tra ambient, pop, psichedelia sintetica, dub e finanche techno. Cresciuta nel Midwest la nostra ha sempre avuto un approccio estremamente trasversale alla composizione, intendendo le sue performance e le sue creazioni come luogo di transito per il corpo e la mente, nella ricerca di un’ esperienza extrasensoriale multipla.

‘Quarantine’, il suo disco di debutto per Hyperdub, è il suo lavoro più focalizzato. Potendo contare su una sintesi tra beat elettronici e pop astratto, andando proprio a rivedere le coordinate di quella corrente un tempo nota come intelligent dance music. Ma ogni etichetta sembra andare stretta alla musicista, che attraverso un autentico flusso di coscienza sembra quasi rievocare la complessa poesia di una Laurie Anderson o gli eterni patimenti di un Arthur Russell. Pietre di paragone importanti per un lavoro che non riesce certo ad essere catalogato sommariamente. In parole povere è il disco più sperimentale mai concepito al quartier generale della label inglese.

‘Quarantine’ grazie a melodie epidermiche si insinua sottopelle, rifocillando ricordi ancestrali e memorie futuribili, come in un Blade Runner della generazione down beat. 12 canzoni, che – per quanto imprendibili – rispettano comunque il credo di un senso armonico. La sua espressività vocale le consente certo di fuggire i luoghi comuni della melodia occidentale, puntando ad un’ebbrezza lisergica a dir poco contagiosa. Una musica che pur partendo da elementi noti, strappa con decisione  il lasciapassare per l’originalità. Una delle sicure protagoniste di questo 2012.


                                    



 

Space is the place



Egisto Sopor – il nome è in parte ispirato ad Egisto Macchi, storico compositore italiano già parte del Gruppo D’Improvvisazione Nuova Consonanza – è uno dei segreti meglio riposti nell’underground romano, in pratica uno dei nomi più spendibili nell’iconografia elettronica contemporanea. Le recenti uscite che ne hanno contraddistinto la lenta ed inesorabile ascesa, parlano di un artista multiforme, capace di plasmare forme originali strizzando l’occhio tanto alla leftfield dance quanto alla musica più colta. Un cdr album per l’etichetta di Legowelt Strange Life Records ed una cassetta per il marchio californiano 100% Silk – consociata della celebre Not Not Fun – hanno spianato la strada al monicker  Polysick. In realtà come The Away Team il misterioso Egisto Sopor si era già ricavato una posizione di tutto rispetto con il DVD 'Relax & Sleep' ed un cd  - Star Kinship – pubblicato dalla giapponese Moamoo. Come AAVV è poi parte di una video label che già si è conquistata i favori di testate ufficiali come The Wire.

'Digital Native' per la Planet Mu di Mike Pradinas è il suo vero e proprio album ufficiale come Polysick, 15 tracce dal profondo feeling notturno costruite con grazia seguendo una metodologia rigorosamente analogica. Aldilà dei palesi rifermenti alla cultura techno ed alla primigenia acid house, la musica del nostro sorpassa a destra i luoghi comuni sulla moderna musica da ballo, puntando ad una visione più futuribile e per certi versi d’avanguardia.

‘Quando compongo ho sempre una parte visiva in mente. In questo caso molti dei pezzi sono stati influenzati da misteriose visioni notturne e tribali, come nel caso di 'Preda'. Cerco di far convivere un senso di mistero e pericolo utilizzando flauti e timpani e ricostruendo un scenario da giungla, rappresentando la fuga attraverso la notte oscura, in mezzo agli alberi, come in una delle più ricorrenti figure del cinema splatter anni ‘80’. L’approccio di Polysick non può certo prescindere da influenze esotiche, appoggiandosi anche alle pulsioni dell’ Italo disco e della Detroit house. Ma in questa sua continua ricerca timbrica trovano spazio anche le musiche possibili di Jon Hassell e le infinite librerie di suono di Piero Umiliani, un maestro letteralmente venerato da Egisto Sopor. Una musica spettrale che si concede ai piaceri del corpo e della mente, una terapia che invita a liberarsi in spazi immaginifici. Un viaggio di grande intensità, sorretto da pulsioni mai robotiche.




