29/08/11

Drugstore - Anatomy (Rocket Girl)

Isabel Monteiro ha una storia importante alle spalle, costruita su una passione univoca, costellata però da scelte dolorose e momenti di autentica redenzione. Così la musica dei suoi Drugstore, sempre in bilico tra rilascio emotivo ed un intimismo dai tratti chiaroscurali. Una delle più grandi speranze del rock inglese di fine novanta, ad un passo da quel balzo mainstream che ne avrebbe magari condizionato gli stessi contenuti artistici. Quando aprirono i concerti del compianto Jeff Buckley, quest’ultimo li prese talmente a cuore da coverizzare il loro singolo di debutto, Alive. A posteriori molto più di una mera soddisfazione.
Per non dire dei live con gli allora compagni di scuderia Radiohead, e della collaborazione a due tra Isabel e Thom Yorke con un singolo che entrò di diritto nella top 20 della classifica inglese. Assimilabile per certi versi allo slo-core di Red House Painters e Low, la loro musica ha sempre contemplato l’ardire dei grandi cantautori, in primis Leonard Cohen con le sue storie a volte lugubri. Nel 2002 si chiude la prima fase della loro carriera, con un contestuale scioglimento.
Come spesso è accaduto ai grandi pionieri del rock alternativo la musica ha sempre rappresentato l’unico punto d’approdo, fuori da ogni logica commerciale. Ecco perché la loro reunion del 2009 è un evento che scaturisce in grande naturalezza, senza programmi di conquista alle spalle. Una sola apparizione, per puro divertimento. Accade però che lo show al Dingwalls di Londra vada sold out in pochissimi istanti. Ed è stato proprio questo l’input che ha portato Isabel nel 2010 a lavorare all’album Anatomy. Con una chitarra gentilmente concessa da un fan di vecchia data.
Un disco questo che ci riconcilia con l’aspetto più romantico e sofferto della band, ancora capace di ballare alle soglie del crepuscolo, con un stile noir che sembra attingere da eroi moderni quali Tom Waits. Nick Cave o la stessa Pj Harvey. Un disco fatto di sentimenti autentici, una carezza suadente, elettrificata. I Drugstore sono una personalità unica ed aliena al mondo dell’isterismo indie, una di quelle rarità sulle quali è impossibile soprassedere.




09/08/11

Il metal-core di APMD per Southern Lord


Non prendono certo prigionieri All Pigs Must Die, sorta di accademia del più furente metal-core contemporaneo. Parla chiaro il curriculum dei cospiratori con a bordo l’ugola infuocata di Kevin Baker (the Hope Conspiracy) e la batteria al fulmicotone di Ben Koller (Converge). A chiudere il quartetto Adam Wentworth e Matt Woods (Bloodhorse).

Con un nome che lascia davvero poco adito ad interpretazioni di sorta, i nostri traducono in musica il loro letale assalto lirico, venendo fuori con un ibrido senza compromessi. Una corsa al massacro ed uno spettacolo che dal vivo che prevede qualche ossa fratturata di troppo nel circle pit.
Ispirati sulla carta da Cro-Mags, Discharge, Entombed e Celtic Frost, gli APMD non mettono certo da parte trovate originali, potendo anche contare sulla puntuale produzione di Kurt Ballou (chitarrista dei Converge già dietro al mixer per Black Breath, Nails, Trap Them, Disfear etc..)
Gli otto brani del disco confermano Southern Lord tra le tenutarie del verbo, proiettando la formazione ai vertici di un violentissimo crossover. Con il lavoro grafico dell’artista tedesco Florian Bertmer, si completa la spinta nichilista del progetto, che traduce in otto bollente tracce visioni apocalittiche quanto mai fedeli alla realtà

La nuova via al black metal americano


Potete chiamarlo black-metal ecologista, se proprio apprezzate i risvolti di un’etichetta
così originale, detto ciò non potete certo negare ai Wolves In The Throne Room una completa immersione non solo negli scenari naturalisti, ma anche una militanza nelle lotte a sostegno di un ecosistema ‘incontaminato’. L’idea di fondare il gruppo fu proprio del chitarrista/cantante Nathan Weaver, illuminato proprio al termine di un meeting dell’associazione Earth First! Due anni più tardi, nella primavera del 2004, assieme al fratello batterista Aaron prende vita la prima incarnazione dei lupi, all’interno di una vecchia fattoria ai confini di Olympia, stato di Washington.

