30/09/10

Il miraggio di Stan Ridgway


"Neon Mirage": con questo nuovo titolo si ripresenta Stan Ridgway, una delle voci americane più significative degli ultimi 30 anni, chansonnier autentico che ha cavalcato il vento della new wave più sotterranea per poi dar vita ad una sfavillante carriera solista. Da tempo l’incantesimo si è compiuto, i suoi Wall Of Voodoo riprendevano la Ring Of Fire di Johnny Cash, oggi Stan con il suo immaginario si avvicina sempre più a the man in black, mostrando peraltro un maggior eclettismo dal punto di vista compositivo. Merito della sua versatilità come musicista ed arrangiatore. "Neon Mirage" offre già un senso di quello che sarà il corpo tematico del disco, un miraggio metropolitano che prende vita attraverso brani dal taglio diverso. Canzoni folk, ballate nere come la pece, momenti di esotismo moderno, jazz in punta di piedi, hillbilly al rallentatore, country-blues da fine intellettuale. C’è lo Stan che abbiamo imparato a conoscere ed altro ancora, tanto che "Neon Mirage" è una di quelle imprevedibili scatole cinesi che nasconde chissà quali meraviglie. Un disco da assaporare lentamente, come i buoni vini. Da un quasi traditional che odora di estese praterie come "This Town Called Fate" alla giostra di sentimenti di "Desert Of Dreams", quasi un luna park illuminato a giorno con un orchestrina che si esibisce all’ingresso. Dagli organetti addirittura psichedelici della title track alla cover in punta di piedi di "Lenny Bruce" (dedicata al comico/cabarettista newyorkese) originariamente firmata Bob Dylan. Un universo che si riflette nella voce unica di Stan, menestrello che non pone certo limiti alla sua arte.

Stan Ridgway "Lenny Bruce"


Grande ritorno per i Superchunk di Mac McCaughan


Il 2010 è stato l’anno delle grandi reunion, dei tour a sorpresa, del definitivo risorgimento dell’indie-rock. Non potevano certo mancare all’appello i Superchunk di Mac McCaughan, tra i protagonisti assoluti di tutta la scena underground dei nineties. I loro dischi uscivano per la Merge dello stesso Mac (che – scusate se è poco – può vantarsi di aver lanciato Arcade Fire e Lambchop) negli States, mentre in Europa era la solerte City Slang a licenziarne i lavori. Seguendo quella stessa dinamica è ora One Four Seven ad acquisire la licenza continentale per "Majesty Shredding", album che rilancia con prepotenza il quartetto originario di Chapel Hill, North Carolina. Undici brani per 41 minuti di magniloquente indie, tanto che lo stile del gruppo non sembra aver subito grandi mutazioni negli ultimi 20 anni, continuando a sfrecciare sull’autostrada che fu una volta del college rock ed ora del più ingentilito post-punk. Sono le canzoni a brillare di luce propria. Dal singolo apripista "Digging For Something" al bel mid-tempo "Fractures in Plaster" alla epica chiusura di "Everything At Once". C’è tutta l’esuberanza giovanile degli esordi in "Majesty Shredding", disco che ci consegna inalterata la miscela della band il cui suono sembra l’aggiornamento più logico di quanto prodotto in passato da Replacements, Soul Asylum, Pixies e primi Lemonheads.


Superchunk - Majesty Shredding from Merge Records on Vimeo.


29/09/10

Emma Tricca in Italia



Nasce in Italia, ma la sua nuova dimora è da tempo Londra. Britannica non solo d’adozione, Emma Tricca riscrive a lettere chiare la tradizione british folk, facendo risuonare le sue corde in maniera brillante, adoperandosi così in una ripresa personale di una tradizione centenaria. Un incontro chiave ha ispirato la sua vena artistica. Poco meno che esordiente, durante gli anni di apprendistato come folk-singer, Emma si imbatte in Roma in un maestro capitale come John Renbourn, l’uomo che ha ridefinito con la sua chitarra le componenti stesse della musica tradizionale inglese. Dopo un suo show romano Emma suona un brano al maestro, che immediatamente ne esalta le qualità, invitandola a perseguire la strada della canzone d’autore. Questo il preludio ad un imminente pellegrinaggio. Dato il suo amore per i musicisti che hanno avuto i loro natali nel Greenwich Village, New York è la prima tappa del viaggio spiritual/artistico. Il Texas è un ulteriore ponte di passaggio, prima che Londra divenga la sua nuova residenza. Nel 2006 è notata dal dj e produttore Andy Votel, l’uomo responsabile dei marchi Twisted Nerve/Finders Keepers, che la vede esibirsi al Green Man festival in Galles. Nel 2007 sarà ospite - grazie all’intercessione del suo nuovo magnate – al Meltdown festival curato da Jarvis Cocker dei Pulp. Un’ulteriore vetrina che in prospettiva farà crescere l’interesse nei suoi confronti. Un tour di spalla a John Renbourn permetterà alla nostra di ridurre il gap esistenziale tra vecchie e nuove generazioni. Il suo debutto per Finders Keeprs/Bird, che esce finalmente anche nel nostro paese, porta il titolo di "Minor White" ed è il frutto delle miglia percorse in viaggio, con canzoni dall’estro bucolico che si accavallavano nella sua mente. Registrato presso il celebre Times Studios il disco riassume esperienze di vita, cullate nei morbidi arpeggi della sei corde acustica. Un disco ch con spiccato ottimismo guarda al futuro, conservando i crismi della più antica canzone britannica.