18/05/12

Soul garage UK style




Quando Fay Hallam ha suonato dal vivo al Blow Up ed è stata introdotta a Mr Nasser Bouzida AKA The Bongolian – responsabile dell’omonima etichetta -  una scintilla, letteralmente, ha permesso ai due di entrare immediatamente in sintonia, dando il là a ‘Lost in Sound’.

Dividendo una comune passione per il beat ed il soul degli anni ’60, quello contraddistinto dal deciso suono delll’ Hammond, i due hanno potuto dialogare anche su altri amori primordiali come la Bossa Nova, i solidi  rare grooves dei ’70 e l’onnipresente – almeno a queste latitudini - Northern Soul. Nei mesi in cui la coppia ha lavorato all’album, il processo compositivo è stato estremamente fluido, con le canzoni della Fay arrangiate in rapida successione da Nasser. Per gli strumenti la scelta si è ovviamente focalizzata sul vintage, in campo vecchi piani elettrici come il Rhodes, il Wurlitzer e l’immancabile Hammond C3. Per dare maggior profondità a questo cocktail di per sé inebriante, di vaglia l’utilizzo di qualche synth per un raffinato tocco cinematico. Il disco è stato completato a Londra da Miles Clarke, già ingegnere del suono per il mito The Who / Pete Townsend.
Originaria di Wolverhampton, Fay Hallam è da sempre  un’esponente fervida del sixties sound. Ha suonato con Makin' Time (formazione in cui ha militato Martin Blunt dei Charlatans), The Prime Movers, Phaze e The Fay Hallam Trinity. Ha poi collaborato con altri veterani quali Billy Childish, Graham Day ed Alan Crockford. Negli ultimi 17 anni è stata una presenza costante nel Medway, assicurandosi uno status di culto nel resto del Regno Unito, grazie a numerose uscite live.
Nasser Bouzida ha registrato sotto il monicker di Big Boss Man e The Bongolian, polistrumentista ossessionato dal collezionismo vintage, sa cimentarsi con egual trasporto alla batteria, alle percussioni, alla chitarra e alle tastiere. La sua musica si è fatta largo anche nell’ambito pubblicitario, trovando sempre l’appoggio dei più lungimiranti dj. Una collaborazione di quelle memorabili, che presto vi condurranno nel vortice del suono.

17/05/12

The legacy of the tallest man on Earth



 
Un piccolo miracolo è quello che si compie con ‘There’s No Leaving Now’ il ritorno in scena del cantastorie svedese Kristian Matsson, ai più noto con il nome d’arte di The Tallest Man On Earth. Una placida realtà è quella che ci sfiora nel suo terzo album da studio, pubblicato con tutte le attenzioni del caso da Dead Oceans, che non ha mai smesso di supportare questo talento classe ’83. Continua a muoversi con destrezza tra chitarra, banjo e pianoforte, confortando la sua vena pop con elementi di sacrale classicità.

Compositore in proprio che preferisce ai suntuosi arrangiamenti un approccio di gran lunga intimista, il nostro ha sempre usato la lingua inglese come veicolo delle sue storie. Al 2006 risale il suo debutto, a distanza di oltre un lustro è uno dei nomi più considerati di tutta la filosofia folk-pop. Di lui cattura l’entusiasmo, la schiettezza. Canzoni come bozzetti, una condizione privata che entra nella nostra quotidianità in punta di piedi.

La figura più vicina a Kristian sembra essere quella del giovane Dylan, l’abilità compositiva dei due è infatti paragonabile. The Tallest Man on Earth è noto anche per la sua presenza scenica, un magnetismo che unitamente alla sua voce ne hanno fatto figura carismatica nell’universo indie. Dopo aver aperto i concerti di altre anime affini come John Vanderslice e Bon Iver, il cantautore svedese è pronto a raccogliere con There’s No Leaving Now quanto di buono seminato ad oggi. Dettagliato pur nella sua estetica asciutta il nuovo disco si illumina in torch-song dall’intensità unica, dalla title-track a Revelation Blues, passando per la conclusiva On Every Page, una sorta di flamenco occidentale che dice dell’estrema caparbietà del nostro, nello scrivere canzoni che vanno a scolpirsi nella memoria collettiva. In autunno lo vedremo nel nostro paese, sarà un’esperienza.

