29/08/08

Pete Molinari

Due nuovi video per Pete Molinari tratti dallo splendido "A Virtual Landslide".





27/08/08

Koushik - Out My Window


Presso i quartieri generali della Stones Throw – con il boss Egon in testa - si sono sempre dichiarati fans della psichedelia, se possibile oscura e decadente. Quel tipo di sonorità che andrebbero a costituire un ipotetico Nuggets od un mixtape dal profondo senso mistico. Nessuna sorpresa, la storia ci ha insegnato come i dj’s siano i veri cratedigger, quelli che si fanno spazio a gomitate in mezzo ai polverosi scaffali di dischi, per mettere a segno l’agognato colpo a sorpresa. Un preambolo doveroso per narrare le vicende dell’oriundo Koushik, mezzosangue di origine indiana e con passaporto canadese. Accomunato per spirito di iniziativa all’altro connazionale Manitoba/Caribou, il nostro ha presto conquistato le grazie di Stones Throw grazie ad un ibrido fortemente lisergico a base di beats hip-hop e campioni d’epoca. Un caleidoscopio, letteralmente, dove brass band incontrano misconosciuti gruppi garage, grandi orchestre vanno a braccetto con fenomenali batteristi jazz, momenti di trance psichedelica sfumano nel pop d’autore. Il primo singolo di Koushik ha visto la luce non a caso per Text, indipendente a mezzo servizio gestita da Four Tet, altro cospiratore con cui il nostro deve condividere più di un punto filosofico in comune. La vera novità del disco – Out My Window, luogo d’osservazione speciale a ben vedere – è la voce dello stesso Koushik, il suo stile è soffice e posizionato proprio al centro della traccia (questo nell’ottica dei maniaci del mixaggio), e suona – a detta degli stessi interni di Stones Throw – come uno di quei cori ascoltati nei vecchi dischi di Percy Faith o delle 101 Guitars dei tardi sessanta. A prescindere dal fatto che siate seguaci degli artisti sopra menzionati, non potete davvero rinunciare a questo disco: un compendio ideale per chi ama il pop psichedelico immerso in salsa abstract funk.


26/08/08

Bellafea



C’è tutta la tensione delle migliori post-punk band americane nella musica dei Bellafea, trio originario di Chapel Hill, North Carolina. Al secolo Heather McEntire (voce, chitarra), Nathan Buchanan (batteria) ed Eddie Sanchez (basso). Sono al debutto lungo e certo non amano andare per il sottile, mantenendo un approccio piuttosto stringato per tutta la durata del disco. Nove i brani in questo loro esordio prodotto da Southern Records, una mezz’oretta essenziale in cui i migliori risvolti della musica chitarristica degli ultimi 15 anni si susseguono senza soluzione di continuità. Elevato il profilo emotivo di questo lavoro, che certamente fa tesoro delle esperienze passate di marchi quali Touch & Go o Dischord, in altre parole le pietre d’angolo della nuova cultura indie a stelle e strisce. Un approccio pieno di livore, ma a tratti melodrammatico quello dei Bellafea, laddove è un violino a sorreggere le sorti della semi ballata "Telling The Hour", in cui la vera protagonista è la malleabile voce di Heather. Un gruppo che non si bagna unicamente nel mare delle produzioni noise dell’ultimo decennio, mostrando in realtà di possedere un’anima prossima ad un songwriting più classico ed essenziale. In questa giostra di contrasti emotivi i Bellafea incidono un solco, complici anche i compagni di avventura locali (il trio è rispettato e idolatrato negli ambienti cittadini) John Danielle (Mountain Goats), Dave Laney (Milemarker, Challenger) e l’autore Brad Land (Goat, Pilgrims Upon The Earth). "Cavalcade", che sin dal titolo impone una certa spinta motoria alle dinamiche del disco, è un esempio di come si possa ancora concepire musica dal profilo fortemente adrenalinico senza in questo rinunciare a bollenti ed urlate melodie. Un esordio coi fiocchi.