"Powerful and emotional" (Mojo)

Emma Tricca arriva in Italia per alcune date live:
29 Settembre - Cokney Pub Jazz Club, Correzzola (Padova)
7 Ottobre - Caracol, Pisa
8 Ottobre - Twiggy, Varese
9 Ottobre - L'una e trentacinque circa, Cantu'

Dan Mangan su Arts & Crafts



Nell’agosto del 2009 Dan Mangan pubblica il suo secondo album, dall’auspicabile titolo "Nice, Nice, Very Nice" per il mercato canadese. Dopo tre anni e mezzo di intensi tour e dopo il debutto con "Postcards And Daydreaming", diviene così una delle voci più autentiche dell’indie nord-americano più legato al roots-rock. "Nice, Nice, Very Nice" taglia un traguardo importante, raggiungendo il primo posto in Canada tra i download di iTunes. Dopo l’investitura da parte di NME – risultando tra i talenti più cristallini della scena locale - Arts & Crafts presenta ufficialmente il talento al resto del mondo. Arriva ora anche in Europa l’atteso manifesto cantautorale di Mangan, un bel saggio delle doti del songwriter, da sempre illuminato dalle figure statuarie di Nick Drake e Beatles. Ha già conquistato la platea del festival SXSW e a breve sarà nel vecchio continente per una serie di concerti. Il live è la piattaforma ideale per godere del suo naturale talento. Le sue canzoni hanno sapori antichi, ma riescono a convivere con la semplicità di arrangiamenti moderni, una patina sicuramente più seducente per dar lustro al suo operato. L’NME aveva addirittura suggerito un paragone altisonante per il giovane interprete, scrivendo più o meno: "If Woody Guthrie had listened to Godspeed You! Black Emperor…". Una bella ipotesi, che in parte trova conferma nell’asprezza di brani prevalentemente acustici, arricchiti da arrangiamenti fiatistici sottili e da una stentorea voce femminile per il controcanto. "Nice, Nice, Very Nice" è già sinonimo di maturità, aspettiamo solo di abbracciarlo dal vivo.

28/09/10

Primo album solista per Scott "Wino" Weinrich


Robert Scott Weinrich, meglio noto come Wino, non è certo il tipo che necessita roboanti introduzioni. E’ passato e presente di tutto un modo di intendere la musica heavy in America, un’istituzione vivente, una sorta di monito per le generazioni a venire. Le sue fondamenta si possono ritrovare nella Washington DC di fine 70, quando era un giovane rocker ed abbracciava fedelmente il credo di un tetro hard-blues. Amico intimo di Ian McKaye sin dalla notte dei tempi, Wino fondò gli Obsessed negli eighties, praticamente una delle prime formazioni statunitensi devote al verbo doom. Poi il passaggio agli altrettanto leggendari Saint Vitus, fiore all’occhiello di un’eclettica SST. Una cosa è certa, negli ultimi 30 anni il nostro ha prodotto musica senza soluzione di continuità, capeggiando Spirit Caravan, The Hidden Hand ed il supergruppo Shrinebuilder (con membri di Neurosis, Om e Melvins). Ritrovarlo distante dal clima delle sue sortite stoner/doom è quindi motivo di grande curiosità. Perché il Wino di "Adrift" non è altro che il lato più spettrale ed intimo del suo ego. Un progetto che si avvicina alle linee di demarcazione del folk più oscuro, arrivando a suggerire paralleli con grandi autori del calibro di Johnny Cash, John Sebastian (Lovin’ Spoonful), Woodie Guthrie e Bob Dylan. Le sue canzoni seguono infatti l’appassionato filone Americana, mantenendo comunque un’intensità sconosciuta a qualsiasi formazione indie di ultima generazione. Le sue abilità di songwriter e chitarrista trovano ulteriore conferma in una dimensione più raccolta, scrivendo ancora una volta la storia di un reietto che si è riscattato. Non a caso la riproposizione in chiave acustica di "Born To Lose" dei Motorhead può essere più di un esplicito avviso.