Sempre al centro di una visione più articolata rispetto all’unidimensionalità ed alle consuetudini di certo metal, la band conserva tutte le credenziali delle anarco-punk band britanniche (nello stile di vita non è difficile scorgere parallelismi coi Crass) formulando un assalto sonoro fedele alla scena black nord-europea, pur introducendo elementi esoterici ed una propensione strumentale che tenesse conto del più apocalittico hardcore.

Celestial Lineage chiude una trilogia inaugurata con Two Hunters. Il disco è stato scritto e registrato nel corso dei primi 6 mesi del 2011. in cabina di regia Randall Dunn (Earth, Boris, SUNN 0))), Bjork/Omar Souleyman), da sempre a fianco della band. Un disco che prevede un arricchimento formale con ben 3 brani cantati dalla vocalist Jessika Kenney, che infonde un tono liturgico alle composizioni stesse. L’altro cameo pesante è quello di Aaron Turner (ISIS) con una forma poetica assai sinistra.

Continua anche la ricerca estetica della band che si è rivolta ai servigi del fotografo Ali Scarpulla, responsabile di alcuni ritratti mozzafiato delle montagne attorno al quartier generale di Olympia, nel rispetto delle ortodosse tecniche analogiche care al gruppo

Sempre avversi alle regole commerciali i Wolves si imbarcheranno presto in un tour internazionale, con il loro impianto al seguito, pur di evitare la classica trafila del circuito club. Anche questa una scelta che esula dalle consuete dinamiche di gruppi del loro rango.

I nuovi Locust su Ipecac: Retox!


Proprio San Diego è stato l’epicentro del cosiddetto caothic hardcore nella prima parte degli anni ’90. Portando alle estreme conseguenze gli insegnamenti del più spregiudicato e spigoloso fast punk degli anni ’80, nella città californiana si è creato un terreno fertile per alcune delle contaminazioni più mozzafiato del circuito estremo. Con etichette come la Gravity (casa di Heroin, Antioch Arrow e numerosi altri) si è sviluppato un fitto sottobosco di artisti votati al gioco della folle velocità.
I Retox sono una logica conseguenza di quanto accaduto negli anni, con i loro membri fondatori giovanissimi seguaci delle icone locali. Il quartetto – pronto ad esordire per Ipecac in una co-produzione con l’emerita Three One G – è costituito da pesi massimi del genere.


Justin Pearson (The Locust, All Leather, Some Girls, Swing Kids), Gabe Serbian (The Locust, Cattle Decapitation, Holy Molar, Rats Eyes), Michael Crain (Festival of Dead Deer) e Thor Dickey sono in quattro, ma sembrano un autentico battaglione in assetto anti-sommossa.

Il loro assalto all’arma bianca coincide con i punti più estremi toccati dalla cultura punk. Un urlo disperato che in appena 30 minuti di musica raccoglie le sinistre intuizioni della musica industriale (soprattutto a livello di immaginario) come le serrate scorribande grind-core. Protagonista è l’azione, insieme al turbinio muscolare dei nostri, che conducono un’invettiva ancora credibile contro i mali della società.

