27/10/10

Zach Hill torna con un album solista ricco di ospiti



Non conosciamo attributo più appropriato di "vulcanica" per dipingere la personalità agitata di Zach Hill. Californiano doc, si sedeva dietro ai tamburi già in tenerissima età per poi esplodere i suoi letali colpi - poco più che maggiorenne – col gruppo che gli regalerà le prime soddisfazioni artistiche: gli Hella. Il duo – ora ampliato a quartetto – fu una delle intuizioni più fortunate dell’allora sussidiaria di Kill Rock Stars, 5 Rue Christine. Demolendo i luoghi comuni del math-rock, gli Hella sfruttavano la loro certosina tecnica per forgiare un rock progressivo imbevuto in salse avant-garage e 8-bit. Da quel momento in poi il battitore di pelli – anche il talentuoso showman - non si è più arrestato, affiancando il suo nome a quello di sua maestà deil basso Les Claypool oltre che al vocalist icona del nu-metal Chino Moreno (nei Team Sleep). Lungi dal passare per session man salariato, Zach sposa unicamente i progetti a lui congegnali, è così al servizio della virtuosa della sei corde Marnie Stern come alla corte di quell’altro geniaccio che è Omar Rodriguez Lopez (Mars Volta). Con tutte queste amicizie potete immaginare forse un disco privo di ospiti? "Face Tat" è il nuovo Frankestein di Zach Hill, edito da Sargent House, dopo che la Ipecac di Mike Patton (e la stessa Anticon per il vinile) ne avevano tenuto a battesimo il debutto in solo. Un disco abrasivo ed eclettico ad ogni buon conto, dove broken beat e metallo urlante sembrano andare di pari passo. Laddove si accenni a qualche melodia indie-pop è presto la tempesta sonica a recitare la parte da padrone. Questo per dire che il senso melodico e sperimentale di Hill è sempre assoggettato ad una forma di aggressione positiva. Per un Devendra Banhart che prova a farlo rinsavire, c’è un Guillermo Scott Herren (Prefuse 73) che trasla il suo desiderio di ritmo nevrastenico. Poi ovviamente altri trafficanti di rumore nobile come Dean Spunt e Randy Randall dei No Age, Carson McWhirter degli stessi Hella ed un vate del più intellettuale rock matematico come Greg Saunier (Colossamite, Gorge Trio, Deerhoof). Tredici pezzi al cardiopalma per saggiare non solo le doti di un grande strumentista, ma anche di un uomo che non perde l’occasione di divertirsi.

Thus : Owls



I Thus : Owls nascono da un’intuizione di Erika Alexandersson con lo scopo di dare voce ai suoni che si formavano nel suo cuore e nel suo impianto auditivo. I componenti dell’ensemble si sono incontrati uno ad uno nel corso di numerosi anni nella natia Stoccolma. Dopo la logica trafila in sala prove e l’ingresso dell’ultimo tassello – direttamente dalla fiorente scena di Montreal – il gruppo decide di dare un nome al progetto e mettere a frutto le sue sperimentazioni da studio. Impressionante come il combo nord-europeo sia assolutamente in sintonia con le primizie che giungono d’oltreoceano, fatto sta che il loro debutto viene impacchettato in un indie-pop cameristico, in cui il distinto lavoro degli archi completa in maniera uniforme le armonie vocali e chitarristiche. Erika Alexandersson, che è la maggior compositrice dei Thus:Owls, è anche parte di Josef och Erika, già nominati per un Grammy svedese. Unitamente a queste sue escursioni di carattere più folk, c’è il progetto free/impro/elettronico The Moth e quello in solo eRika, con il quale ha pubblicato in Giappone. La vocalist ha un talento cristallino e la sua formazione accademica può avvicinarla a livello di orizzonti alla celebrata Joanna Newsom. Non da meno i suoi sodali in questo: Cecilia Persson è fondatrice del gruppo jazz-progressivo Paavo, Martin Höper si è addirittura esibito dal vivo con i Koop (stelle nordiche del firmamento downtempo), Ola Hultgren è parte integrante di Loney, Dear (ora in pianta stabile negli States) mentre Simon Angell ha spesso affiancato il suo nome a quello di Patrick Watson. "Cardiac Malformations" è stato registrato nel settembre del 2008 ai celebri Svenska Grammofonstudion di Göteborg. Ora è giunto il fatidico momento di diffondere il verbo e la gioia di Thus:Owls al resto del mondo, grazie ad un impianto di canzoni in bilico tra sensazioni epidermiche e malinconici momenti di riflessione.


IL VIDEO DI "SOMETIMES"

Thus Owls - Sometimes from valerie toumayan on Vimeo.

