31/01/11

Esce a Marzo il primo album dei The Crookes



The Crookes sono costituiti da George Waite (voce/basso), Alex Saunders (chitarra), Daniel Hopewell (chitarra) e Russell Bates (batteria). I quattro si sono incontrati presso il leggendario Fuzz Club di Sheffield, trovando immediatamente una sintonia artistica. Il primo passo verso l’abbandono musicale è stato dettato dalle note di "Blister in the Sun" il cavallo da battaglia dei Violent Femmes. Questo è solo un piccolo mattoncino, su cui costruire un più ampio arsenale di idee. Ed è il pop la materia principe, informato sicuramente dalla wave più romantica e decadente come da certe soluzioni vocali di scuola sixties. Se il gruppo cita a menadito le discografie di Cure, Monochrome Set, The Shirelles, Elvis Presley ed Aztec Camera, non possiamo avere ulteriori dubbi sulla loro natura. "Chasing After Ghosts" l’album di debutto dei nostri a seguito dell’Ep "Dreams Of Another Day", licenziato da Fierce Panda nel Settembre 2010. Registrato a Leeds in Novembre con il tecnico del suono Matt Peel, il disco offre uno spaccato della loro passione letteraria, fomentata da una discreta scorta di vino rosso. Ogni canzone si muove nello spettro tra tensione e rilascio emotivo, con una via di fuga rappresentata dall’immaginazione. E’ quasi un testamento di un’adolescenza remota e di una giovinezza che sta sfociando nella maturità. Tematiche esistenziali trattate però con la leggerezza del caso. Un fan d’eccezione come Steve Lamacq della BBC ha descritto una volta i Crookes come campioni di romanticismo. Una lettura di fondo aggraziata. Di certo possiamo notare come nel loro sound subentri il tocco del rock’n’roll più plastico assieme ad orchestrazioni degne di un Phil Spector. La quadratura del cerchio è data dalla filosofia romantica del rock indipendente inglese, da quel pop marziale e nostalgico rimpolpato da suadenti sei corde. Sotto sotto qualcuno ha gridato anche al miracolo, vedendo agitarsi in sottofondo gli spettri di Smiths e Housemartins. E come si suol dire, se son rose… Vi lasciamo con il video della deliziosa "Bloodshot Days".


Doppio CD che celebra la carriera degli Steeplejack in uscita su Spit-Fire




La scena neo psichedelica e garage italiana ha regalato soddisfazioni ai seguaci di mezza Europa, rappresentando un fenomeno esportabile oltre i patri confini. Rivalutare i sixties attraverso le intemperanze e l’attitudine del punk e del do it yourself, questa l’indicazione di fondo per numerose delle band affacciatesi fuori dalle cantine italiche. La scena del granducato in particolare ci ha donato alcuni dei massimi esponenti del genere. Quella Toscana battagliera culla della wave ma anche pronta a riproporre le rasoiate dell’hardcore americano, ha cullato il sogno di tanti piccoli ensemble. Gli Steeplejack da Pisa sono da ricordarsi come un’esperienza assolutamente intensa ed il doppio cd antologico edito da Spitfire ne è il testamento definitivo. Figli della California e del Texas, del blues e del rock’n’roll, del country e della psichedelia, ma comunque capaci di esercitare una propria individualità. Cospiratore primo è stato Maurizio Curadi, già membro di band seminali quali Useless Boys e Birdmen Of Alkatraz; la sua capacità maggiore è stata quella di trasformare le note in messaggi subliminali. In "Pow Wow", che segue di circa un anno il già splendido "Serena Maboose", gli Steeplejack hanno trasposto tutto il loro genio, concependo un sogno/incubo caleidoscopico e affascinante: quattro capolavori tanto stralunati quanto arditi nelle strutture ("No One’s Land" e "Indian Cannonball" su tutti), due intervalli di sapore più canonico (la cover di "Rooting Ground Hog" di Big Joe Williams e il divertente e bizzarro "Stomp Around Huge Frog") e altri due tributi all’estasi lisergica, con le chitarre più insinuanti d’Europa a flirtare con un canto straordinariamente lirico e suadente pur nelle sue tonalità aspre. Il mini-LP "Serena Maboose", confezionato ancora da one man band (Ettore Montanari, accreditato come batterista, non è mai esistito), era fusione di ispirazioni folk, tendenze garage, contaminazioni blues e vocazioni acide. Non tutti lo sanno o lo rammentano, ma gli Steeplejack non si fermarono con "Pow Wow" e le sue eccitanti, pirotecniche appendici live. L’azzardo non passò del tutto inosservato e ci furono contatti persino con l’I.R.A. dei Litfiba, ma l’esperienza ebbe minimi sbocchi discografici: solo gli otto minuti della "È tutto finito" recuperata tardivamente in una raccolta della Toast ("Apocalisse di diamante", 1993).