Un supergruppo per Ipecac


Un gruppo stellare quello pronto ad esordire per Ipecac, un manipolo di musicisti tra i più richiesti nell’ambito del rock occidentale più votato alla sperimentazione, tanto che i nomi di Tom Waits, Mike Patton, David Thomas, Blixa Bargeld, Jon Langford e Carla Bozulich sono più di un semplice indizio.I membri fondatori dei Book Of Knots rispondono ai nomi di Matthias Bossi (Skeleton Key, Sleepytime Gorilla Museum), Joel Hamilton (produttore per BlakRoc e Pretty Lights), Carla Kihlstedt (Tin Hat Trio, Sleepytime Gorilla Museum) e Tony Maimone (Pere Ubu, Frank Black, Bob Mould). I quattro si alternano spesso anche al canto, proponendo a seconda dei casi scenari fragili ed intimisti o portentosi attacchi dal flavour epico. Ne viene fuori un disco dalle caratteristiche solide, potenzialmente cinematico nelle sue dinamiche e decisamente sinfonico per l’accuratezza degli arrangiamenti.
Accade così che le chitarre sature incontrino gli archi in strutture fluttuanti, che rivedono l’impianto della musica da camera secondo l’enfasi del più tumultuoso rock. Non si perdono mai di vista gli spunti armonici in questo, il tutto è sorretto da una scrittura perfezionista, frutto di studi accademici filtrati attraverso la lente deformante del dopo-punk.
Quello che rappresenta il loro debutto per Ipecac è in realtà il culmine di una trilogia a nome "By Sea, By Land, By Air", giunta qui al suo capitolo conclusivo. Garden Of Fainting Stars essendo appunto dedicato all’aria è un omaggio agli spericolati viaggiatori del tempo e dello spazio, quasi un tributo ai primitivi astronauti. La realtà utopica immaginata al termine del viaggio astrale è spesso una parentesi speranzosa che finirà con l’appiattirsi di fronte alle comuni parabole della quotidianità.
La musica dei Book Of Knots è così un sostegno ideale per supportare quel viaggio fantastico. Affondando i propri artigli nelle musiche d’avanguardia centrando comunque la semplicità ed i colori del pop più iridescente.

08/08/11

Cymbals Eat Guitars - Lenses Alien (Memphies Industries)

Sono trascorsi due anni abbondanti dal debutto autoprodotto dei Cymbals Eat Guitars, quartetto di stanza a New York e capitanato dal cantante – ed autore di buon parte delle musiche - Joseph D’Agostino. Con Why There Are Mountains si inserivano di diritto nel solco del miglior indie-rock autoctono, prendendo spunto dalle esperienze trasversali di Guided By Voices e Pavement, guardando oltre gli steccati della stessa forma canzone. Messa quasi da principio da parte l’attitudine lo-fi, i Cymbals Eat Guitars – un’indicazione di massima già dal nome – hanno puntato su strutture fluide e su di un’attitudine che non faremmo fatica a definire progressiva.
Proprio per questa ragione l’album convinse sia i frequentatori dell’underground statunitense che quelli del vecchio continente. L’italo-americano D’Agostino – che oltre a cantare si distingue anche alla sei corde – ha un piglio che per certi versi ricorda quello di Black Francis, con i debiti distinguo. Matt Miller (batteria) Brian Hamilton (tastiere) e Matthew Whipple (basso), chiudono il quadrilatero. Dopo aver ripetutamente testato dal vivo il loro materiale, aprendo per gente come Flaming Lips ed Hold Steady, esibendosi peraltro in festival di grande richiamo come il Lollapolooza e Glastonbury. Terminata questa lunga carrellata internazionale i nostri si chiudono in studio a partire dall’autunno del 2010. Un’unica priorità, stilare i brani guida di quello che sarà il loro secondo album, che verrà pubblicato in settembre da Memphis Industries.
Lenses Alien è così un ritorno sorprendente, esemplificativo di come una band possa crescere nel breve volgere di un anno, perfezionando ogni singolo dettaglio ed attingendo ad un background sempre più interessanti. Sono brani molto più confidenziali, nel senso che parlano direttamente agli ascoltatori, grazie a trame avvolgenti, che non mancano di sfiorare le perigliose volte di una psichedelia moderna. Questa loro ricerca musicale li pone sicuramente in una situazione privilegiata, ancora una volta oltre le schematiche rivoluzioni indie-rock. Un linguaggio sofisticato, le cui aperture molteplici rendono ancor più appetibile l’intera faccenda.