26/10/10

Album solista per Gareth Liddiard dei Drones



Il debutto solista di Gareth Liddiard dei The Drones è una faccenda sicuramente intimista, un folk nero come la pece che interrompe solo a livello estetico il continuum col gruppo madre. Perché in termini di vibrazioni, l’onda lunga della migliore rock band australiana in circolazione è ancora presente. Disponibile in cd e doppio lp, l’album è edito da ATP Recordings, che scommette ancora sul songwriter che ci regalò il delizioso "Havila" con la band madre. Gareth ha già collezionato numerosi riconoscimenti ufficiali con i suoi Drones, spogliare i suoi brani dall’elettricità del quartetto è stato solo un escamotage per ribadire la freschezza della sua scrittura. Pezzi come ‘I Don’t Ever Want To Change’, ‘Sixteen Straws’ e ‘Shark-Fin Blues’ sono già entrati nel novero delle migliori canzoni australiane di sempre, stando almeno ad un’attenta commissione di musicisti ed addetti ai lavori locali. Registrato in una tenuta isolata a 30 minuti di macchina da Yass, nella regione del New South Wales, "Strange Tourist" cattura l’essenza stessa di Liddiard: chitarra e voce, tanto basta per scatenare il suo fuoco interiore. Storie surreali sono al centro delle sue canzoni, dal suicidio di un salariato giapponese alle avventure degli equilibristi che camminano su corda tesa, passando per i radicali suburbani che sembrano resistere ad ogni avversità. In ‘Blondin Makes An Omelette’ Liddiard racconta la storia dell’acrobata Charles Blondin, dal punto di vista della sua eterna e sofferente fase di studio. Gli interessi per la storia ed il folklore australiano sono poi l’altro elemento cardine di "Strange Tourist", alimentato comunque da una vena estremamente critica e politica. Il brano ‘The Radicalisation Of D" è nella fattispecie liberamente ispirato alla vicenda dell’australiano David Hicks, ingiustamente incarcerato nel campo di Guantanamo Bay nel 2001.

"This is something really exceptional. Liddiard is inspired." - The Age (Melbourne, AUS)

“Gareth Liddiard is a songwriter of extraordinary power.” - Time Out

“Gareth Liddiard drawls and howls his way through his allegorical tales…often sounding like one of the few rock lyricists worth paying real attention to” - Guardian

“a singer-songwriter and guitarist of dark intensity…his vivid narratives draw on the landscape and character of his homeland in a delicately melancholic way” - Uncut

The Warlocks "Rise and Fall" EP and Rarities



Prossimi ad invadere il vecchio continente con una serie di date in centri nevralgici, i californiani Warlocks – alfieri della nuova psichedelica americana – programmano anche il lancio del loro nuovo marchio. Dopo le pubblicazioni per Mute e Tee Pee, è il momento di tenere a battesimo Zap Banana, label personale destinata a spolverare ricercato materiale d’archivio: s’inizia col doppio cd "Rise And Fall Ep’s and Rarities". Mettendo ordine in una discografia di per sé sostanziosa, i nostri rilanciano il loro primo album – pubblicato nel 2001 - unitamente all’omonimo Ep edito anch’esso dalla leggendaria Bomp! di Greg Shaw nel 2000. Il doppio cd in formato deluxe mette insieme anche 8 tracce assolutamente inedite, che faranno gola a nuovi e più anziani seguaci. Ancora poco avvezzi a certe soluzioni di matrice hard, affiorate nelle ultime prove da studio, i Warlocks degli esordi sembravano avvicinarsi alla laconica lisergia dei Velvet Underground - altezza "White Light, White Heat" – trafficando per di più con elementi di rock progressivo e kraut (stirpe Hawkwind/Neu!). Dopo questi primi spaziali trascorsi il gruppo fu eletto leader della scena di Los Angeles e portavoce della più liquida psichedelia, capace comunque di sostenere elementi heavy e movenze in odore di west-coast pop (vi ricordiamo, per diritto di cronaca, che Warlocks era anche il primigenio nome dei Grateful Dead). Gli otto membri della band viaggiano in un’unica direzione, elaborando spirali sonore di raro fascino. La loro musica – al pari di Brian Jonestown Massacre – è stata in pratica antesignana di quanto proposto oggi da ensemble molto chiacchierati come Black Rebel Motorcycle Club e Black Angels.


La scaletta dei dischi

Disc 1
1. Jam Of The Witches , 2. House Of Glass , 3. Skull Death Drum Jam
4. Whips Of Mercy , 5. Song For Nico , 6. Left And Right Of The Moon
7. Motorcycles , 8. Heavy Bomber Laser Beam , 9. Jam Of The Druids*

Disc 2
1. Cocaine Blues , 2. Song For Nico , 3. Jam Of The Zombies
4. Caveman Rock , 5. Angry Demons , 6. Jam Of The Warlocks
7. Turn The Radio On* , 8. Turn The Sun Down* , 9. Total Headache*
10. Dilaudid** , 11. Inside/Outside* (Demo) , 12. Shake The Dope Out* (Demo)
* inediti ** disponibili su 7” limitato a 1000 copie


Le date italiane del tour

07 dicembre Ravenna - Bronson
08 dicembre Torino - Spazio 211
09 dicembre Roma - Circolo Degli Artisti
10 dicembre Udine - No Fun
11 dicembre Firenze - Rock Contest Controradio Auditorium FLOG

Leila Adu - Ode To The Unknown factory Worker (Tracce)