"The Red Pages" nuovo lavoro per Alessandra Celletti




Una collaborazione di prestigio che vede come protagonisti il polistrumentista britannico Mark Tranmer (già conosciuto per le sortite tra ambient e post-rock con i suoi Gnac, ben sei album all’attivo per diverse indipendenti europee) e la pianista/compositrice Alessandra Celletti. "The Red Pages" è stato registrato in uno studio romano, a suggello di una collaborazione germogliata sulle pagine di myspace, dove la Celletti e Tramer si sono virtualmente incontrati per la prima volta nel 2007. Registrato dal vivo in studio, il doppio cd contiene ben 25 tracce, suddivise in due dischi, il primo dei quali si compone di 8 temi principali ed altrettante variazioni. Il piano della Celletti è lo strumento principe che interpreta le composizioni di Trammer, i cui interventi alla Stratocaster sono poco più che sporadici. La musica prodotta dal duo è accostabile al minimalismo di compositori quali Michael Nyman, Phillip Glass e Wim Mertens, ma anche i nomi di Sylvain Chauveau e di un maestro quale Ennio Morricone, possono entrare nel novero delle influenze del duo. La Celletti ha di recente collaborato con un volto storico del cosiddetto krautrock come Roedelius (Cluster, Harmonia) nell’album “Sustanza di Cose Sperata”. La sua rilettura di"First Gnossienne" a firma Erik Satie è stata scelta dal regista inglese Guy Ritchie per la colonna sonora del film "Revolver" (2005). "The Red Pages" è soave poesia da camera dalle prospettive davvero entusiasmanti, una creazione che ci riporta ad un’intimità remota, agognata.

24/09/10

Anika, esordio su Invada


Se dei Beak avevamo apprezzato i ritmi motorici e quella spiccata vena cinematica, dobbiamo ora ricrederci e considerare quanto sia in realtà eclettico il loro modo di scrivere, almeno in determinate circostanze. Anika – una giornalista freelance solita lavorare tra Bristol e Berlino - si imbatte casualmente in Geoff Barrow (che oltre ad essere il batterista di Beak è anche il proprietario di Invada, nonché una delle teste pensanti dei Portishead), ignara del suo destino. Proprio Geoff era alla ricerca di una vocalist per dare ulteriore visibilità alla sua musica. Partendo da un amore condiviso per il punk, il dub e i girl groups degli anni ’60, i due si scoprono immediatamente complici artistici. Tempo una settimana ed Anika li raggiunge in studio al fine di lavorare su del materiale completamente inedito. Si sceglie la via della presa diretta, senza sovraincisioni, per restituire alla musica un feeling il più possibile autentico. Dodici giorni in totale per completare le incisioni, i quattro nella stessa stanza. Ne vien fuori un piccolo manifesto, in cui le formative esperienze del post-punk newyorkese e britannico si incrociano, sotto una buona stella. Reminiscenze di quel suono che poteva esser definito art punk o anche disco not disco, memorie di un Paradise Garage ma anche di un CBGB’s. Una musica che fluttua naturalmente rispondendo ai dettami della dance più battagliera, mai dimenticando il funk bianco e le ellittiche movenze del kraut. Tanta storia, ma un suono comunque coeso e un’esperienza quasi vitale. Dai tracciati sperimentali di "Yang Yang" ed "Officer Officer" al respiro di un traditional eseguito da Bob Dylan - "Masters of War" – sino al pop ovviamente trasversale di "Terry" ed "I Go To Sleep". Pubblicato in Europa da Invada, il disco esce negli States per Stones Throw, come dire: un ulteriore attestato di stima.


23/09/10

Peter Hook + Gary “Mani” Mounfield + Andy “Rourkie” Rourke = Freebass

Il nome della label - Hacienda Records – è di per sè un omaggio al celebre club di Manchester, centro cruciale per lo sviluppo della wave britannica. Indicativo che l’idea sia proprio di uno degli artefici di quel suono, uno dei motori ritmici che hanno definito l’essenza di un’intera generazione. It’s A Beautiful Life è il debutto assoluto per i Freebass, nati dall’incontro artistico di almeno tre figure cardine di tutta la scena british.

Alla testa del progetto Peter “Hooky” Hook (Joy Division / New Order), con lui Gary “Mani” Mounfield (The Stone Roses / Primal Scream) ed Andy “Rourkie” Rourke (The Smiths), che aderisce a Freebass nella veste di musicista da studio. Gary Briggs è il frontman della band, ruolo di responsabilità di fronte a tali pesi massimi, ma anche l’ex di Haven e Strays contribuisce con la sua vocalità a definire le coordinate della nuova band. Che non rimarrà circoscritta al solo studio d’incisione, tanto da imbarcarsi presto in un tour europeo.

La popolarità dei personaggi coinvolti ha dato il là a numerose speculazioni, e quasi a contenere ogni più avventurosa ipotesi, arriva un disco d’esordio che risponde esattamente alle esigenze ed alla purezza dell’estetica brit-pop. Canzoni dunque, che rispettano un canovaccio trentennale, riconducendo i protagonisti alla primigenia culla. Aldilà di qualche ritmo in levare e di qualche ammiccamento dance, ascolterete delle cristalline e sempreverdi melodie pop, che rispettano in pieno il lascito dei grandi autori d’oltremanica.