Death In Vegas - Trans-Love Energies

Cambiano abito I DEATH IN VEGAS che tornano a cimentarsi con un album sulla lunga distanza dopo ben 7 anni di assenza dalle scene. Porta il titolo di Trans Love Energies il nuovo disco licenziato da Drone Records. Da sempre responsabili di un’ elettronica dalle tinte fosche, gli inglesi hanno attraversato longitudinalmente la scena down tempo e trip hop, introiettando elementi dark wave, house ed un romanticismo quasi post-bellico.
Dischi come Dead Elvis, The Contino Sessions e Scorpio Rising hanno stabilito nuove regole nell’universo intercambiabile della dance alternativa, facendo sì che il nome di Death In Vegas divenisse una sorta di status.
Da Satan’s Circus del 2004 il progetto è stato praticamente congelato. Finchè il produttore e maggior songwriter Richard Fearless non ha tirato fuori dal cilindro l’ennesimo contributo alla cosidetta leftfield dance, mettendo a fuco un lavoro dai tratti psichedelici e da toni spesso oscuri. Il titolo Trans-Love Energies si riferisce ad un un gruppo detrotiano anti-establishment – siamo dalle parti di John Sinclair e Weather Underground per capirci – sinonimo di come l’allineamento anche artistico non sia mai stato un’esigenza primaria di Fearless e sodali.
Dodici nuove tracce per Death In Vegas, un unico principio, rinnovarsi nel solco della tradizione elettronica. Ed è un disco dagli esiti speciali questo, ricercato, sfuggente. Echi di musica cosmica, misticismo balearico, fino a sfiorare le più ardite produzioni di New Order e Human League. Fearless è così l’uomo che sintetizza oltre 30 anni di musica, prendendo spunto dalle diverse realtà della club culture britannica.
La voce di Katie Stelmanis degi Austra – band in forza alla scuderia Domino – in tre tracce, fornisce un carattere introspettivo ai guizzi programmatici di Fearless. Andrew Weatherall ha già dato il suo assenso all’operazone suonando a ripetizione – ovviamente in esclusiva - il pezzo Enforced Peace nel suo programma radiofonico a titolo 6 Music.
Dopo il 2004 Fearless ha vissuto diversi anni a Brooklyn approfondendo lo studio del cinema e della fotografia, il suo amore per la musica è stato comunque perorato dall’azione nel gruppo chitarristico Black Acid, con altri musicisti di stanza a New York. Nel 2009 ha fatto ritorno in Inghilterra, dove ha prodotto album per Dark Horses e Von Haze, oltre a remixare gruppi di grido come Pains Of Being Pure At Heart, Hurts, The Kills e The Horrors.
L’eclettismo è la sua forza ed è Fearless forse l’unico vero ‘antagonista’ di Weatherall, con la sua capacità di travalicare costantemente il confine tra indie ed elettronica, mantenendo sempre un gusto tipicamente british.


Vincenzo Vasi/Giorgio Pacorig – “Perfavore Sing” (I Dischi Di Angelica)

Vincenzo Vasi è una delle voci più versatili e sorprendenti del panorama italiano attuale, le sue
esplorazioni e acrobazie vocali sono riconducibili a quella ricerca, riconosciuta anche a livello
internazionale, attuata da artisti quali Shelley Hirsch, Phil Minton o Mike Patton. Un tesoro in Italia, un’eredità lasciata al mondo da quel Demetrio Stratos che si è spinto così lontano con il suo cantare la voce, inglobando le teorie di un JohnCage unitamente ad una passione per le musiche più ancestrali. Vincenzo Vasi realizza così nuovi approcci allo strumento voce, partendo da quei classici che in qualche misura ne esaltino le capacità interpretative. Canzoni note e meno note, musiche consumate o anche semplicemente poco note e dimenticate. Un’artista che oltre all’estensione delle sue corde riesce a far “parlare” il suo theremin come una voce d’altri tempi. Vincenzo Vasi è arrivato a un punto della sua esistenza in cui si sintetizzano, con naturalezza creatività e maturità. Giorgio Pacorig, suo compagno d’avventura riesce a decontestualizzare i suoi “antichi” strumenti, facendoli diventare qualcosa di nuovo, approcciando contemporaneamente stili diversi, per un risultato che certo non si preclude ad un certo eclettismo e voluminosità. Orchestrazioni importanti ed un lirismo a tratti classico, che certo non prescinde da fondanti elementi di jazz e pop obliquo. PERFAVORE SING è un insieme di pillole liriche, canzoni commoventi e inventate, passioni abissali, free rapido, movimenti dance con spirito live.