Della Nuova Zelanda abbiamo apprezzato negli anni lo spirito assolutamente indipendente dei suoi gruppi rock. Ora venerate a livello di autentico culto etichette come Flying Nun o artisti del calibro di Dead C e Bailter Space (per un breve periodo fiore all’occhiello del catalogo Matador) hanno dato una scossa al retroterra Velvet Underground comune a molte formazioni occidentali.
Nulla ci aveva però preparati all’estro di una vocalist del calibro di Leila Adu, origini ghanesi e passaporto neo-zelandese, quasi un ossimoro sulla carta. Ragazza prodigio, già impiegata nella New Zealand Symphony Orchestra, la nostra ha incrociato una preparazione accademica con un’importante propensione all’indie più trasversale e a certa elettronica, palesando così uno stile personale, votato alla ricerca di una forma canzone atipica, in cui potessero convivere le sue molteplici influenze. Cresciute a dismisura negli anni, grazie al continuo girovagare attorno al mondo, con l’Europa presto eletta a nuova patria.

Il suo debutto discografico - Dig A Hole – risale al 2003, e già impressiona nella natia Nuova Zelanda come in Australia, conquistando subito un discreto air play. La sua voce è a detta della critica sinonimo di grande magnetismo. Cherry Pie del 2005 - prodotto da David Long (vincitore del Producer of the Year Award 2001 ed ingegnere del suono per Lord of the Rings) – insiste sulla falsa riga dell’esordio, con Leila circondata da uno stuolo di favolosi strumentisti locali. L’accento è sul suo piano percussivo e su una voce che esce prepotentemente allo scoperto.

Con Dark Joan del 2009 l’intento dichiarato è quello di riunire i suoi trascorsi jazz e la propensione alla ricerca in un formato pop elastico, in cui le canzoni assumano finalmente un ruolo predominante. Registrato preso l’Electrical Studio di Steve Albini, in quel di Chicago, il disco è pubblicato dall’inglese Frizz Records, marchio londinese emergente alle prese con una modernizzazione del verbo black music.

Dopo l’album in trio a firma Truth in The Abstract Blues (con la chitarra di Mike Cooper e la batteria di Fabrizio Spera) licenziato da Tracce/Rai Trade e l’esordio dal vivo con il monicker di Leila Adu & the Don’t al fianco di due autentiche leggende come il bassista John Edwards ed il batterista Steve Noble (Rip Rig & Panic), Leila pubblica il suo quarto album per Tracce/Rai Trade.

In Ode To The Unknown Factory Worker, riconoscerete i numerosi temi della tradizione nera americana, un recupero spontaneo per Leila Adu. Sintomatico della sua evoluzione, il disco fa dell’essenzialità un pregio. Accompagnata unicamente in quattro tracce dalla batteria di Daniele De Santis, Leila impone il suo carattere di innata performer, ponendo la sua malleabile ugola al servizio di brani dalle scarne impalcature, capaci di cogliere nel segno, con cura ed immediatezza. Tra le righe di un suono intimista si parla il linguaggio del pre-war blues, del folk e di un pop quanto mai sghembo ma assolutamente nobile. La capacità della Adu è nel conferire un fascino disarmante a brani apparentemente scarni come ‘Martian Raft’ e ‘A Moment Of Peace’, spostando l’immaginario popolare verso forme più elette.


21/10/10

Jane Birkin "Di Doo Dah" (Light In The Attic)

Dopo la benedetta ristampa del capolavoro lounge concepito a quattro mani col discusso compagno Serge Gainsbourg, Jane Birkin torna a deliziarci con il suo vellutato timbro grazie al recupero filologico dell’album Di Doo Dah.
Presentato con tutta la dovizia di particolari in una versione prontamente revisionata – comprendente il singolo La Decadanse/Les Langues De Chat uscito nel 1971 – da Light In The Attic, il disco aumenta i languori della chanteuse inglese naturalizzata francese. Pubblicato da Fontana nel 1973 Di Doo Dah è lavoro sottilmente peccaminoso, in cui le architetture pop si sposano ai giochi orchestrali del direttore supremo Jean Claude Vannier (lo stesso uomo che seppe valorizzare la vocalità e la coralità di Gainsbourg).
Un album che a tutti gli effetti va considerato come il debutto in solo della nostra, impegnata anche sul grande schermo nel medesimo anno. Ironia della sorte interpretava il ruolo di amante di Brigitte Bardot (che da poco era uscita da un relazione tempestosa con Gainsbourg) nel film Don Juan (Or If Don Juan Were a Woman).
La Birkin non mostra alcun timore reverenziale, in ambo i casi. Forte degli arrangiamenti di Vannier, che addirittura riportano in auge le acide chitarre blues di Duane Allman e di Zoot Horn Rollo (sodale di Captain Beefheart all’epoca di Lick My Decals Off, Baby), il disco è un sofisticato corollario di canzoni dall’aria solo apparentemente svagata. Con un libretto che assume i connotati di un prontuario biografico e la puntuale traduzione dei testi in lingua inglese, la ristampa di Light In The Attic si pone ancora una volta nello scaffale degli irrinunciabili.