Finalmente i tre anni d’oro degli Steeplejack sono immortalati in un doppio cd/discografia. Nel primo: Serena Maboose, Pow Wow e la doppia cover dei 13th Floor Elevators tratta da un 45 giri allegato nel 1987 alla fanzine “Lost Trails”, in pratica, tutto quanto apparso all’epoca su vinile tranne la "Tin Soldier" della raccolta "Eighties Colours Vol. 2", presente però - per correttezza filologica - nel secondo compact.

A tenerle compagnia, due pezzi della stessa session e un demo ancora del 1987 una cover di I"t’s All Over Now Baby Blue" di Bob Dylan esclusa da Pow Wow, il master originale di ("The Resurrection Of High) High And Shakin’ Trees" e quattro estratti da un concerto-benefit per i nativi americani organizzato a Genova - assieme ai Not Moving - nell’autunno 1988. Un piccolo mito da celebrare correttamente.

Nuovo disco per Oh No Oh My



‘Voglio che questo album faccia piangere la gente’. Niente male come dichiarazione, soprattutto se preannuncia un lancio discografico. Esistono forse lacrime di giubilo? Prendiamo in considerazione l’ipotesi, per ora vi basti sapere che la battuta è di Daniel Hoxmeier uno dei quattro polistrumentisti che costituisce il nucleo di Oh No Oh My. Con un titolo che sembra una polaroid dei tempi moderni - ‘People Problems’ - il gruppo di Austin entra con naturalezza nell’Olimpo delle indie band più colte e sofisticate dei nostri giorni, assumendo spesso e volentieri fittizia nazionalità britannica. Proprio perché la musica d’oltremanica sembra costituire un grosso precedente storico per i nostri. Comunque discrete personalità in patria, tanto più che nel 2006 ebbero modo di partecipare al carrozzone del Lollapalooza, pur essendo alla quinta esibizione ufficiale dal vivo! Preludio ad una serie di tour non meno importanti, al fianco di personalità come Mew, Flaming Lips e Gnarls Barkley. C’è voluto poco a finire sotto i riflettori delle tv via cavo, figuriamoci poi se il portale alternative per antonomasia Pitchfork non si curasse di questi talentuosi uomini. Eppure le prime produzioni sono ancora all’insegna della più fedele indipendenza e autoproduzione. Cambiano però le priorità, qualora del proprio verbo si voglia fare anche una ragione di vita. Scampoli di economia domestica direte voi, tant’è che il gruppo che ascoltiamo in "People Problems" è davvero maturo e imprevedibile. Imprevedibile perché il modo di arrangiare i pezzi può essere virtualmente spiazzante. Sia che si tratti di un pop cameristico, di una psichedelica a lume di candela o di una ballata folk tappezzata di esoterismi. Arie beatlesiane, sberleffi à la Phil Spector, tavole da surf griffate Beach Boys, qualcosa del Barrett pre-camicia di forza. ‘Should Not Have Come To This’ è una bucolica sensazione folk, ‘There Will Be Bones’ un uptempo puntellato dagli archi, No Time For Talk una cosa che magari girava nella testa di Van Morrison e Steve Winwood fossero venuti fuori nell’amena rivoluzione brit-pop. C’è così tanta materia viva in questo disco da poter pubblicare un singolo al mese pur di arrivare al cuore dei consumatori illuminati. Per una volta l’hype era giustificato. Un debutto lungo vero e proprio per suggellare le aspettative del caso, precludendosi – forse – solo il cielo.