22/08/08

Wild Billy Childish and the Musicians Of The British Empire


Si dice che la stagionatura renda spesso e volentieri giustizia ad alcuni prodotti. E’ la tradizione delle grandi case vinicole, ma chissà quanti altri prodotti alimentari potremmo tirare in ballo…lo stesso discorso vale per la musica, quella apparentemente semplice, granitica, che magari strappa un sorriso al primo ascolto, ma poi, necessariamente, s’insinua in quella parte della memoria dalla quale è difficile rimuoverla. Billy Childish è il musicista che fa per voi se avete seguito queste – poche – assolute regole.
Negli anni si è innalzato a baluardo della musica indipendente, con centinaia di produzioni a suo nome od anche attribuite ad altri oscuri nomignoli. E’ l’essenza che conta, quella di un rocker, nominalmente punk, legato all’estetica dei vari Back From The Grave e Pebbles.


A questo aggiungiamo l’ironia che – preziosamente - ha sempre corroborato le canzoni del nostro, tanto che Tatcher’s Children suona oggi non più come un monito ma come una sorta di pericolo scampato (almeno per chi li ha vissuti da vicino gli anni della lady di ferro). Wild Billy Childish and the Musicians Of The British Empire è la sigla d’uso in questa circostanza, se proprio vi chiedevate cosa avesse tirato fuori dal cilindro il buon Billy.

E’ il terzo album a questo nome, il terzo album in 3 anni di esistenza. Prolifici, nondimeno. Ci sono 12 nuovi brani, e non pensiate siano cotti lentamente. Le canzoni sono veloci e furiose, un codice operativo che Childish ha fatto proprio sin dagli esordi, a prescindere girasse disarmato (semi-acustico, in chiave skunk-folk) od accompagnato dagli strumenti di competenza (leggi un organico pieno che battesse vorticosamente il tempo alle sue spalle). E senza timore di ripeterci vi diciamo che è ancora un album essenzialmente bello, forse uno dei migliori realizzati in carriera.

Ogni 5 anni Billy viene riconosciuto come l’incarnazione dell’integrità rock’n’roll, ragion per cui – senza cedere a vili complimenti di sorta – ogni lustro decide di rimettersi in gioco e sciogliere la sua band in essere. The Musicians of the British Empire sono I suoi nuovi cospiratori, l’intesa è di quelle magiche, se pensiamo al numero di dischi registrati. Suonano una musica primitiva, memorabile. Un connubio tra esistenzialismo punk e coloriture rhythm and blues.

Copertina disegnata ad hoc da Jamie Reid, artista di culto che ha già lavorato al fianco dei Sex Pistols. Un altro saggio di urgenza tipicamente british.

The Musicians Of The British Empire sono: -
Wild Billy Childish – Vox / Guitar
Nurse Julie – Vox / Bass
Wolf Howard – Drums

Nuovo Album Per Holly Golightly

Holly Golightly (già con le Headcoatess, gruppo ausiliare di Billy Childish, ed intima amica dei White Stripes, un cameo su Elephant) e Lawyer Dave (praticamente un duo batteria/chitarra all’insegna della stringatezza) meglio noti come Holly Golightly & The Brokeoffs, tornano con un nuovo album da studio per la fida Damaged Goods, etichetta che non hanno mai abbandonato sin dai tempi del loro esordio con ‘You Can’t Buy A Gun When You’re Crying’ . Ne è passata di acqua sotto i ponti da quell momento, c’è stato addirittura un tour moniale che prevedeva ben 3 mesi di concerti negli states. Battere il ferro finchè è caldo, deve esser stato più o meno quello l’avviso, dopo la fortunate partecipazione di Holly alla colonna Sonora del celebrato film di Jim Jarmusch Broken Flowers. Il loro secondo album è stato registrato in Spagna, proprio durante la branca europea della tournèe. Sentiamo le stesse parole dei protagonisti:

“In studio...Questo particolare progetto è stato registrato nel mezzo di un tour di 50 data, durante l’unica pausa disponibile. In quella settimana eravamo a Gijon, Spagna, sulla costa del nord. Abbiamo deciso di registrare da quelle parti presso uno studio analogico dal nome Circo Perotti, che è attrezzato con un’amabile selezione di microfoni d’epoca. Dopo esserci confessati con tutti i fantasmi, i goblins ed i gremlins insediati nello studio e nelle macchine, l’album è stato completato in 5 giorni... praticamente un giorno in più di quanto non avessimo impiegato con il disco precedente, potrebbe sembrare addirittura iperprodotto date le premesse.