Italian Instabile Orchestra "Totally Gone"

dopo "creative orchestra", l'acclamato album inciso sotto la direzione di Anthony Braxton, l'Instabile torna al suo formato abituale e pubblica un nuovo capitolo, prodotto negli studi di rai radio 3 a cura di Pino Saulo, per il prestigioso catalogo Tracce.
L'orchestra, arrivata a celebrare il suo ventesimo anno d'attivita', continua a rappresentare una delle realta' paradossalmente piu' stabili del jazz di ricerca italiano.
L'ensemble attuale sembra esprimere una fase di matura rilassatezza: il suono e' lirico, variopinto e consapevolmente eterogeneo.
Il repertorio appare ricco, sfaccettato, con brani basati su arrangiamenti raffinati e piacevolmente estroversi. L'improvvisazione collettiva e il solismo individuale si intrecciano alla composizione in modo fluido, organico, sempre ispirato e mai distaccato.
"Totally Gone" e' un album che si snoda nell'arco di otto composizioni a firma di altrettanti membri dell'orchestra, in un lungo percorso, stilisticamente articolato che si conclude nell'ironia dell'unico brano non originale, 'It Had To Be You', cantata dal trombonista Sebi Tramontana nell'inedita veste di crooner appassionato.
L'orchestra si presenta al gran completo, un collettivo di diciassette elementi, perfettamente bilanciato tra esponenti di diverse generazioni: dalle voci storiche di trovesi e schiaffini, passando per l'asse centrale di cavallanti, tononi, minafra e actis dato, fino ad arrivare alle forze nuove di Maier, Puglisi e Parrini.
Un'entita' esplicitamente multiforme, una sorta di specchio fedele e tridimensionale dello stato attuale del jazz di ricerca italiano.
Carlo Actis Dato sax baritono, Daniele sax tenore, Eugenio Colombo, sax soprano, flauto, Gianluigi Trovesi sax alto, clarinetti, Alberto Mandarini, Luca Calabrese, Pino Minafra tromba, Martin Mayes corno francese, Lauro Rossi, Giancarlo Schiaffini, Sebi Tramontana, trombone, Emanuele Parrini, violino, Paolo Damiani violoncello, Giovanni Maier, contrabbasso, Fabrizio Puglisi piano, Tiziano Tononi, Vincenzo Mazzone batteria, percussioni.

Nuove ristampe per la Jon Spencer Blues Explosion

Continua la rutilante serie di ristampe dedite alla Blues Explosion di Jon Spencer.
E’ ora tempo di recuperare la primordiale enfasi rock’n’roll di Year One, ad oggi l’uscita più prossima alla matrice garage’n’roll del lotto. Il disco è pubblicato in una versione estesa, 38 brani in tutto, con le originali incisioni di Reverse Willie Horton, le registrazioni del 1991 curate da Steve Albini, un paio di sette pollici d’epoca, una traccia bonus dall’edizione giapponese e l’inedita versione di History Of Sex. Un suono sferragliante, che a suo modo chiuderà un primo capitolo della loro genesi.

Con Extra Width del 1993 la musica cambia, anche radicalmente. Con sferzanti organi hammond ed una bastarda vena funky il trio si affaccia dalle parti della Stax, con in cuore le imprese di Booker T & The Mg’s e Bar-Kays. Un brano come Afro è tuttora un istantaneo successo da dancefloor. Il cd è doppio con l’aggiunta integrale di Mo’ Width ed ulteriori brani dal vivo.

Orange del1994 rimane per molti il punto più alto della parabola artistica della Jon Spencer Blues Explosion. Non a caso il disco contiene il groove assassino di brani come Bellbottoms, Flavor e la stessa Orange, dilanianti ossessioni in 12 battute come Brenda ed una generale propensione al ritmo nero. L’amore nei confronti di hiphop e broken beat sfocerà infine in Experimental Remixes, che nel nostro caso è anche cd bonus. Mike D dei Beastie Boys, GZA del Wu-Tang Clan, Beck, Moby e Dub Narcotic sono i cospiratori del caso.

Acme del1998 è lavoro più raffinato, un’ulteriore cambio di rotta, non meno affascinante. Il programma originale si arricchisce di remix ad effetto da parte di Techno Animal e Jim Foetus. Nel secondo cd troviamo Extra Acme, praticamente un album di outtake, alternate version sconvolgenti e remix ancora una volta avvincenti ( Dan The Automator e ancora Dub Narcotic). Un’abbuffata con tutti i crismi, per il miglior boogie del ventesimo secolo.