28/01/11

Scientist Launches Dubstep Into Outer Space

Era scritto nei libi di storia, il dub jamaicano avrebbe avuto la sua rivalsa sulle musiche del futuro, quelle che ha contribuito a plasmare, irrorando nelle vene di producers contemporanei il groove, la negritudine, la battuta in levare. E quale migliore ingegnere del suono di Scientist (uno che ha un pedigree di quelli impressionanti, con pubblicazioni per Greensleeves, Trojan ed Heartbeat) al secolo Hopeton Brown, 50enne che ha forgiato più di una coscienza col suo fluido modo di incastonare il ritmo.
Per Tectonic si tratta del progetto più ambizioso. Unitamente ai 12 brani originali, concepiti per l’occasione da un florilegio di nomi imponenti, troviamo altrettante version curate da Scientist, dub che vi lasceranno al tappeto. Gli inediti sono firmati dalle stelle del genere, siano essi il boss di Hyperdub Kode9, Shackleton, Pinch, i King Midas di Kevin Martin o Mala. E’ una passaggio senza precedenti o un testamento se preferite: le radici ed il futuro, i semi di marijuana e lo spazio siderale. Una visione plasmata in oltre un anno di certosino lavoro da studio.

Non mancano le sorprese alla voce remix, tanto che il tocco di Scientist risulta radicale in pezzi dal taglio ultra moderno come Korg Back di Guido e la fatale 2012 di Pinch (con il featuring vocale di Emika). Solo la formazione ‘acustica’ di un tecnico del suono così stimato poteva portare a tali risultati. Sono zone psicoattive quelle generate dall’uomo ai controlli, detto della bontà degli originali sono le version a staccare il biglietto per l’eternità, in scenari pulsanti plastici dove le percussioni si assottigliano in qualcosa di finemente spirituale.

La poesia di Roger Robinson nel brano di King Midas Sound 'U' è così un tributo ai popoli delle stelle, mentre lo stile neo-arcaico di Shackleton diviene un’esperienza globale in odore di santità. Trovando terreno fertile nei luoghi da lui stesso concimati, Scientist congiuntamente a Tectonic ci consegna uno degli stralci più radicali e immensi del ritmo urbano, oggi.

Tracklist:
Scientist Mixes
01. Pinch feat. Emika - 2012 Dub
02. Armour (Roly Vex'd) - The Long Way Dub
03. Guido - Korg Back Dub
04. Shackleton - Hackney Marshes Dub
05. King Midas Sound - U Dub
06. Loefah & SGT Pokes - Dog Money Dub
07. Distance - Ill Kontent Dub
08. RSD - After All Dub
09. Jack Sparrow - Red Sand Dub
10. Mala (Digital Mystikz) - City Cycle Dub
11. Cyrus (Random Trio) - Footsteps Dub
12. Kode 9 & Spaceape - Abeng Dub

Dubstep Originals
01. Pinch feat. Emika - 2012
02. Armour (Roly Vex'd) - The Long Way
03. Guido - Korg Back
04. Shackleton - Hackney Marshes
05. King Midas Sound - U
06. Loefah & SGT Pokes - Dog Money
07. Distance - Ill Kontent
08. RSD - After All
09. Jack Sparrow - Red Sand
10. Mala (Digital Mystikz) - City Cycle
11. Cyrus (Random Trio) - Footsteps
12. Kode 9 & Spaceape - Abeng


Beautiful Songs (The Best Of Jad Fair) - Bellissima tripla antologia pubblicata dalla fire Records

Per ogni decennio c’è un autore istrionico che si rispetti, l’imbarazzo è semmai nel trovare una figura ricorrente per circa 6 lustri di fila. Cosa diviene allora il genio nella sua continuità? Un’istituzione popolare o magari una figura abile ed arruolabile per una rock’n’roll hall of fame alternativa? A toglierci dall’imbarazzo provvede la britannica Fire Records, che in un triplo cd confezionato coi crismi di un piccolo Nuggets, raccoglie la storia invero bizzarra di Jad Fair. Personaggio culto ed outsider per definizione il nostro si iscrive alla stessa scuola dei Kim Fowley, Daniel Johnston e Stevie R Moore. Oltre cento pezzi distribuiti equamente in tre dischetti con la supervisione di quell’altro filantropo del pop decostruttivista che è Kramer (a lui l’onere di remasterizzare il tutto).
Un antologico omni-comprensivo che entra di soppiatto in tutti luoghi mentali e fisici dell’artista, con un libretto curato ad hoc da Everett True (rispettabilissimo giornalista inglese con la passione per le musiche off).
Dalla cover di Daniel Johnston Tru Love Will Find You In The End ai duetti con lo stesso, passando per le belle canzoni artigianali composte di getto con Yo La Tengo ed i neo-garageisti Phono-Comb. C’è davvero tutto lo scibile di questo uomo, parabola inversa dell’alternative rock americano. Dai postumi no-wave del gruppo culto Half Japanese a quei bozzetti di esasperata malinconia che avrebbero idealmente retto i sotterfugi dei gruppi lo-fi.