L’esistenzialismo dei Joy Division, gli ammiccamenti eletrronici dei New Order, la scremadelia di Gillespie e soci come i ritmi cosiddetti baggy, sono sacrificati per un fine unico. La forma canzone. Che in tutto questo può avvalersi di spontanei richiami passatisti, come al northern soul ad esempio.

E’ l’esperienza al servizio dell’invenzione, una forma di rinnovamento che passa attraverso i crismi della classicità,come per incanto. Numeri melodici come It’s Not Too Late, The Only One’s Alone e Secrets And Lies possono già essere incanalati nel novero dei classici della musica inglese, con il loro piglio essenziale e la solida targa di evergreen.


20/09/10

Il ritorno di Ice Cube



Mentre la sua popolarità cresce a vista d'occhio in tutti i paesi, grazie alle sempre più frequenti apparizioni televisive ed alle non meno eclatanti uscite sul grande schermo, Ice Cube, uno dei padri del moderno hip-hop, ci tiene a sottolineare come il suo impegno sia ancora devoto verso le origini di questa musica. Lo fa con album I Am The West, un distillato di street-knowledge che conforta la sua buona stella.
Fermo nel ribadire come lui sia un b-boy per destinazione, Ice Cube continua a scrivere testi sagaci, producendosi in sempre spettacolari performance dal vivo. Detto della sua carriera di attore in continua ascesa – da un film di genere come Boyz’n’The Hood al successo al botteghino del war-movie Three Kings (al fianco di George Clooney), passando per la fantascienza metafisica di John Carpenter con Ghosts Of Mars - il nostro sembra non aver smarrito lo smalto dei giorni migliori.
Fuori dalla Compton degli N.W.A. - elemento di riferimento della formazione di Los Angeles al fianco del produttore Dr. Dre - ha prodotto in veste solista alcuni degli album definitivi dell'hip-hop west coast, basti pensare alla doppietta iniziale con AmeriKKKa's Most Wanted e Death Certificate, dischi quintessenziali per la genesi della moderna black music.
I Am The West è sin dal titolo una dichiarazione d'intenti, l'accento è sulla sua origine occidentale, working-class, un'identità mai messa in discussione dal music-biz.
Sempre alta la critica sociale, che è al centro delle sue liriche, voce di riferimento per le minoranze, in un disco fondamentalmente e religiosamente hardcore.

17/09/10

Il ritorno dei Giant Sand - Blurry Blue Mountain

Parlare dei Giant Sand è come fotografare un grande momento della musica americana, quella più legata alle tradizioni roots, capace comunque di rinnovarsi nel corso degli anni, attraversando le polverose strade del country & blues, spesso sporcandosi di elettricità e seducendo sempre con la scrittura ispirata del suo leader Howe Gelb. Il 2010 è anche anno di celebrazioni.
E’ il 25nnale dell’album di debutto Valley Of Rain, disco di debutto oggi ripubblicato in versione deluxe dall’attivissima Fire Records. Visto da più parti come il padrino dell’alternative-country, Howe Gelb al pari di Jeff Tweedy dei Wilco, è una delle figure cardine di uno stile musicale che - lungi dal tramontare - continua a stupire per argomenti ed invidiabile seguito di pubblico.
Persi da lungo tempo i collaboratori storici Joey Burns e John Convertino – impegnati da anni nella fortunate avventura Calexico – Gelb ha ricostituito una formazione puntando su collaboratori del nord-europa come Thoger T. Lund Homemade – contrabbasso - Peter Dombernowsky – batteria - Anders Pedersen – chitarra slide - Nikolaj Heyman – chitarra e wurlitzer - e Lonna Kelly, voce.
Da Tucson, Arizona, Gelb ha costruito la sua legacy – per dirla all’inglese – incamerando progressivamente nuovi stili musicali da affiancare ad una visione rivista e corretta del genere’americana’.
Accade così che nell’ultimo parto a studio Blurry Blue Mountain, il suono dei Giant Sand sia contenitore volubile in cui incamerare swing e soffusi arrangiamenti jazz, esempi imperdibili di western roots e addirittura accelerazioni in odore di post punk Si tratta di un mondo sommerso, di un universo in cui la memoria gioca un ruolo importante. Un gioco di rimandi in cui le atmosfere desertiche rimangono l’unico sottofondo possibile. Bentornato Howe.