Il ritorno degli EX - Catch My Shoe

Per la mera statistica Catch My Shoe – edito dalla label di casa Ex Records – è l’album numero 25 per il longevo collettivo olandese, una delle forze motrici del post-punk continentale, un’istituzione che ha varcato non solo l’oceano ma anche il continente africano. Dopo mille sconvolgimenti interni la formazione si assesta attorno alle figure degli storici chitarristi Terry ed Andy Ex, della batterista Kat e del nuovo ingresso Arnold De Boer. Versatile cantante/chitarrista, questi è l’ultimo arrivato e Catch My Shoe in assoluto la sua prima comparsata in studio, se si fa eccezione per il singolo apripista della scorsa primavera. Gli Ex hanno ricreato uno stile, traendo linfa dalle espressioni comunitarie inglesi – i Crass in prima battuta – hanno fatto sì che il loro spigoloso approccio chitarristico flirtasse di volta in volta con l’acume della world music e gli spiragli creativi dell’avanguardia europea. Hanno conquistato i cuori di Thurston Moore e Lee Ranaldo dei Sonic Youth – che facevano la loro bella comparsa nel doppio Joggers & Smoggers – hanno sposato la causa del compianto violoncellista Tom Cora (con il quale hanno inciso due album) ed hanno stretto un’alleanza del tutto particolare con i Tortoise per un episodio della fortunata serie In The Fishtank.
Cosa accade in Catch My Shoe? Evidentemente i viaggi in Africa e la maestosa collaborazione con il leone etiope Getatchew Mekurya devono aver sortito i loro buoni effetti. Il disco è sferragliante, i suoi ritmi ipnotici ci rimandano proprio al continente nero e le doppie chitarre spesso risuonano come le mbira elettrificate dei congolesi Konono No.1 (che non a caso esordirono con un disco dal vivo per la Terp del chitarrista Terrie).
Ci sono tutti gli elementi per una nuova fascinosa escursione nei meandri dell’etno-punk, una definizione che forse lascia il tempo che trova, ma che sulla carta indica gli esatti connotati del manifesto The Ex. Registrato come di consuetudine negli ultimi anni all’Electrical Audio di Chicago dall’occhialuto Steve Albini, Catch My Shoe è un altro importante capitolo nella storia della band di Amsterdam, il cuoi domicilio noto è solo una scusa per portare un messaggio globale agli innumerevoli seguaci sparsi in ogni angolo del mondo.

Nuova uscita per Hyperdub: Terror Danjah - Undeniable

Terror Danjah è un nome di peso nel circuito di Londra est, le sue produzioni hanno già segnato un punto di svolta nell’economia del dopo grime e 2-step. Il fatto stesso di aver associato il suo nome a marchi come Hyperdub, Planet Mu, Butterz ed Hardrive (sua personale etichetta) ha portato ad una rapida ascesa nei circuiti underground della capitale inglese, tanto da guadagnarsi una posizione di assoluto rispetto nell’area dei club più illuminati.

La caratteristica del suo sound è riscontrabile in una costruzione robotica, addirittura paragonabile alle complesse creazioni di Escher. Undeniable il debutto lungo per Hyperdub, dopo una serie di Ep e mixtape, è così la mutazione definitiva del suono grime, in una veste futurista che sembra inglobare tanto le intuizioni strumentali del dubstep, quanto la vocalità di certa house music.

Dream Mclean è un degli MC che si fanno largo tra le pieghe del disco, assieme ai suoi contributi si notano quelli di Mz Bratt, Griminal e del leggendario D Double E direttamente dal combo Newham Generals.
Per un prepotente avvicinamento al pop più impregnato di cultura black, dovrete invece ascoltare Lauren Mason in 'All I Wanna Do'. Questo tipo di impostazione consente a Terror Danjah autentiche scorribande nei più fantasiosi luoghi dell’elettronica di confine, quella che copula con il g-funk e con i ritmi spezzati, incapace di fermarsi all’apparenza delle cose per progettare un assalto al cardiopalma. Tra i ritmi in levare con patina cibernetica ed i più risoluti passaggi che guardano alle scuole di Detroit e Chicago, Undeniable è l’evidenza dello stato di grazia della suburbia britannica. Una continua scossa elettrica sul letto degli archetipi ritmici moderni.

19/10/10

Asmara All Stars - Eritrea's Got Soul

E’ il ritorno dell’Eritrea. Dopo 30 anni di guerra con l’Etiopia ed un decennio di reclusione forzata, Asmara All Stars ci rende partecipi della migliore musica partorita nella regione con il programmatico album edito da Out Here Records a titolo “Eritrea’s Got Soul”.
Di per sè questo è già un record, in un paese in cui è difficile poter incidere un album con mezzi propri, in considerazione dell’estrema tensione politica, che attanaglia tutte le sfere sociali.
In questo senso il progetto Asmara All Stars prescinde totalmente dalla politica, focalizzandosi sulla produzione di musiche eccitanti. In prima battuta il produttore francese Bruno Blum (l’uomo che introdusse Serge Gainsbourg al dub e curò il remix di "War" di Bob Marley con il discorso di Haile Selassie) ha avuto discrete difficoltà nel trovare la giusta amalgama, ma presto la sintonia raggiunta in studio ha permesso ai musicisti coinvolti di eccitarsi, mettendo in luce un talento del tutto personale.
Il suono di questa formazione è la summa di molteplici esperienze, non ultime le influenze raccolte copiosamente dai territori limitrofi. Logico aspettarsi una patina di esotismo jazz – al pari delle pubblicazioni della collana Ethiopiques – anche se il filtro è decisamente più moderno e la tendenza ad incanalare ritmi caraibici ed arrangiamenti più soulful una costante. Nonostante anni di completo isolamento culturale, elementi di una eredità locale sono rimasti visibili, corretti secondo esigenze contemporanee e oggi parte del tessuto genetico di Asmara All Stars.
La speranza è che gli obiettivi puntati sulla cosiddetta age d’or, possano anche concentrarsi su questa avvincente avventura. L’ album registrato nella stessa Asmara - capitale eritrea, nel 2008 – è stato prodotto facendo perno su sistemi analogici che rendessero giustizia all’approccio live della band. Con l’ausilio dell’ electric kar, di una sezione fiati in grande spolvero, di un organo viziosamente funky e l’intervento delle ugole più in vista della regione, il miracolo si compie.
“Eritrea’s Got Soul” esplora così le profonde pieghe della tradizione locale, annunciando una rivoluzione culturale con tutti i crismi.