La voce dei Black Crowes in salsa roots-psych





Nel 2011, dopo oltre 20 anni di intensa attività sia live che in studio, Chris Robinson, leader carismatico e voce dei Black Crowes, decide di dare una sterzata alla sua carriera artistica. Con il gruppo madre in pausa indeterminata, il nostro sembra liberarsi di qualsiasi assillo discografico, tornando ad approcciare la musica come una vera e propria arte in divenire. Confrontandoci con il suo debutto solista Big Moon Ritual – cui seguirà un album fratello in settembre a titolo The Magic Door – abbiamo la sensazione che la libertà è salita in cattedra. Come del resto già provato dal fratello minore Rich, il southern sound dei Black Crowes è parzialmente accantonato in favore di una vena più originale e sentita. Che l’universo sterminato del rock acido americano sia oggi ad un passo è un dato di fatto. Sin dalla bellissima copertina siamo proiettati su un qualche parallelo pianeta psichedelico.

C’è poi quell’amore mai nascosto per la musica soul che unitamente a certi ricami boogie offre un quadro ancor più affascinante della situazione. La nuova ragione sociale – legandosi fortemente al concetto di spiritualità – è proprio Chris Robinson Brotherhood, come a sottolineare l’operatività di un collettivo. Quello che era partito come un esperimento senza aspettative, presto si è rivelato un oliato meccanismo live, con ben 118 date nelle maggiori città statunitensi. Ad accompagnare Robinson troviamo musicisti non meno stagionati.

Neal Casal alla chitarra è forse l’elemento di maggior spicco, potendo contare su una lunga carriera solista oltre che sulla militanza nei Cardinals, formazione che accompagnava Ryan Adams. Adam MacDougall – anche lui dalla navicella madre Black Crowes - alle tastiere si ricava un ruolo sorprendente, tanto che i suoi ispirati giochi elettrici aprono qualche malcelata porta della percezione. George Sluppick (batteria) e Mark Dutton (basso, ex-Burning Tree) aggiungono una grande dose di esperienza ancorando definitivamente il suono della band. Un disco che si perde nei panorami sterminati che furono della Big Brother & the Holding Company o dei Grateful Dead, rilanciando un grandissimo autore. Provare per credere.

15/05/12

Guitar addicted!



Chitarre come motori di jet supersonici, chitarre così stratificate da ricordare un qualche distorto dispositivo elettronico. Se è ancora lecito parlare di white noise A Place To Bury Strangers si candidano a rappresentanti di un’intera categoria. Sembravano un miraggio i Sonic Youth di Confusion Is Sex, eppure se pensiamo ad una rivisitazione di quel suono così marziale non dobbiamo cambiare distretto…Sempre dalla Big Apple muove il fenomeno sotterraneo più urgente di questi anni zero. Con in testa lo scienziato dei pedali Oliver Ackermann – la cui Death By Audio ha prodotto effetti per i più rinomati anti guitar-hero dei nostri tempi – il gruppo non intende certo arrestarsi dopo aver pubblicato un Ep ad inizio stagione sempre per Dead Oceans.

Con Worship l’affare si fa maledettamente serio tanto che tra le pieghe di questo rovinoso gioco si affacciano schermaglie krautrock, tracce dream-pop e qualche scampolo gotico, del resto mai estraneo alla filosofia del gruppo. Dissonanti, feroci eppure capaci di cooptare una nuova sensibilità melodica. Un wall of sound che porta il diritto d’autore,  sfiorando la cold wave in You Are The One - con Ackerman che sembra fare minacciosamente il verso a Damo Suzuki – o addirittura i più mistificatori Cure in Dissolved. Scelte ambiziose, ad ogni giro.