Ascolta Blurry Blue Mountain da questo link

Nuovo album per gli Swans su Young God Records

Ci sono uomini - rari fuoriclasse invero - che sanno prendere una squadra per mano. Michael Gira dal canto suo, dopo aver fatto a lungo il gregari ma anche il talent-scount (vi basti il nome di un esordiente Devendra Banhart), si riprende i suoi Swans. La creatura che mai aveva più osato rievocare. Nemmeno fosse un'inquietante personaggio biblico, il cui solo ritorno sulla terra avrebbe portato a chissà quali catastrofiche conseguenze.
Nel mezzo c'è stata la sua carriera solista, dalla crepuscolare vena cantautorale alle più sofiste evoluzioni di Angels Of Light, comunque lontane dal frastuono della New York anni '80.
In un raptus quasi estatico gli Swans si riformano, con un organico ovviamente rivoluzionato. Sono della partita Norman Westberg – chitarra (dalla formazione originale) - Christoph Hahn – chitarra (Swans medio periodo ed Angels Of Light) - Phil Puleo batteria, percussioni, dulcimer (Cop Shoot Cop, Angels Of Light) - Chris Pravdica – basso (Flux Information Sciences / Services/ Gunga Din) - Thor Harris - batteria, percussioni, vibrafono, dulcimer (Angels Of Light, Shearwater)
Deve esser stata una decisione sofferta ad ogni buon conto, tanto che l'argomento Swans è spesso un tabù nelle interviste rilasciate da Gira. Ma ecco puntuale lo statement: questa non è una reunion. Non è un patetico atto nostalgico. Non è una bieca ripetizione del passato. Dopo cinque album con gli Angels of Light , avevo bisogno di uno stimolo per andare avanti, verso una nuova direzione. L'idea stessa di rinverdire gli Swans mi ha permesso di farlo.
My Father Will Guide Me Up a Rope to the Sky è l'album che in molti attendevano, pur essendo profondamente diverso e altrettanto potente. Si apre con l'epicità di “No Words / No Thoughts,” ma presto dirotta verso territori più'pastorali' con quella che è una vocazione naturale di Gira per la musica folk. E' il risveglio del gigante, tumultuoso quanto volete, ma pur sempre preda di mistiche fascinazioni.

Ascolta il brano "Eden Prison"

16/09/10

Helmet


Quanto meno seminali nel passaggio dal brutale proto-hardcore newyorkese a più raffinati scenari hard-noise, gli Helmet sono stati per anni pietra di paragone per tutte quelle formazioni che hanno plasmato il noise, entrando di diritto negli annali dell’alternative rock meno incompromissorio. Partiti come eminenze grigi ne catalogodella superlativa Amphetamine Reptile, già all’altezza del secondo disco – Meantime – strappano un contratto miliardario alla Interscope facendo saltare l’intero banco. Anni ed anni di vicissitudini hanno poi portato la formazione a vivere momenti di stasi, con l’abbandono progressivo dei membri originali in favore di sempre motivati nuovi ingressi. Lo stoico leader Page Halmilton – chitarra e voce – rimane a difesa del fortino, perennemente. Seeing Eye Dog arriva a ben quattro anni dal precedente Monochrome, pubblicato nel2006 ed è la prima uscita per l’indipendente Work Song. E’ anche il settimo album in ordine d’apparizione per la band di New York. Prodotto dallo stesso Hamilton il disco gode anche dell’assistenza tecnica di Toshi Kasai e Mark Renk. E’ evidente la progressione del gruppo nel corso di questi anni, con un sound che si allinea sempre più indissolubilmente a radici hard-blues Dieci tracce nel disco: di spicco Welcome To Algiers, White City, la strumentale Morphing e l’irriconoscibile cover dei Beatles And Your Bird Can Sing. Con Hamilton il batterista Kyle Stevenson, il chitarrista Dan Beeman ed il bassista Chris Traynor da anni nell’emisfero del gruppo.

14/09/10

Night Horse, secondo album per la band californiana



Sono una delle migliori formazioni di puro hard-rock in circolazione i losangeleni Night Horse. La loro è una stella che brilla di luce propria nel firmamento del rock californiano. E' del 2008 la loro prima apparizione dal vivo, subito suffragata da una calorosa accoglienza di critica e pubblico. La loro musica è un tributo moderno agli stilemi in vigore nei seventies, da qui un attenzione particolare per gli arrangiamenti e per un sound molto pieno. Un rock che tracima e che nel blues trova la sua più rispettosa ascendenza. C'è sicuramente una maniera analoga agli Zeppelin nel trattare le dodici battute, insieme ad una conoscenza compiuta dei propri mezzi, tale da spingerli in territori come il southern o la tradizione delle jam band americane. Ecco all'orizzonte le sagome di Allman Brothers e Fleetwood Mac, i primi, quelli guidati dall'estro chitarristico di Peter Green. "Perdition Hymns" - che esce su Tee Pee facendo seguito al debutto "The Dark Won't Hide You" edito da North Atlantic - è così la puntuale riconferma per un gruppo che del suono vintage ha fatto un credo. Con la voce suadente di Sam James, una sezione ritmica al fulmicotone e dei riff morbidi su cui far decollare i pezzi, i Night Horse compiono un altro passo verso la classicità, confermandosi tra i più fieri supporter di una intramontabile tradizione rock anglo-americana.