18/10/10

Jim Sullivan - U.F.O. (Light In The Attic)

Nel marzo del 1975, Jim Sullivan scomparve misteriosamente nei pressi di Santa Rosa, New Mexico. Il suo automezzo era abbandonato, la sua camera d’hotel assolutamente in ordine. Qualcuno sostiene si sia perso nel deserto, qualcuno – evidentemente in cattiva fede- pensa ad una faida locale con malavitosi del posto. Altri – verosimilmente – pensano al rapimento da parte degli alieni.
Per coincidenza – o forse no – il debutto di Jim del 1969 portava il titolo di U.F.O. Pubblicato per una minuscola etichetta (le cosiddette private press), il disco non fu mai regolarmente distribuito sugli scaffali dei dischi, fino a che la Light In The Attic di Seattle ha ben pensato di riportarlo alla luce, seguendo la sua rigorosa etica editoriale, che prevede un giusto compenso per i diretti interessati o le famiglie degli stessi. C’era anche la volontà di indagare sulla scomparsa di Jim. Evidentemente è stato più semplice ripubblicare il disco – tra mille cavilli burocratici – che riscattare l’anima del cantautore.

Avete presente quel tipo di aste fameliche che si tengono su eBay? U.F.O. è proprio quel tipo di disco, ne salta fuori una copia ed immediatamente viene battuta a prezzi da capogiro. Settimo figlio di una numerosa famiglia, Jim Sullivan vede i natali nella West Coast, muovendo spesso tra San Diego e Los Angeles. Sempre ai margini della notorietà, il nostro si accompagnava a stelle del firmamento cinematografico come Harry Dean Stanton e a musicisti come Jose Feliciano show. Arrivo per fino a strappare un cameo nella pellicola culto Easy Rider.

L’attore ed amico Al Dobbs pensò bene di investire sull’uomo e fondò addirittura un’etichetta - Monnie Records – per produrre l’esordio di Jim, chiamando in causa The Wrecking Crew, celebre gruppo di session men già al lavoro per Phil Spector. Don Randi, Earl Palmer e Jimmy Bond sono i musicisti ed arrangiatori del disco.

U.F.O. rimane un album incredibile, la prova di un folk-singer alle prese con un contesto mutevole. Ci sono sicuramente elementi lisergici nella musica e distinti arrangiamenti orchestrali che rimandano direttamente ad un’ altra eminenza grigia degli studi di registrazione: David Axelrod. U.F.O. è così un disco di musica pop d’avanguardia, flirtato attraverso gli umori di un’oscura Los Angeles.

The Jim Sullivan Story from Jennifer Maas on Vimeo.



C.W. Stoneking - Jungle Blues


La sensazione di miracolo si avverte lungo tutta la musica di C.W. Stoneking, sarà per il suo manifesto esotismo, sarà per la sua capacità di abbracciare il roots con fare estemporaneo, ma il suo blues della giungla è davvero un carnevale senza fine. Di quelli che non vanno unicamente in scena nella foresta, ma anche nelle periferie urbane - in qualche festa clandestina - o anche a bordo riva. Le influenze dell’uomo si raccolgono attorno al pre-war blues, al jazz, al calypso degli anni ‘20 ed ovviamente ad una serie di esperienze personali, che ne hanno contraddistinto la genesi artistica. Accompagnato dalla fida chitarra National Reso-Phonic, da un banjo tenore e dalla brass band puntualmente nota come Primitive Horn Orchestra, Stoneking muove tra un repertorio di solitari holler blues ed un approccio che sembra quasi rievocare l’epica della giungla.