TRACKLISTING:
1 DEI SENZA CASA (Vasi)
2 CHRISTMAS SONG (Capossela)
3 CANZONE DELL'AMORE O DELLA PRECARIETA' (Lolli)
4 LACRIMA I (Vasi, Pacorig)
5 MORIBOUND THE BURGERMEISTER (Gabriel)
6 LO QUE MAS QUIERO (Parra)
7 LACRIMA II (Vasi, Pacorig)
8 CRISI D'IDENTITA' (Vasi, Pacorig)
9 CAMBIERO' (Falagiani, Carnesecchi, Oxa)
10 ALLEVI GIOVANI ALLIEVI (Vasi, Cusa, Gebbia)
11 DOTT. MORBIUS (Casadei)
12 LACRIMA III (Vasi, Pacorig)
13 IT JUST MIGHT BE A ONE-SHOT DEAL (Zappa)
14 REBIRTHING (Vasi, Pacorig)
16 GIARDINO (Vasi, Pacorig)
17 SATURNINO FARANDOLA (Meloni, De Carolis)
18 TAKETO (Vasi, Pacorig)
19 FIDELIO (Vasi, Pacorig)
20 HELL NO (The Residents)
21 OSSIA (Vasi, Pacorig)
22 WAS DOG A DOUGHNUT? (Stevens, Lynch, Roussel)
23 SOSTA (Pacorig) 01.43
24 E POI MORIRE (Lauzi)
25 ADAGIO (Marcello)

BRIAN JONESTOWN MASSACRE - The Singles Collection (1992-2011)

Rimasterizzati dai vinili originali e per la prima volta assemblati in un’esaustiva doppia compilation, i singoli di Brian Jonestown Massacre aprono una nuova prospettiva su quella che è una carriera ancora lungi dall’esaurire la sua spinta artistica ed emozionale. La notizia più importante in primis, 14 di queste tracce non erano state pubblicate su cd prima d’ora, versioni che differiscono spesso radicalmente da quelle apparse negli album ufficiali della band. Un motivo di giubilo, per tutti i completisti dunque. Presenti anche due tracce della band parallela Acid, incisi nel 1993 unitamente al singolo Convertible & Their Majesties 2nd Request (Enrique's Dream) e del recente 10 pollici Illuminomi & There’s A War Going On . Il doppio cd è accompagnato da un booklet di 24 pagine che ovviamente mette in fila tutte le copertine originali dei 45 giri – fronte e retro – oltre ad interessanti note a margine.

Una pubblicazione che è spunto per riconoscere il genio incontaminato di Newcombe, un vero spirito dannato dei nostri tempi, esteta rock’n’roll anche a costo della propria incolumità, uomo che ha sempre vissuto a margine del business discografico californiano, pur ispirando una miriade di artisti contemporanei, non ultimi i Black Angels.

Si dai primi 90, Newcombe, pur attraverso infiniti cambi di formazione, ha scritto la sua versione del rock psichedelico, puntando spesso ad un’attitudine stradaiola. I Rolling Stones più acidi, ma anche i Velvet del secondo album, lo shoegaze e l’attitudine di certe band che avevano fatto mostra di sè nelle raccolte manifesto Nuggets. Questi gli elementi centrali della musica di Brian Jonestown Massacre, rockers spesso affogati da vicende personali, ma sempre pronti a sfoggiare il proprio estro creativo, in una successione di dischi che ha tagliato tangenzialmente gli ultimi due decenni.
Newcombe tra l’altro non ha mai temuto paragoni ingombranti, ne è mai sfuggito alle maglie del rinnovamento. Le sue produzioni più recenti lasciano infatti trasparire una fascinazione per la techno più sofisticata come per la musica etnica, tanto che l’Islanda è divenuta la sua seconda patria. Rivisitare i suoi sogni nel cassetto, i suoi voli pindarici, questa doppia compilation sarà il centro di un universo parallelo, il luogo di un’altra autentica storia di rock’n’roll.
Tracklisting:

DISC ONE
1. She Made Me
2. Evergreen
3. Convertible
4. Their Majesties 2nd Request (Enrique’s Dream)
5. Hide & Seek
6. Methodrone (Live at the Compound)
7. Cold To The Touch
8. Anemone
9. Never Ever
10. Feelers
11. Not If You Were the Last Dandy On Earth