Questo disco si chiama "Dirt Don't Hurt", proprio perchè non vuole infastidire nessuno. E’ stato unicamente prodotto da noi.”

Al solito i nostri non amano dichiarazioni ad effetto, calandosi in quella che è la ‘divisa’ dei proletari della musica. Sono le canzoni a parlare ad ogni buon conto, sottili interpretazioni in bilico tra r&b e country, corroborate da accenti garage e sfiziose atmosfere noir. E’ il calvario del rock’n’roll attraverso la redenzione soul, un patto non necessariamente con il diavolo.

http://www.hollygolightly.com/
http://www.damagedgoods.co.uk/

21/08/08

Quando Brian Wilson produceva psych-poetry

Stephen John Kalinich - A World Of Peace Must Come (Light In The Attic)

Vede finalmente la luce il disco prodotto da Brian Wilson grazie alla sempre più incredibile Light In The Attic!

Stephen John Kalinich è nato ad Endicott, nello stato di New York ed è cresciuto a Binghamton. Durante la sua adolescenza è molto il tempo passato nel redigere articoli e addirittura poemi sulla pace mondiale. Arriva in California per la prima volta nel 1964, se ne innamora e prontamente si trasferisce dall’Harper College di New York all’UCLA.

Kalinich si immerge anima e corpo nella vibrante cultura antimilitarista dei tardi ’60 californiani, spesso producendo poesie e scritture sull’argomento. Trova un fido collaboratore musicale - oltre che uno spirito affine – in Mark Lindsey Buckingham. Registrano un provino per una traccia a titolo Leaves of Grass, ispirata dal celebre omonimo poema di Walt Whitman e forti di questa interpretazione si presentano alla corte delle label indipendenti e non del periodo.

Nella metà dei ’60, sia stato presso gli uffici della Brother Records o durante una fermata ad un rifornitore di benzina, Kalinich si imbatte per la prima volta nei Beach Boys. Entra subito in confidenza con Brian, Carl e Dennis. E’ il primo artista ad essere scritturato per Brother Records (marchio di legittima proprietà degli eroi pop californiani), lo stesso Carl Wilson si siede personalmente in cabina di regia in frequenti occasioni. Arrivano i suoi primi brani Little Bird e Be Still, quest’ultima è scritta a quattro mani con lo scapestrato batterista Dennis Wilson e vede la luce all’interno dell’album Friends. La sua relazione artistica con Dennis porterà ad ulteriori fruttuose collaborazioni, distribuite in lavori dei ’70 e dei primissimi ’80: ‘All I Want To Do’ in 20/20, ‘A Time To Live In Dreams’ in Hawthorne, CA, ‘Rainbows’ in Pacific Ocean Blue e ‘Love Remember Me’ in Bambu .

A World Of Peace Must Come è un disco di Psych Poetry ed è stato registrato presso gli studi casalinghi di Brian Wilson a Bel Air, nel 1969. I nastri, come per incanto, furono smarriti, nottetempo. Per la prima volta in assoluto questo importante documento storico vede la luce, andando a riempire un buco importante nella discografica più oscura degli anni sessanta. Un culto planetario!

Of Montreal alla conquista del mondo




Ha un nome il nuovo album della vostra preferita – e colorata - ciurma psych-pop Of Montreal.
"Skeletal Lamping" sarà fuori il 7 ottobre per Polyvinyl, l’etichetta che ha contribuito a renderli celebri. Il predecessore del 2007 "Hissing Fauna, Are You The Destroyer" è l’album che ha spianato la strada del successo agli Of Montreal (originari di Athens, Georgia, la stessa città dei R.E.M.) dopo anni rigorosi di gavetta nei circuiti indipendenti e la consacrazione è arrivata anche attraverso le colonne del magazine on line Pitchfork, che ha incluso l’album nella sua top 5 per l’anno solare 2007.