King Hokum del 2005 lo aveva fatto conoscere progressivamente al grande pubblico, con undici canzoni che rinverdivano il blues anni ’30. Il suo stile sembra quasi baciato dalla tradizione orale, riportando alla luce storie secolari, che ben si sposano col suo fluido chitarristico e le sue innate doti di paroliere.
Con Jungle Blues il nostro aggiusta ulteriormente il tiro, ispirandosi liberamente ad un naufragio vissuto in prima persona sulla costa africana occidentale Al suo quinto album da studio il musicista australiano – con residenza a Melbourne – sarà felice di invadere l’emisfero occidentale con la sua musica, baldanzoso ibrido di primitivo blues, jazz d’antan ed investiture folkloriche. Sapete già chi invitare al prossimo party…

13/10/10

Nuova uscita dal Collettivo degli Animali: Avey Tare "Dow There"



Se ricordate Pullhair Rubeye, concepito a 4 mani con la sua compagna Kría Brekkan (Kristín Anna Valtýsdóttir, originariamente nei Múm), probabilmente siete abituati all’estremo gioco di riferimenti che Avey Tare (1/3 degli Animal Colelctive) propone di album in album, spesso vagando attorno all’essenza stessa di suono. Proprio quel progetto del 2007 - edito da Paw Tracks – giocava con l’idea di reverse invitando l’ascoltatore a riavvolgere ‘manualmente il nastro’ per cogliere l’originale natura dei brani. Con buona pace dei praticanti del rock satanico e dei suoi poco futuristici rituali.
Down There è altra faccenda, ovviamente si scorgono l’indole pop marziana degli Animal Collective, gli screzi kraut-industrial del progetto Terrestrial Tones (con membri di Black Dice) ed un’innata propensione al collage-sonoro, ma sono piccoli frammenti di canzoni quelli che di soppiatto si insinuano sotto pelle. Sono nove i brani in scaletta, improbabili commistioni di soul e musica concreta, vibrazioni electro e sixties pop, impossibili trame hip-hop ed uno speziato retrogusto indie.
Nulla è dunque dato per scontato, dalle vette del più arguto rumorismo elettronico all’intimità di una chitarra arpeggiata o di un piano elettrico appena sfiorato, le emozioni sono spesso calibrate, nella misura in cui Avey Tare si divide tra i ruoli di musicista estroso e ricercatore incontentabile.
Registrato nel mese di giugno dal fido Josh Dibb (Deakin) alla Good House, una vecchia chiesa di New York nord, Down There è un bignami post-moderno, una celebrazione dell’universo pop underground.

01/10/10

Nino Bruno e le 8 Tracce




Il viaggio all’interno della canzone tradizionale è stato per Nino Bruno motivo di confronto, sempre e comunque. Dalle prime pubblicazioni con il gruppo culto partenopeo Von Masoch – una via decisamente teatrale alla wave più trasversale - Bruno non ha mai smesso di sperimentare. E spesso la volontà di elaborare nuove soluzioni ha spinto il nostro ad una ricerca a ritroso, confrontandosi di volta in volta con i diversi periodi aurei della canzone italiana. Una filosofia di vita che gli ha comunque permesso di accantonare l’idea di un pop tradizionale, per giocare a più riprese con l’elettricità, il folk e certi caldi ritmi mediterranei. Nino Bruno e le 8 Tracce nasce come progetto nel 2004, facendo fede all’attitudine più sperimentale del suo protagonista. Il trio utilizza gli strumenti chiave chitarra, organo Farfisa e batteria. Il debutto Nino Bruno E Le 8 Tracce per la torinese Toast Records (ora ripubblicato da CNI) contiene già gli elementi cardine del loro suono. Ma è con "Cane Telepate" – appena licenziato da La Canzonetta/Sintesi 3000 e distribuito in esclusiva per l’Italia da Goodfellas – che il terzetto spicca decisamente il volo. Sono undici tracce che vivono di caratteristiche proprie, pur riscoprendo pagine felici dei nostri sessanta e settanta. Sono canzoni folk rivitalizzate da una coltre psichedelica, con spesse escursioni nel mondo del freak-beat. Disco che ispira una danza del tutto spontanea, una tradizione che monta attraverso trovate ed arrangiamenti contemporanei, come a mantenere sempre un equilibrio tra l’oggi e il domani. Ascolterete in "Tipo da evitare tipo da incontrare" la voce di Francesco Di Bella dei 24 Grana, mentre il flauto della strumentale "Venite, Venite, Ragazzi" è di Daniele Sepe. La produzione artistica è di Marco Messina (99 Posse), che per l’occasione si è rimesso al luddista metodo lavorativo del gruppo – definito non a caso Dogma 8 - utilizzando registratori analogici a bobina sia in ripresa che in missaggio. Altri ospiti sono Libera Velo, Emanuele Esposito e Giovanna Marmo, che firma due testi e il delizioso artwork del CD. Il resto è affidato al caratteristico organico della band, con Peppe Sabbatino (batteria) Roberto Vacca (organo,che lascia subito dopo il disco, sostituito da Giulio Fazio) e lo stesso Bruno (chitarra e voce).

Easy Star All Stars tornano sul luogo del delitto

EASY STAR ALL-STARS: DUBBER SIDE OF THE MOON TRAILER from Easy Star on Vimeo.

L'upgrade necessario al già fantascientifico remake di Dark Side Of The Moon ha finalmente un nome. DUBBER SIDE OF THE MOON è l'estensione naturale di quel progetto - Dub Side of the Moon per l'appunto - e seguendo le più sofisticate tecniche di post-produzione sposta le lancette dell'orologio ulteriormente in avanti.
Se già la ripresa di uno dei best-seller dei Pink Floyd era apparsa estremamente coraggiosa, utilizzando tutto l'esotismo dei ritmi in levare, questo disco sconvolgerà ulteriormente le credenziali del combo newyorkese. Dopo essersi tolti la soddisfazione di apparire come star internazionali al Festival di Sanremo del 2009, EasyStar All-Stras fanno quadrato e chiamano a loro alcuni dei più rinomati mentori della musica jamaicana moderna assieme a producer britannici ed artisti internazionali che ne hanno alimentato la fiamma.
Tenetevi forte, perchè i nomi dei cospiratori sono poco meno che leggendari.