DISC TWO
1. This Is Why You Love Me
2. Lantern
3. Malela
4. If Love Is The Drug Then I Want To OD
5. When Jokers Attack
6. Prozac vs Heroin
7. Nailing Honey To The Bee
8. Illuminomi
9. There’s A War Going On

03/08/11

Larsen - Cool Cruel Mouth (Tin Angel Records)

I Larsen pur avendo residenza in quel della Mole Antonelliana hanno passaporto a tutti gli effetti internazionale. A riprova questo nuovo album licenziato da Tin Angel per l'Europa ed Important Records per gli USA che vede il quartetto torinese confrontarsi con una delle voci più eclettiche di tutto il tracciato post-punk inglese e del dub bianco: Little Annie. Annie Anxiety Bandez è infatti autrice di tutte le liriche di questo ammaliante Cool Cruel Mouth, un disco che tesse infinite trame strumentali, toccando spesso la profondità della musica d’ambiente e costruzione in odore di folk progressivo. Un’ulteriore salto per i Larsen che in passato avevano – tra le numerose collaborazioni - condiviso un disco con gli Xiu Xiu (XXL il nome dell’emerito progetto) a consolidare una tenuta underground che estende i suoi confini e la sua credibilità oltreoceano.

Il disco si apre con un’incredibile rivisitazione di It Was A Very Good Year, standard composto da Ervin Drake per ‘the voice’ Frank Sinatra, e poi divenuto numero strabiliante in mille orchestrazioni pop a venire. Già di per sé una scelta che indirizza il disco, contraddistinto dalla magnetica inflessione di Little Annnie, il cui cantato spesso si avvicina allo spoken, in una densa poesia metropolitana.

Fabrizio Modenese Palumbo (chitarra, viola elettrica), Marco Schiavo (batteria, glockenspiel), Paolo Dellapiana (elettroniche, fisarmonica, theremin) e Roberto Maria Clemente (chitarra) sono poi raggiunti da Baby Dee, ospite speciale all’ upright piano in due tracce dell’album. Unheard Of Hope è tra l’altro proprio firmata dalla compositrice, un tono tra il solenne ed il drammatico per un contributo passionale e deciso alla resa di Cool Cruel Mouth. Lo sospettavamo da tempo, ma or ai Larsen sono proprio destinati a salpare.

Richmond Fontaine - The High Country (Decor Records)

Una storia dai contorni apparentemente tragici quella raccontata nel decimo studio album di Richmond Fontaine a titolo The High Country. Qualcosa che va oltre l’idea stessa di concept, tanto che il quartetto di Portland, Oregon, ha creato dei brani che ben si sposano alla natura narrativa dei testi, vere e proprie novelle musicate, in cu i protagonisti sembrano guizzare fuori dai loro contesti, come le nuvolette discorsive di un fumetto.
Grande attenzione è prestata anche alla grafica del disco, contenuto in un elegantissimo digipack con un booklet di ben 8 pagine interamente a colori. E’ ancora la Décor Records (Chuck Prophet, Mark Eitzel) a licenziare il lavoro con somma reverenza.
Che la musica muovesse pari passo con le liriche è una prerogativa che da lungo tempo abbiamo imparato ad apprezzare, non fosse altro per la carica del frontman Willy Vlautin, autore di alcuni fortunati libri. Il suo debutto del 2006 nella veste di scrittore - The Motel Life - si è presto trasformato in un film indipendente di successo diretto dai fratelli Polsky con protagonisti nomi del calibro di Dakota Fanning, Stephen Dorff e Kris Kristofferson. Cambia nel frattempo la metodologia di Richmond Fontaine che pur combinando la ricerca letteraria del suo maggior autore, decide di spostarsi gradualmente verso territori più rock, lasciando trapelare una maggiore intensità che va sovrapponendosi alla melanconica vena americana dei precedenti lavori.
Con l’assistenza del produttore John Skew il gruppo sembra anzi riallacciarsi alle sue radici cowpunk, portando alla luce l’attitudine garage-rock del Northwest unitamente ad un piglio cinematico. La musica roots più carismatica in cui possiate imbattervi nella stagione.