Posizionandosi nella stessa linea immaginaria di The Shaggs, Leadbelly e Jonathan Richman, Jad Fair ha concepito la sua arte stando alla regola dei vasi comunicanti. La sua penna si sporca spesso e volentieri in nome di un atto supremo. Rincorrere l’avanguardia come le brutture del rock più scalcinato non è mai stato motivo di turbamento. Anzi. Di best of ne avrete sentiti parecchi in vita vostra, ma questa è davvero un’esperienza dai tratti definitivi che vi porterà a toccare il cielo (della vostra camera) con un dito

"Jad Fair is the godfather of minimalist monster art rock - a gentleman and a beast." Edwin Pouncey, The Wire.



Nuovo album per The Memory Band "Oh My Days"



The Memory Band completa la sua marcia d’avvicinamento verso il suono delle radici, lasciandosi alle spalle i rimandi alla cosiddetta folktronica. E’ dunque il suono rurale di un Inghilterra in bianco e nero a circondare l’evocativo Oh My Days, un nobile punto di ripartenza dopo la pubblicazione nel 2006 per Peacefrog del fortunato Apron Strings (licenziato in America da Di Cristina)
E’ una sottile innovazione quella a cui punta la formazione del compositore Stephen Cracknell, accompagnato da un significativo numero di vocalist di ambo i sessi. Con la riscoperta delle sottili armonie acustiche, negli ultimi decenni si è sviluppata una vivacissima scena, una nicchia che sta crescendo esponenzialmente e di cui i Memory Band possono a ragione considerarsi rappresentanti di rango.
Le chitarre unplugged e gli archi sono sorretti da un impianto ritmico vivace, grazie alle prestazioni del bassista Jon Thorne (Lamb) e del batterista Tom Page (Rocketnumbernine). Jess Roberts, Jenny McCormick, Hannah Caughlin, Nancy Wallace e Dot Allison si alternano invece dietro ai microfoni.
Come se questa line-up non fosse successivamente florida, segnaliamo l’intervento al glockenspiel ed al thumb piano di Adem, solista per Domino ed un tempo membro dei Fridge assieme a Four Tet. E’ musica pop contemporanea quella che si addensa lungo i solchi di Oh My Days, a conferma che The Memory Band è summa passatista ed allo stesso tempo indagine sul futuro remoto. Con cover da antologia come By The Time It Gets Dark (Sandy Denny), Love Is The Law (Graham Bond) e Come Wander With Me di Jeff Alexander (dalla serie TV The Twilight Zone), questo è un disco che reclama tutta la vostra sintomatica attenzione.

Ascolta il singolo della Memory Band - Ghosts

The Sisters Anthology (Fantastic Voyage Records)

The Sisters Anthology è un’attesa celebrazione di oltre 4 decadi di sorelle cantanti. Compilata dal vocalist newyrokese Athan Maroulis (che molti di voi ricorderanno nei gotici Black Tape For A Blue Girl), the Sisters Anthology mette in fila oltre 32 formazioni americane e dal Regno Unito, 38 brani in rappresentanza di un’epoca compresa tra il 1924 – con la Red Hot Mama eseguita dalle Brox Sisters - ed il 1959, con l’oscuro jazz vocale delle Clark Sisters in una virtuosa performance di Take the ‘A’ Train.

Tra le compagini più celebri che troverete all’interno di questo doppio cd - al solito curato con grazia e professionalità da Fantastic Voyage – citiamo le Andrews, Fontane, Boswell e McGuire Sisters. Mentre tra le Gumm, Stafford e Clooney Sisters preme sottolineare l’apprarizione delle giovanissime Judy Garland, Jo Stafford e Rosemary Clooney rispettivamente. In questa selezione di brani non solo i successi che entrarono nelle classifiche del tempo, ma anche tracce appositamente incise per film e trasmissioni radiofoniche.