Quali sono le novità nel mondo selvatico e ‘mitologico’ di Of Montreal?
Quella più evidente riguarda certamente l’ingresso di Ahmed Gallab, noto nel circuito col nome d’arte Sinkane. Questi è il nuovo batterista di ruolo, probabilmente alcuni di voi lo avranno visto in azione durante lo sfavillante ultimo tour di Caribou. Sinkane in realtà fronteggerà l’altro percussionista del gruppo Kev, per rendere ancora più tribale la musica dei nostri. Un’indicazione su quello che sarà il nuovo cimento in studio. "Skeletal Lamping", come nella tradizione delle loro performance dal vivo si impone per la sua genuina schizofrenia. I brani non solo manifestano dei repentini sbalzi di umore ed armonia, ma vivono di un contrasto lirico interno prossimo ad una vera e propria guerra di nervi. E come è lecito aspettarsi da un gruppo che spesso si esibisce con sgargianti abiti da scena, il leader Kevin non è un personaggio che ama le mezze misure, prendere o lasciare il suo motto: del resto lui il make up lo indossa anche fuori dal camerino. In buona sostanza abbiamo una persona che non vuole accondiscendere ai giudizi dei fans, della propria etichetta, né – tanto meno – a quelli della critica.

Qualche indizio su come possa suonare il nuovo disco?
E’ lo stesso Kevin a fare chiarezza /"Ci sarà costantemente una sensibilità pop nella nostra musica, perché io amo il pop, ma allo stesso tempo cerco di incorporare altri elementi. Ovviamente ci sono delle influenze funk, di pari passo ad alcuni ritmi hip hop. Mi sembra di avere molto più a che spartire con gli artisti hip-hop contemporanei che non con quelli di estrazione indie”/. Fuori I nomi allora…/"Mi è sempre piaciuta la roba che produce Danger Mouse, penso sia un grande. Allo stesso tempo penso che determinate cose di Timbaland siano eccellenti. Poi Pharell, un altro geniaccio."/ Un disco che si preannuncia ricco di colpi di scena, tanto per ribadire che gli Of Montreal col baraccone indie hanno poco a che spartire. Loro sono stelle. Di un’altra dimensione.

Ci godremo gli Of Montreal dal vivo in Italia molto presto, grazie ad una data programmata per il 18 ottobre a Roma al Circolo degli Artisti.

20/08/08

These Arms Are Snakes



Il suono dei washingtoniani, di Seattle, These Arms Are Snakes è un turbolento ibrido di post-hardcore ed angolare noise-rock. E’ una tradizione che ha i suoi nobili natali in quel di Washington DC – si pensi agli strabilianti due album di Nation Of Ulysses – ed un seguito nell’isteria tipica dei gruppi di San Diego. Dai Drive Like Jehu fino ad arrivare ai ‘maledetti’ Swing Kids. Un suono metallico e stridente, ipercinetico, che in realtà nulla ha a che spartire con le deficitarie evoluzioni nu-metal dei numerosi gruppi provenienti dal settore. These arms are Snakes sono divenuti in breve una delle più solide live band statunitensi; hanno diviso il palco con Minus the Bear, Blood Brothers, Big Business, Cursive, Mastodon, Against Me!, Isis, Pelican ed Hot Water Music, tanto per gettare ulteriori appigli all’informe massa dei più strenui seguaci underground.

Registrato presso il Red Room Recordings di Seattle, WA, con la produzione assistita del batterista Chris Common, "Tail Swallower & Dove" è il terzo album per These Arms Are Snakes, un ambizioso successore al precedente "Easter", che vedeva la luce nel 2006 per Jade Tree. In questi due anni, aldilà dei non trascurabili aggiustamenti musicali, dobbiamo infatti registrare il passaggio a Suicide Squeeze, nuovo marchio di garanzia intenzionato a sostenere oltre misura le gesta del quartetto. Non fatevi cogliere impreparati, quello che sta per arrivare sarà un album dall’impatto sicuramente voluminoso, ma gestito con maestria dalla band di Seattle, pronta a rilasciare momenti più riflessivi e a sviluppare soggetti tematici quanto meno morbosi (si dia un’occhiata a brani come Lucifer e Long and Lonely Step).

Potrete vedere la band in Italia insieme ai label mate Russian Circle in un'unica data prevista il 30 ottobre al Sottotetto di Bologna

15/08/08

Cambio di strategia

Burial ha evidentemente cambiato idea sul non far vedere in giro che faccia madre natura gli abbia dato. Sempre che sia davvero lui...