Groove Corporation, 10 Ft. Ganja Plant, Mad Professor (che rivede una vibrante On The Run) , Adrian Sherwood, Dubphonic, Liquid Agents, Dubmatix, Dreadzone, Victor Rice, Kalbata, Scientist, Michael G, Border Crossing e J.Viewz, questi gli artisti che prendono parte alla rivisitazione di Dub Side Of The Moon.

Affidando la propria musica ad un team di professori del ritmo fa lievitare le quotazioni del progetto stesso, rendendo questa nuova esperienza necessaria, rivelatrice.
Con un suono che arriva anche a toccare le più coraggiose invenzioni ritmiche degli ultimi anni - frequente il ricorso ai ritmi spezzati come a mutazioni di chiara marca dubstep - il disco è un esperimento decisamente riuscito.
Un'interpretazione futuristica dicevamo in apertura, non temiamo di essere smentiti

Da questo link è possible scaricare gratuitamente il singolo: Money (The Alchemist Remix)

La colonna sonora del nuovo film di Oliver Stone


Ecco la colonna sonora del tanto atteso sequel a Wall Street (pellicola iconografica con Michael Douglas nella veste di protagonista) firmato da uno dei registi più hip dell’industria cinematografica americana: Oliver Stone.
Un soundtrack quanto meno variegato, che poggia sull’estro di un sempre più multifome David Byrne, da anni impegnato nel sincronizzare appropriatamente musica ed immagini.
Sono ben nove le tracce accreditate all’ex-Talking Heads presenti in scaletta, a partire dai felici estratti da Everything That Happens Will Happen Today, ritorno in tandem del 2008 con il re mida Brian Eno e seguito al capitale My Life In hte Bush Of Ghost.
Wall Street: Money Never Sleeps. Èsce per Todo Mundo Records.
Dopo i recenti lavori che lo hanno visto collaborare con il dj Fatboy Slim nelle 22 tracce ispirate a Imelda Marcos (Here Lies Love) ed il Playing the Building (un’installazione sonora interattiva presso il Battery Maritime Building di New York ed il Roundhouse di Londra) Byrne torna ad una sua antica passione parallela, alimentando con un ispirato flusso lo scorrere delle immagini, con una New York ‘borsistica’ sempre più prossima al tracollo.
L’altra figura di spicco è’ un habituè del mondo della celluloide, Craig Armstrong che contribuisce con be tre tracce originali.
La pubblicazione dell’album sarà accompagnata da un vivace battage pubblicitario a cura della Twentieth Century Fox, casa produttrice del film.

Tracklisting:
1. Prison - Craig Armstrong
2. Home - David Byrne & Brian Eno
3. Life is Long - David Byrne & Brian Eno
4. Sleeping Up - David Byrne
5. Strange Overtones - David Byrne & Brian Eno
6. Money - Craig Armstrong
7. My Big Nurse - David Byrne & Brian Eno
8. Helicopter Reveal - Craig Armstrong
9. Tiny Apocalypse - David Byrne
10. Lazy - David Byrne
11. I Feel My Stuff - David Byrne & Brian Eno
12. This Must Be The Place (Naïve Melody) - Talking Heads

Le canzoni di Federico Garcia Lorca interpretate da Josephine Foster


La collezione di canzoni popolari scritte da Federico Garcia Lorca e raccolte nel volume “Las Canciones Populares Espanolas” hanno rappresentato una voce in opposizione al regime franchista e sin da allora entrano di diritto nel patrimonio della tradizione spagnola.
Queste stesse canzoni - messe al bando durante gli anni della dittatura - rivivono oggi grazie all'interpretazione di Josephine Foster e del suo compagno Victor Herrero. La Foster che più volte si è confrontata con la scuola pre-war folk americana e che ha translato le composizioni di Schubert, Schumann e Brahms (nell'album A Wolf in Sheep's Clothing) si confronta con un'altra istituzione della storia moderna, mostrando quanto il suo approccio alla musica autoriale sia trasversale ed assolutamente svincolato da limiti logistico/caratteriali.
In questa performance acustica i due - accompagnati da un selezionato manipolo di musicisti - rivedono la poesia di Lorca con spirito contemporaneo, mostrando una indiscussa personalità. La nuova band - nata in quel di Grenadine Sierra - è l'ennesimo veicolo espressivo della Foster che dalla primordiale ripresa del Tin Pan Alley e del british folk sembra aver compiuto proverbiali passi da gigante, accedendo sempre a nuovi habitat sonori. Anda Jaleo è stato inciso rigorosamente dal vivo, viscerale celebrazione di canzoni che dall'alto del loro anonimato hanno abbracciato un'intera cultura.