Nelle sue note di presentazione alla compilation Maroulis traccia le origini del fenomeno stesso, riportandolo al 19 secolo ed a realtà di forte impatto artistico/sociale, dalla Music Hall al Vaudeville passando per il Burlesque ed ovviamente l’avvento della tecnologia in sala d’incisione. Con affascinanti note biografiche riguardanti le singole formazioni il volume appare come opera completa e stimolante

Michael Chapman - Full Qualified Survivor

Prima ristampa in digitale al di fuori del mercato inglese di questo classico dell’acid-folk britannico, pubblicato originariamente dalla rinomata Harvest nel 1970. Light In The Attic dà ancora una volta il benestare ad un’operazione di carattere quasi filantropico, tanto che il vinile dell’omonimo disco è pezzo da collezione spesso inavvicinabile. Con figure di spicco del rock inglese quali Mick Ronson (possiamo ascoltare il chitarrista in tutto il suo splendore prima della fortunata joint-venture con David Bowie) ed il bassista dei leggendari Steeleye Span Rick Kemp, il disco si dipana tra trame elettro-acustiche dal fascino antico, grazie anche al puntuale inserimento degli archi che donano un vago tono medievale alla selezione tutta. Il disco è stato prodotto dal Re mida Gus Dudgeon, proprio all’indomani del successo commerciale ottenuto con il singolo Space Oddity del duca bianco.
Non rinomato al pari di innovativi cantori contemporanei come Roy Harper, John Marytn e Bert Jansch, Michael Chapman ha in realtà occupato uno spazio vitale sulla scena inglese, muovendosi lungo una linea di demarcazione che da una parte guardava con reverenza agli eroi della canzone rurale e dall’altra incoraggiava più moderni esperimenti di scrittura. Per la stessa etichetta che fu asilo di menti distorte del pop contemporaneo come Kevin Ayers and Syd Barrett, Chapman licenziò ben quattro album. A detta dei critici più puntuali Fully Qualified Survivor si pone come pietra d’angolo della sua discografia. Un disco che ne esalta le caratteristiche di musicista innovativo, capace di cavalcare una psichedelia della mente figlia del suo tempo.
Tra gli elementi cardine del disco – oltre ai numeri da capogiro del giovane Mick Ronson – possiamo cogliere la lisergica vocalità di Chapman, unitamente ai lussureggianti arrangiamenti che prevedono anche l’uso di percussioni esotiche e del violoncello di Paul Buckmaster, l’uomo che in pratica descrisse il capolavoro oscuro di Elton John “Mad Man Across The Water.”

Accostando questo album a Flat Baroque di Roy Harper, Inside Out di John Martyn, e Jack Orion di Bert Jansch, avrete un poker di pubblicazione incredibili per le mani.

07/01/11

Colin Stetson pubblica il suo secondo album solista



Stetson è nato e cresciuto ad Ann Arbor, Michingan, dopo aver peregrinato tra San Francisco e New York dal 2007 ha stabilito la sua residenza a Montréal, Canada. E’ sicuramente tra i nomi più in vista dell’avanguardia nord-americana, avendo sviluppato un personalissimo linguaggio alle ance ed ai clarinetti, usufruendo di una virtuosa respirazione circolare e di tecniche estese applicate ad ambo gli strumenti, in una sorta di overdubbing dal vivo. Nel 2008 il suo debutto solista con "New History Warfare Vol. 1." apre nuove prospettive nei circuiti improvvisativi e del jazz d’avanguardia, portando il nostro ad esibirsi nei festival più importanti di settore come Moers ed il London Jazz Fest. Non mancano peraltro aperture a sorpresa in contesti più squisitamente rock, al fianco di calibro come Arcade Fire e The National. Il suo secondo album "New History Warfare Vol. 2: Judges" vede la luce questo febbraio per Constellation ed è co-prodotto da Shahzad Ismaily e mixato da Ben Frost. Una carriera come sideman ha schiuso le porte alla popolarità a Colin, anche parte integrante degli ensemble Sway Machinery e Bell Orchestre. Il nostro può fra l’altro vantare incisioni in studio con Tom Waits, Arcade Fire, TV on the Radio, Fiest, Bon Iver, Lou Reed, David Byrne, Jolie Holland, Sinead O'Connor, LCD Soundsystem, The National, Bon Iver, Angelique Kidjo, Anthony Braxton e Laurie Anderson. Proprio la voce del pop d’avanguardia newyorkese ricambia il favore in questa sua seconda opera, intervenendo con uno spoken word in "A Dream Of Water" ed in altri tre brani, nel dettaglio "Judges", "All The Colors Bleached To White (ILAIJ II)" e "Fear Of The Unknown And The Blazing Sun". Shara Worden (My Brightest Diamond) è l’altra ospite di lusso, in una versione da brividi di "Lord I just can't keep from crying sometimes" a firma Blind Willie Johnson. Gli strumentali di Colin sono poi giocati su un’effettistica minimale, è solo la voce dei fiati a reggere strutture altrimenti impalpabili. La forza del suo soffio ci conduce in un denso labirinto sonoro: il suo dono è la grazia e l’impeto al tempo stesso.