Registrato e mixato in proprio il disco offre la visione più onesta del gruppo, senza alcun filtro esterno. Non stiamo cercando di reinventarci, semplicemente proviamo ad oltrepassare i confini e gli aspetti più noti del nostro stile. Un’esemplificazione di come la calvinista spinta do it yourself sia ancora effettiva. Pump up the volume!

Welcome to the playland



In assoluto tra i più grandi esponenti del post-punk americano – fate pubblica ammenda se non avete mai ascoltato ‘Academy Fight Song’ o ‘That’s When I Reach For My Revolver’ – i Mission Of Burma sono da qualche anno ritornati prepotentemente sulle scene, licenziando una serie di lavori che ne hanno decretato lo status di virtuosi nel mondo del pop rumoroso. Con  'Unsound' cambiano label ma non sostanza, dopo la fruttuosa partnership con Matador è oggi l’inglese Fire a curarne gli interessi. E luglio sarà un mese ancor più arroventato con un disco di queste proporzioni nell’autoradio, una di quelle bombe a orologeria destinate a cambiare in meglio la vostra stagione.

Confermati Roger Miller (chitarra e voce), Clint Conley (basso e voce) e Peter Prescott (batteria e voce), i tre bostoniani si dividono equamente i compiti come interpreti ed autori. Il quarto uomo è un abitudinario: Bob Weston degli Shellac, produttore esecutivo ed addetto ai tape loops. E’ forse l’album che non ti aspettavi ‘Unsound’, messa da parte ogni intenzione riflessiva i Mission Of Burma vengono fuori alla distanza con uno dei loro album più duri e cervellotici.

L’intensità in prima fila, sorretta da stacchi sincopati e geometrie spesso impossibili, confortando anche i cultori del rock matematico che in loro individuavamo una lontana discendenza. E’ il quinto studio album e a 10 anni da quella clamorosa reunion, sembra che il tempo si sia come per magia arrestato. Brani come Dust Devil e Add In Unison sono simbolici del nuovo corso, materia grigia al servizio dei muscoli, in una presa coscienziosa ma elettrizzante di tutto il substrato dopo-punk. C’è praticamente di tutto in questi solchi, oltre 30 anni di underground a stelle e strisce, dal noise al college-rock passando per il math. L’attualità di un gruppo capace ancora di sferragliare senza sosta sulle strade più accidentate della musica alternativa, lunga vita ai Mission Of Burma!

New Day Rising



Celebration Rock è l’atteso ritorno in scena dei Japandroids e fa seguito all’esaltante debutto del 2009 a titolo Post-Nothing. Il disco è frutto di intense session presso lo studio The Hive, coadiuvate dall’ingegnere del suono Jesse Gander, già a lavoro con il duo al momento dell’esordio. Nelle parole dello stesso chitarrista il gruppo ha cercato di simulare il suono del pubblico, che agitatissimo sfilava ai loro concerti. Assieme al batterista Dave Prowse si urla come se trascinati in mezzo alla folla, entusiasti di assistere ad un hardcore show. E la sensazione è proprio quella, il gruppo di Vancouver è intenzionato con la sua musica a far rivivere l’epoca d’oro del genere, guardando anche a chi ha provveduto a rinnovarne dalle fondamenta l’estetica: gli Husker Du.

La vena melodica, supportata da un intransigente muro di chitarre, ha reso così popolare il gruppo negli ultimi 3 anni da spianare l’uscita di questo nuovo disco per Polyvinyl. Celebration Rock è forse un titolo che ammicca – ironicamente – agli eroi da stadio, ma non c’è nulla nella musica dei due che possa far pensare a qualche malizioso abboccamento FM. Dall’eccellente singolo ascoltato in anteprima nel 2010 - Younger Us -  ad una deragliante cover dei Gun Club – For The Love Of Ivy – l’album mette in fila altri sei originali che non intendo abbassare la soglia d’attenzione, puntando tutto sul dualismo pop core, loro marchio di fabbrica sin dai primissimi vagiti. Un album, Celebration Rock, che rappresenta l’essenza stessa del gruppo, tra sangue e lacrime.