13/09/10

Darkstar - North (Hyperdub Records)

L'album di debutto dei Darkstar segna una nuova era nell'ambito delle musiche ritmiche.
E' proprio la giovane - ma lungimirante - Hyperdub (Burial, Kode9, Ikonika) a tenere a battesimo l'opera prima del trio londinese, che già aveva ben impressionato con un dodici pollici che lasciava presagire grandi cose. Il singolo Aidy Girls Is A Computer sul finire del 2009 aveva preparato il terreno a qualcosa di realmente innovativo. Con North la metamorfosi si compie e quelle che erano le memorie sintetiche del gruppo - in un impressionistica revisione del clima elettro anni '80 - si uniscono ad una vocalità duttile, con il frontman James Buttery ad occupare un ruolo di primissimo piano.
La produzione è curata dal team composto da James Young ed Aiden Whalley, che sembra mandare memoria anche i momenti topici del pop sensibile al fascino della musica elettronica. Ne viene fuori un disco emotivamente ricco.
Rimane comunque l'aurea grigia della Londra after midnight, un'idea di seduzione diversa dalla norma. Sono canzoni che hanno il vezzo di entrare sottopelle, inseguendo proprio le volte di un universo interiore.
Se ad esempio prendiamo When It's Gone - originariamente nota come Squeeze My Lime - cogliamo il senso di questa appassionata operazione, che anche nella scelta degli strumenti si fa molto interessante, per non dire spregiudicata.
Ricorrendo ad un armamentario di sintetizzatori vintage, archi dal tono barocco, pianoforti stridenti e finissimi glitch elettronici, i Darkstar compiono il miracolo.
Descrivendo così un ponte tra ciò che era comunemente inteso come wave e ciò che rimanda alla cultura del dancefloor.
Elegante melanconia, immagini che riflettono un universo decadente, una polaroid in bianco e nero che si staglia contro il rutilante suono moderno. E quando ascolterete Gold- praticamente ispirata dalla You remind me of Gold, succesos minore degli Human League - vi sembrerà di planare su un di un'altra atmosfera.
E' il disco che i nostalgici del downtempo attendevano da anni, ma anche l'album che appassionerà i seguaci dell'hypnagogic pop.
Se John carpenter - autore appunto dell'omonima pellicola, suo debutto cinematografico del 1974 - avesse mai incontrato i Radiohead, questo sarebbe stato il risultato più prossimo alla realtà.

Lloyd Turner, il disco di esordio


Lloyd Turner è una formazione votata ad un sofisticato ed etereo suono strumentale. Il duo si compone di Paolo Tornitore e Donato Loia, quest’ultimo già protagonista coi Lento nell’album d’esordio "Earthen", edito dalla Supernatural Cat. "Hints" è la prima prova della formazione e rispecchia da vicino il loro interesse per composizioni dal piglio austero, in cui arrangiamenti dal gusto minimale e minimalista circoscrivono l’intimità di un lavoro dalle tinte fosche, autunnali.
Ogni singolo brano si sviluppa su temi reiterati, giocando su riflessi pianistici dal sottile gusto contemporaneo. Nella brevità delle composizioni si coglie il senso di una ricerca puntuale, dove è l’essenzialità a trionfare. Simultaneamente al lavoro del piano si registra l’opera della sei corde, quasi a cementare le fotografie in nero seppia, che come cartoline da un altro dove accompagnano la scaletta del disco. "Hints" è stato così partorito nell’economia dei contributi musicali, con la prerogativa di dare lustro agli intrecci del tutto particolari di chitarra e piano, verso una classicità inedita nel mondo del rock più evoluto. Il disco è stato registrato, mixato e masterizzato tra Luglio e Ottobre 2009 da Lorenzo Stecconi (Lento, Edible Woman, Ufomammut, Leo Minor…) presso il Locomotore Studio di Roma, fatta eccezione per le parti di piano immortalate da Matteo Spinazzè (Dalek, Zu, Nobukazu Takemura, Mats Gustaffson, Lento) all’ S3000 Studio di Roma. Il disco – che esce per Face LIke Frog - viene distribuito in esclusiva per l’Italia da Goodfellas, mentre sarà diffuso nel resto del mondo dalla prestigiosa inglese Recommended Records nel resto del mondo.


Quest For Fire



Nel momento esatto del loro esordio, i Quest For Fire erano già certi di ricavarsi un ruolo di primissimo piano nel rock indipendente canadese. Tee Pee sulla scorta di quella prima prova ribadisce il sodalizio, ribadendo come il gruppo di Toronto sia una priorità per la label californiana. "Lights From Paradise" non poteva che essere il titolo di questa bella rentrèe. Rimettendoci alla storia della band Chad Ross ed Andrew Moszynski erano parte integrante dei garage rockers Deadly Snakes, che abbiamo apprezzato con le loro sulfuree pubblicazioni per In The Red, mentre Mike Max era impelagato nella band hardcore/metal Cursed. Un curriculum di tutto rispetto per una formazione che non fa altro che incrociare gli stili, prendendo dalla rude immediatezza del garage-punk e dalla visionarietà della psichedelia. Pesantezza al servizio della mente, liquidi passaggi che si uniscono a un robusto rifferama. Una distesa cosmica battuta da mezzi anfibi, marziani del pentagramma che oltre al rock duro amano viaggiare in altro dove.