Colin sarà in tour in Europa ed in Italia con i Godspeed You Black Emperor, i più fortunati potranno abbracciare il suo talento lapalissiano, in un’estasi sonora senza pari.

Colins Stetson opening act for Godspeed You Black Emperor:
26 Gennaio 2011 Bologna @Estragon
27 Gennaio 2011 Trezzo sull'Adda (Milano) @Live Club


Qui potete ascoltare un brano in anteprima
The righteous wrath of an honorable man by Constellation Records

03/01/11

Nuovo album per The Get Up Kids



Antesignani di quello che oggi viene comunemente chiamato emo-pop, The Get Up Kids sono sempre stati un gradino al di sopra dei vili posers dei giorni nostri, mettendo in primo piano la musica ed un’attitudine spregiudicata nei confronti della musica popolare americana. Dopo il tour europeo dello scorso anno – con fortunate apparizioni italiane – un nuovo album da studio sembrava cosa imminente. E’ così che il quintetto di Kansas City inaugura il ritorno in scena con un nuovo disco in studio che bagna non solo il loro anno musicale ma tutto un 2011 destinato a confrontarsi coi nomi che hanno settato gli standard negli anni ’90. Album numero cinque, pubblicato dal personale marchio Quality Hill Records, dopo sette anni trascorsi nel limbo, se si fa riferimento all’ultima fatica estesa a nome "Guilt Show". Sono 12 le canzoni prodotte da Ed Rose, un campionario di sorprese e conferme a leggere tra le righe, grazie ad una scrittura palesemente più adulta e ad un piglio che aggiorna i loro momenti più smaccatamente emozionali ad una tensione nuova, adulta. L’insieme è adorabile. Ben aldilà della nostra immaginazione, i Get Up Kids si sono scrollati di dosso i luoghi comuni del genere, per abbracciare un sound più sofferto, che oltre a muoversi sull’asse college rock americano, prova a considerare l’epopea del post-punk inglese ed il lascito importante di tutta la scena downtempo e trip-hop. Già, perché tra le note spesso acute di questo "There Are Rules", l’elettronica sembra trovare margini coraggiosi, andando a contrastare le ritmiche spesso serrate e matematiche del gruppo. Un lavoro che si presenta molto articolato, ricco nella sua punteggiatura, pur non smarrendo il potenziale offensivo. Rinati grazie ad un concept inedito e ad una raggiunta maturità i Get Up Kids affrontano coscienziosamente il nuovo decennio assumendo le caratteristiche di una formazione moderna, che sa guardarsi oltre gli steccati del post-punk e del bubblegum-pop. Statura, non comune a molte delle starlette attualmente in circolazione. Proprio perchè non è un taglio di capelli a fare il bello e cattivo tempo. Tra le formazione più influenti di quella tradizione che partiva direttamente dalla Washington DC dei tardi ottanta, per attraversare le propaggini più colorate dell’ alternative scene, i cinque – al pari di altri nomi culto quali Promise Ring e Braids – hanno portato la loro spregiudicatezza adolescenziale verso inaspettate vette. Quando sarete colpiti dall’incedere post-gotico di "Tithe" o dalle chitarre jingle-jangle di "Regent’s Court", vi sarà chiaro di come il gruppo abbia oggi più di una freccia al suo arco.