Ascolta il singolo Lost In The Trees da questo link:

Pure X - Pressure (Acéphale)

Pure X è l’ultima incarnazione per quest’accolita di musicisti che - provenendo da Austin, Texas - prediligono naturalmente un sound dai tratti lisergici. Una psichedelica comunque gentile, laddove la forma canzone sembra poi l’argomento di maggiore interesse per il trio composto da Nate Grace, Jesse Jenkins ed Austin Youngblood, amici per la pelle da tempo immemore.
Ed è proprio quella confidenza di base che lascia pensare ad un dialogo spontaneo tra i protagonisti, che seppelliscono sotto un muro di feedback melodie sixties, tratte come per incanto dal grande libro del pop d’autore a stelle strisce. Un percorso che ha tutti i crismi della contemporaneità, partendo dall’assunto che Beach Boys e Phil Spector sono tornati ad essere i depositari della cultura americana moderna, anche per una schiera di imberbi giovinetti.
Il loro album di debutto in uscita a fine agosto per Acéphale è un affare davvero interessante. Rispettando un’attitudine che certo non preclude la prassi del ‘fai da te’ , Pure X lavorano in studio preservando la propria integrità ed istintività. Ciò significa che i brani sono suonati live in studio senza alcuna sovra incisione.
Un lavoro nudo e crudo questo Pleasure, fascinoso anche per questa caratteristica portante.
Numeri dark pop che sembrano rivedere lo stesso concetto di ballata, squarci elettrici che pescano nell’ humus chitarristico dello shoegaze e più in generale del post-punk inglese a tinte fosche, riservando sempre una patina di classicità. Perché in buona sostanza l’effetto è quello. Le armonie vocali dei Pure X sembrano davvero antiquate, quadri mobili che descrivono altre adolescenze torbide. E’ una musica tradizionalmente rock’n’roll, ma anche molto soulful, piani che si incrociano, sfiorando vette assolute.

The War On Drugs - Slave Ambient (Secretly Canadian)

Arriva da Philadelphia Adam Granduciel, inedito cantore ed astuto provocatore sin dalla ragione sociale. The War on Drugs è il suo personale veicolo, estensione fortificata della one-man band, che sceglie la via dell’elettricità piuttosto che quella dell’intimismo folk. Slave Ambient è il suo ritorno in azione, dopo il debutto - accolto con grandi aspettative - di Wagonwheel Blues.
Ossessionato da idee diverse, scegliendo di pari passo l’attacco frontale o il preludio elettro-acustico, Granduciel rivede con fare spartano e sicuramente incompromissorio i giorni dell’americana, percorrendo la strada che dai Suicide porta giusto dritti allo Springsteen di Nebraska.
Proprio perché una maratona folk-rock può essere descritta dal battito glaciale di una drum machine. Le frasi strumentali e l’elettronica povera sono così funzionali al dizionario di Granduciel , che si ripete nelle micro orchestrazioni di Slave Ambient, 47 minuti che elevano il concetto di rock’n’roll, da intendersi nelle sue forme più spurie ed avant-pop.
Accompagnato da esperti musicisti locali - i polistrumentisti Dave Hartley e Robbie Bennett oltre al batterista Mike Zanghi – ha registrato il materiale in essere nel corso degli ultimi 4 anni, in parte presso lo studio casalingo e altrove al più ricercato Echo Mountain di Asheville. L’album ha la brillantezza di posizionare le sue più bizarre influenze nel luogo ed al momento giusto. Appare così un sintetizzatore in vece di una chitarra elettrica – e viceversa – un motivetto country si destreggia poi tra adescamenti pop anni ’80, per dire di questo giano bifronte che rivede parecchie delle credenze sulla forma canzone.
Un classico istantaneo come “Baby Missiles” sembra un sacrilego tributo in chiave cosmica al Boss, quando “Original Slave”assomiglia ad un potente drone hillbilly. E non poteva certo mancare una sortita nei territori hypnagogici con “City Reprise #12” quasi un Phil Collins in viaggio verso le volte kraute degli Harmonia. E’ un disco di cui coglierete i più reconditi aspetti solo dopo un ascolto meticoloso, usando toni da prima pagina questa è ‘americana back to the future’.