12/09/10

BXI is Boris With Ian Astbury



Del trio giapponese abbiamo sicuramente apprezzato l’interdisciplinarità, passare in maniera repentina dai fondali del doom-rock più incompromissorio ad immaginifiche spianate psichedeliche è stato per loro un gioco quasi da ragazzi. Ci avevano preparato a tutto gli autori di Boris e Absolutego, meno che a un incrocio mozzafiato con la voce dei Cult. Ian Atsbury, dal canto suo, oltre ad aver prestato la sua caratteristica ugola ad una versione dei redivivi Doors, ha mostrato lo spirito giusto a calarsi nel progetto. Che per il momento si concretizza in un ep dal sapore molto old-fashioned. Sembra infatti che l’hard di stampa seventies sia il comune denominatore di questo BXI, prodotto con sommo piacere dalla Southern Lord di Greg Anderson. Registrato e mixato a Tokyo a fine aprile, il disco mette in fila quattro tracce di rara potenza e stile, tanto da far gridare al miracolo. L’amalgama dei due elementi è talmente puntuale che i quattro sembrano collaborare da una vita. A dimostrazione di ciò la cover del classico dei Cult "Rain" è qui interpretata alla voce da Wata. Grafica stilosissima a cura di Stephen O’Malley. Il resto è già storia (della musica heavy).

03/09/10

The Main Street Gospel



The Main Street Gospel è un trio di Columbus, Ohio che ha l'abitudine di fondere un rock genuinamente classico - dalla discreta vena psichedelica - con umori sapientamente country-blues. La band è stata messa in piedi da Barry Dean, originariamente percussionista per Brian Jonestown Massacre. Ryan Ida è l'altro songwriter di riferimento, insieme mostrano di aver mandato a memoria le regole fondanti del rock'n'roll, sfogliando con dimistichezza le pagine più peccaminose della musica del diavolo. Nel loro approccio si coglie una fascinazione suprema per il west-coast sound ed in particolar modo per giganti come The Byrds e Crosby, Stills, Nash & Young. L'estetica è pero moderna, e la patina vintage del loro disco è pressochè rimossa da forti dosi di voluttuoso rock dei tardi 80/primi 90. Parliamo di sogni ad occhi aperti e della rinascita psichedelica. Quindi visioni e chirtarre che sembrano una sciamanica risposta ai lisergici Spaceman 3, ma anche cavalcate rock più morbide, addirittura desertiche, con un piglio quasi à la Black Rebel Motorcycle Club. Ne vengono fuori brani brevi, ma stratificati, per un debutto che odora certo di classicità ma non teme confronti con i più colorati manifesti del rock contemporaneo. Undici brani che hanno spinta e gusto inossidabile, tale da poter ubriacare i fans dell'alternative country come quelli dello psych-rock. Una grande joint-venture...

Carillon Del Dolore/Petali Del Cariglione "Al Nostro Contempo" Box Doppio CD - Contempo/Spittle



Ad inaugurare il sodalizio tra la leggendaria Contempo di Firenze (marchio risorto come fenice) e Spittle Records, la ripubblicazione di uno dei lavori più significativi della scena gothic post-punk italica.. Il cofanetto accreditato a Carillon del Dolore/Petali del Cariglione a titolo ‘Al Nostro Contempo’ è uno dei momenti cruciali nel definire le traiettorie della più oscura e ardimentosa new wave italiana. Nella lussuosa confezione un libretto di 36 pagine con foto inedite e note dettagliate, oltre ai due album ripubblicati in CD separati, con copertine originali che replicano in versione ridotta l’artwork del vinile. Si tratta del primo e del secondo album della formazione gothic romana, attiva negli anni a cavallo tra il 1983 ed il 1986. L’esordio - Trasfigurazione – incanala la primitiva furia post-punk in un suono non meno avvincente, sicuramente di maggior respiro. Il mood è a tratti più glaciale ed i tagli delle composizioni quasi chirurgici. Si registra peraltro il passaggio definitivo al cantato in italiano, dopo gli inizi devoti alla lingua inglese. I testi sono pregni di riferimenti all’erotismo, alla sottomissione e alla necrofila, sfiorando così visioni apocalittiche oltre al sadismo concettuale del Marquis De Sade. “Capitolo IV°”, oltre ad essere impreziosito dalla produzione di Valor dei Christian Death (a suo tempo impressionato dall’approccio e dall’immaginario del gruppo), vede un cambio di formazione oltre che di ragione sociale, con la scelta di Petali del Cariglione. Due uscite che si definiscono fondamentali per il catalogo Contempo originale, finalmente riproposte in versione rimasterizzata e correlate da un art work davvero prezioso.