07/08/08

Spinto Band



L’antefatto: la giovane band che ci ha consegnato gli anthems 'Oh Mandy' e 'Brown Boxes' torna con un album completo a titolo 'Moonwink', in uscita a fine settembre per Fierce Panda. E’ il seguito del debutto lungo del 2006 'Nice And Nicely Done' (accolto trionfalmente dal magazine NME, che aveva acceso la candidatura come migliore rock band esordiente dell’anno). Il sestetto di Delaware, USA consiste ancora di Nick Krill (voce/chitarra), Jon Easton (chitarra), Thomas Hughes (voce/basso), Jeffrey Hobson (batteria), Sam Hughes (tastiere/voce) e Joey Hobson (chitarra/voce). Così come il loro suono continua a sposare un febbrile indie-pop dal retrogusto psichedelico.

Proviamo a tradurre: ci sono tutti gli elementi che hanno fatto la fortuna di generi così disparati come il glam inglese, il lo-fi, il rock da FM Americano e l’indie più trasognante. The Libertines, Pavement, ELO e Prefab Sprout. Ma potremmo continuare ad oltranza, gettando nel mezzo anche i Roxy Music o i Supergrass. E vi pare poco?

Il nuovo disco si presenta ricco in ogni suo aspetto, fortificando l’abilità di Spinto Band a scrivere canzoni pop mai banali: dove i cambi di tempo repentini, l’utilizzo multiplo della voce, le orchestrazioni per nulla convenzionali e le tessiture chitarrisitche parlano una lingua sicuramente originale. Con questo album Spinto Band si conferma tra le sorpresa della musica indipendente contemporanea, stupendo a maggior ragione per il suo passaporto americano. Che l’idea vi piaccia o meno questa è musica profondamente legata ad un immaginario continentale, ad un’idea di romanticismo nel pop, dove alle paillettes spesso si accompagnano momenti di assoluta decadenza.

05/08/08

Ad ottobre il nuovo album di Rose Kemp su One Little Indian



Il nuovo album di Rose Kemp “Unholy Majesty” è il successore di “Hand Full Of Hurricanes” che nel 2007 aveva colto di sorpresa più di un attento scrutatore delle vicende cantautorali britanniche. In particolare la voce di Rose, un piccolo uragano all’interno di una bottiglia di vetro, sembrava aver spezzato più di un cuore. Il suo ritorno è stato prodotto e mixato da Chris Sheldon (Foo Fighters/Amplifier/Biffy Clyro.)

Figlia d’arte – i suoi genitori Maddy Pryor e Rick Kemp erano tra i membri fondatori dei pionieristici Steeleye Span, uno dei gruppi fondamentali della scena folk rock inglese – Rose è riuscita a coniugare la passione per gli arrangiamenti acustici - ereditata in giovane età – con influenze di tutt’altra marca, fossero prog, gothic o addirittura heavy. La cosa che forse sconvolge più di tutte è la presenza di un’anima quasi doom-rock in “Unholy Majesty”, Rose del resto non ha mai fatto segreto di una recondita passione per le sonorità più aspre, tanto che i nomi di Black Sabbath e Melvins sembrano accompagnare prepotentemente la stesura dei primi pezzi del disco. Anche il drone-metal di Earth ed Om è un’altra viscerale influenza.

Parallelamente a quest’anima quasi marziale c’è un lato più docile che ricongiunge il percorso di Rose a quello degli stimati genitori. Un respiro folk, antico, soave. Corde pizzicate ed una voce che sussurra, dopo l’urlo quasi primordiale delle prime battute. E’ un lavoro all’insegna della varietà, del rischio. E forse l’autentico collante è rappresentato da quegli episodi in odor di rock progressivo, dove il gusto per i synth analogici e le atmosfere psichedeliche funziona da punto di raccordo tra le melodie ancestrali ed i ritorni in salsa heavy.

Originaria di Bristol, Rose è figlia della locale scena, e facendo propri gli ‘ordinamenti’ del do it yourself è riuscita ad emergere prepotentemente nella mappatura dei grandi luoghi di aggregazione britannici, mettendosi all’opera in progetti laterali particolarmente entusiasmanti ed aprendo dal vivo per istituzioni alternative d’oltremanica come Oceansize e Amplifier.

Un disco che senza ombra di dubbio vi sconvolgerà, recidendo una vola per tutte le corde con quella che comunemente è intesa tradizione pop al femminile. Rose ha tirato fuori gli artigli, ed è pronta a mostrarli fieramente.