"1,000 Years" splendido disco solista di Corin Tucker delle Sleater Kinney




Non sempre la parola fine indica qualcosa di definitivo. Spesso le cose si rigenerano, assumendo nuove identità, prospettive. Nel particolare, dopo lo scioglimento delle Sleater Kinney, qualcuno temeva che le tre protagoniste del più frizzante indie-rock al femminile del decennio trascorso non potessero ricreare la magia originale, in autonomia. Invece Corin Tucker, una delle voci riconoscibili della band, torna ad emozionarci, confezionando un lavoro con formazione inedita, da oggi sua nuova ed omonima band, dopo 11 anni sotto la stessa ragione sociale, il coraggio e la voglia di sfidare la sorte, almeno quella artistica. Il tanto atteso debutto della Tucker è così una garanzia nelle sue turbolente volte pop emozionali, un gioco fatto di rimandi storici e soprattutto una piattaforma ideale per canzoni che parlano una lingua propria, distinta. Dalla natia Portland, Oregon, la nostra pone i primi mattoni di un edifico che si rivelerà solidissimo. Inizia tutto con un benefit show e con l'aprezzamento degli amici più intimi, da qui lo sprono a dar seguito a quella singolare apparizione. Ed è così che Corin riabbraccia seriamente l'idea di tornare nel buisiness, magari dando forme ancora più virtuose alla propria musica, senza rinunciare all'intesità che a lungo ha caratterizzato la parabola artistica delle Sleater Kinney.
E' un affare più sofisticato il suo esordio, che non poteva che essere sponsorizzato da Kill Rock Stars. Sono canzoni alimentate dal fuoco sacro del post-punk, laddove c'è la poesia di una giovanissima Patti Smith, unitamente alla versatilità del rock'n'roll più sonico e a certi passaggi pianistici che addirittura ci riportano all'Amanda Palmer dei Dresden Dolls. Ascolterete brani impeccabili, circondati dalla grazia degli archi (violino e violoncello), da un soave pianismo (la conclusiva Miles Away) e dall'uso mai ingombrante delle percussioni. C'è ancora tanta urgenza nella scrittura della Tucker, una manifestazione della sfera personale, un'intimità ricercata attraverso sottili giochi di luce. Un ritorno di quelli memorabili.

01/09/10

Jason Simon dei Dead Meadow pubblica il suo esordio come solista


Sorpresa, tripudio: il disco solista di Jason Simon è poco meno di un capolavoro, una prepotente immersione nei meandri della roots music americana, un'escursione nel deserto del folk più acido. E' in effetti un disco che semina aromi di frontiera, in ogni suo passaggio, nei fraseggi acustici come nei momenti elettrici. Un debutto che lo affranca dalla formazione madre Dead Meadow, con la quale ha contribuito non poco a ridefinire passaggi cruciali del nuovo hard rock, ricoprendo il doppio ruolo di cantante/chitarrista. Adorati tra i seguaci dello stoner rock, ma anche supportati nei circuiti indie (si pensi all'associazione con Matador), i Dead Meadow hanno sempre liberato effluvi psichedelici dal loro sound. Quello che Jason realizza in questo album è un puro distillato di canzoni lisergiche, seppur in punta di piedi. La sua musica si abbevera alla fonte santa di Leonard Cohen e Townes Van Zandt, recuperando anche il versatile stile chitarristico del geniale Sandy Bull. Non c'è alcuna velleità ritmica, l'intima dimensione dell'omonimo debutto è affare per menti elastiche, una carezzevole estasi sonora che ci instrada sulle antiche rotte dei menestrelli a stelle e strisce.

Swahili Blonde, nuovo cimento di John Frusciante

John Frusciante è uscito dal gruppo, ma l'episodio non fa più notizia. Semmai è bene ricordare come l'attività solista del chitarrista - ex dei Chili Peppers - sia stata sempre all'insegna del buon gusto e del coraggio. Carriera che oggi prende un ulteriore indirizzo, unificando il talento dell'uomo a quello della vocalist e batterista Nicole Turley che in passato aveva prestato servizio nei WEAVE! nel progetto a nome Swahili Blonde. Parlando poi di vecchie glorie della pop music è d'obbligo citare il cameo dell'ex Duran Duran John Taylor, bassista che in quanto a gusto trasversale non è secondo a nessuno, data la sortita coi Power Station del compianto Robert Palmer. "Man Meat" è frutto di un continuo assemblaggio sonoro, che spesso ha caratterizzato le notti insonni della Turley, dalla cui versatile penna si dipanano buona parte delle composizioni. L'intervento di Frusciante è stato cruciale però, la sua chitarra ha acceso la luce ed ha fatto in modo che la vena post-punk del progetto prendesse ulteriori - imprevedibili - derive, regalandoci squarci di canzoni lisergiche, ritmiche dub e processioni kraut rock. Sempre con una sintomatica vena romantica ed oppiacea. Spesso sono dei veri e propri mantra a prendere il sopravvento, rivelando una fascinazione nemmeno troppo celata per la musica dell'estremo oriente. Altri partecipanti al progetto sono la violinista Laena Myers-Ionita (The Like), la polistrumentista Stella Mozgawa (Warpaint) e Michael Quinn (Corridor). Presto una formazione di 8 elementi calcherà i più importanti palchi della California, prima di imbarcaris in un auspicabule tour mondiale. Stay tuned for more!